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Recensione a “Il Lamento dei morti. La psicologia dopo Il Libro Rosso di Jung”

Rivista annuale a cura del Centro Italiano di Psicologia Analitica Istituto di Roma e dell’Italia centrale

Invito alla Lettura

2015 Numero 4 Invito alla Lettura

A CURA DI FRANCESCO DI NUOVO E ROBERTO MANCIOCCHI La rubrica Invito alla lettura propone indicazioni in merito ai contributi più attuali e significativi della psicoterapia con uno sguardo attento agli attuali sviluppi del pensiero teorico; sarà ovviamente presente una forma di dialogo con la letteratura, la filosofia, le neuroscienze e le arti. La rubrica sarà, a seconda dei numeri, completata da una sezione di recensioni, nella quale alcuni psicoterapeuti commenteranno le più interessanti novità del panorama italiano e internazionale.

Recensione a “Il Lamento dei morti. La psicologia dopo Il Libro Rosso di Jung”

James Hillman e Sonu Shamdasani Il Lamento dei morti. La psicologia dopo Il Libro Rosso di Jung
Bollati Boringhieri, Torino 2014, pp. 206, €23,00

Nella lettura di questo libro si è immediatamente catturati da due sensazioni contrastanti: la leggerezza dello stile, una chiacchierata tra due amici, e la densità di temi e di interrogativi che toccano nel profondo. Gli interlocutori, James Hillman e Sonu Shamdasani, due tra gli esponenti più importanti della comunità scientifica junghiana, si confrontano in quindici conversazioni a Los Angeles, nel Connecticut e a New York, per ripensare in modo dialettico lo sviluppo a cui è giunta la psicologia attuale. La disamina di una scienza da riguardare con occhi nuovi, da ripensare nella sua natura, funzionamento e finalità, si rivela particolarmente feconda nel confronto tra due differenti vertici di osservazione. La visione storica di Shamdasani analizza in modo retrospettivo la genesi della psicologia, la visione profetica di J.Hillman si proietta nel futuro ipotizzandone l’evoluzione.

Il lamento dei morti riparte dalla grande intuizione di Jung sulla malattia del nostro secolo, schiacciato sul presente e sofferente perchè orfano delle sue radici storiche. Si prospetta come un tentativo di riavvolgere un filo sulla storia della psicologia per ritrovarne il bandolo di senso che a tratti sembra perdersi. Lo studio della mente sembra sempre più sottratto alla psiche e imprigionato in  circuiti e aree cerebrali, modelli teorici ed etichette psicopatologiche che ne soffocano la complessità. La malattia endemica della contemporaneità si estende così anche alla psico-logia che Jung, non a caso, mette a nudo attraverso le riflessioni e la discesa negli abissi della psiche che è il Libro Rosso. Il testo di Jung diviene per i due autori, al contempo, uno spartiacque tra il passato e il presente della psicologia e una pietra miliare di cui tener conto per orientarne l’evoluzione.

Quella lettura della psiche che esaurisce l’introspezione all’individuazione di costrutti o fantasie riconducibili solo alla nostra storia personale, nel Libro Rosso si stempera, per rendere giustizia ai temi ancestrali della storia umana. Come sottolineano i due autori, Jung non incontra la vita personale, il trauma, ma la storia umana. «[…]incontra l’immaginazione, è questo il personale profondo, che libera me o chiunque dall’introspezione costante del cosa non va in me,è la malattia degli ultimi 100 anni: cogito ergo sum ».( Hillman J., Shamdasani S. 2014,  p.93)  Chi fosse intrappolato nella visione unilaterale del mito dell’eroe, nella storia dell’umanità potrebbe ritrovare quelle figure, quelle scene, quei paesaggi e quegli insegnamenti che riconducono alle radici della personalità. I morti, secondo i nostri autori, rappresentano quello che la nostra cultura con i suoi pregiudizi ha sepolto.

Questo luogo psichico « […] è il deposito dove si accumula tutta la storia della psiche umana, la storia dell’anima» (ivi, p.157). Ma come si possono udire i nostri morti? Jung suggerisce  una via d’accesso: la fantasia, ma anche la consapevolezza che la vita è solo un pregiudizio,una ipotesi. E’ uno spazio di lavoro sospeso in mezzo ad un continuum più grande, tra due misteri: quello che ci ha preceduti e quello che diventeremo. Nel Liber Novus Jung sembra avventurarsi sia a livello culturale che personale, verso una profonda rivoluzione della psicologia del Novecento. Il suo primo tentativo per lasciare spazio ai vissuti è quello di ricorrere alle personificazioni, ma questo come sottolinea Shamdasani, non esaurisce per lui la domanda del come, ‘del processo’.

Attraverso una relazione diretta, vissuta, con le figure del passato Jung si espone al conflitto tra personalità numero uno e numero due, tra la psicologia come arte e come scienza, ma, soprattutto, ad una riflessione sul linguaggio della psiche. Tale linguaggio, nell’ottica junghiana, risulta correlato all’attività  di differenziazione e integrazione della personalità sia a livello individuale che collettivo. Assume sia una funzione di comunicazione tra membri di una comunità, sia di espressione, a livello individuale, di stati d’animo e pensieri attraverso l’esercizio della parola. Jung mette ripetutamente in risalto la necessità di affiancare, nell’analisi dell’inconscio, al segno della convenzione linguistica la ricchezza inesauribile del simbolo, per riscoprire attraverso di esso tutto ciò che è irriducibile ad ogni codificazione.

Il rischio infatti è quello di cercare protezione nella fissità dei segni per mettersi al riparo dalla vita. Si va così incontro al rigor mortis del segno istituzionalizzato, che fa della cultura il teatro di una follia solitaria. Sul fronte opposto Jung legge, ad esempio, la genialità di Joyce e Picasso nella rottura degli schemi del linguaggio,rinvenendone il limite, tuttavia, dell’incistamento nella soggettività espressiva. Il compito più arduo invece è, a suo dire, quello di spiegare ad altri il senso della discesa agli inferi e riportarlo nel mondo. L’individuazione diviene allora dialettica tra interno ed esterno, tra passato e futuro, tra Logos ed Eros. Nel Libro Rosso Jung lascia l’Eros, Eva, irrompere e rompere l’unilateralità ricca di conferme del suo Io, della carriera, degli studi, per farsi afferrare dallo spirito di quello che non  è utile, intenzionato, e accogliere in sé quanto c’è di più piccolo, ripugnante, meschino. Non per punizione o per un progetto di redenzione, ma come farmaco di vita. Il linguaggio di Eros accoglie, ospita, ci fa patire la divinità come dio ferito, come atto d’amore verso la nostra parte fragile e fa morire la parte eroica che ci aveva ammantato di vittoriosa impenetrabilità.

È la lingua dell’Eros che ci convince a lasciare l’Eden per incontrare la nostra povertà. «L’opposto, la quarta funzione si insinuano come un morbo, un veleno una febbre[…] ti portano dritto sulla via del tuo inferno personale»[1]. Così, secondo Hillman e Shamdasani, si recupera ciò che è passato, umile e irredento, come grida lo sciame dei morti che ci precedono e ci perseguitano se non sono stati onorati, come lo stuolo di pellegrini che suonano al campanello di Jung nel 1916, risvegliando i Septem sermones ad mortuos. La coscienza psicologica, come disposizione ad integrare l’inconscio in una visione più ampia, è un mezzo per adoperarsi al compito di creare una propria individuale sinergia con l’inconscio. Lo spirito dei nostri tempi ha recepito l’idea di analisi dell’inconscio a beneficio del massimo potenziamento possibile della coscienza.

Il lavoro di Jung e la sua esperienza immaginativa, mettono l’accento sulla necessità di lavorare con l’inconscio non sull’inconscio. Solo se la parola e il linguaggio della psicologia si nutrono non di cifre, numeri, statistiche, ma della potenza di Eros, dell’Altro, il fondamento della rappresentazione di parole assume spessore, diventa traccia che si iscrive affettivamente nella esperienza vitale  e ne restituisce senso. Il vero compito della psicologia diviene allora ricollocare la nostra coscienza, prendersi cura di quella soglia di mutua  permeabilità tra conscio e inconscio. E’ il delinearsi di un atteggiamento che non si identifica né con le ipotesi formulate dall’Io, né è incline a divinizzare le esperienze dell’inconscio, ma che ondeggia in modo fluido, liquido, tra le due dimensioni senza una finalità predefinita. Il senso portante della psicologia in quest’ottica, risiede nella effettiva capacità di dare vita ad una consapevolezza radicata nella natura psichica dell’essere umano e ad un impegno etico rivolto al mondo intorno.

Ma tornando al linguaggio della psiche, forse, come suggerisce J. Hillman, le arti e la letteratura possono esprimere meglio della psicologia questa soglia di permeabilità? La visione di Shamdasani sembra proteggere dal rischio di una nuova alternativa : «Forse il punto non è tanto la rinascita in senso positivo, cioè il fatto di riportare i morti nel presente, quanto la necessità di imparare a vivere tra le ombre, stare in mezzo a ciò che è già qui ma non è tangibile» (Hillman J., Shamdasani S. 2014, p.197). Non quindi una nuova psicologia che imiti o si appropri dei linguaggi della letteratura e delle arti, ma: « [..]sforzarsi di lottare con i limiti, le pretese di un certo tipo di comprensione, imparando dal rispetto, dalla umiltà che tanti capolavori dell’arte e della letteratura mostrano nei confronti della inspiegabilità della natura umana.[..] Un altro modo di dirlo è che i morti, sono anche la ricchezza della cultura umana» iIbidem).


Note

  • [1] Jung C.G. (1913-1930), Il libro Rosso. Liber Novus, Bollati Boringhieri, Torino 2010, p.264

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