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Poetica analitica: tra metodo psicoanalitico e poetica dell’arte

Rivista annuale a cura del Centro Italiano di Psicologia Analitica Istituto di Roma e dell’Italia centrale

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2022 Nuova Serie Numero 3 Aperture

A CURA DELLA REDAZIONE Cosa ne sarebbe della psicologia analitica, ma anche della psicoterapia più in generale, se essa si chiudesse esclusivamente all’interno della propria stanza? Se è vero che è nell’intimità sacra dello spazio di lavoro che si coagulano i processi di cura, è anche vero che solo nell’apertura all’esterno essi trovano lo spazio per respirare, esistere, radicarsi e restare vitali. In questa rubrica, lo sguardo analitico degli Autori si volgerà verso l’esterno – arte, vita, esperienze… – alla ricerca di connessioni, legami, contaminazioni, affinché il ritmo vitale del dentro/fuori, interno/esterno apra alla possibilità di una riflessione analitica sempre vivace e feconda.

Poetica analitica: tra metodo psicoanalitico e poetica dell’arte

Introduzione

Il mio scritto è la rielaborazione di un lavoro inedito, pubblicato sotto forma di articolo di blog per l’associazione Lapaginabianca.docx (Di Marco 2022a) e il giornale web Lanterna (Di Marco 2022b). Ciò che mi ha spinto a scrivere e condividere le riflessioni che seguono, è stato l’evento Psicoanalisi e stati primitivi/creativi della mente, una tavola rotonda tenutasi il 25 giugno 2022 presso il Centro Italiano di Psicologia Analitica (CIPA) di Roma. In vista della preziosa occasione di dialogo con gli analisti della Società Psicoanalitica Italiana (SPI) Mauro Manica e Maria Grazia Oldoini, mi sono cimentato nello studio del loro libro Fearful Symmetry. Spaventose simmetrie (2019). In particolare, ho approfondito e ampliato alcuni dei temi del primo capitolo della terza parte, ovvero Che cosa uccide la poesia? Antonia Pozzi e la lirica dei diversi aspetti del Sé. La tragica vicenda della poetessa sarà la stella polare di questo scritto in cui arte e psicoanalisi dialogano in virtù di un linguaggio comune, quello degli affetti. L’idea di fondo è che la capacità di tradurre contenuti ad alta carica affettiva in rappresentazioni dotate di significato, possa essere un sentiero condivisibile e dall’artista e dall’analista. Il primo con la sua poetica, il secondo con il suo metodo, ma entrambi con uno scopo comune: dare forma al senza forma. Ne parlerò in prospettiva intergenerazionale, servendomi dell’esempio del docufilm Un’ora sola ti vorrei (Marazzi 2002); ma anche facendo riferimento alla psicoanalisi ‘classica’, grazie a un celebre articolo di Donald Winnicott (1947); per non parlare del contributo di un altro promotore delle ‘capacità negative’, l’analista britannico Charles Rycroft (1979); senza escludere, infine, alcune delle suggestioni più affascinanti di due esegeti del Bion mistico, ovvero James Grotstein (2007) e Giuseppe Civitarese (2021).

Due sguardi

Il capitolo di Fearful Symmetry che ha ispirato le mie considerazioni racconta la triste vicenda di Antonia Pozzi (Manica, Oldoini 2019, pp. 229-256), morta suicida a soli 26 anni. Una giovane donna, poetessa e Laureata d’onore all’Università di Milano, che è dovuta soccombere a un male di vivere fin troppo grande e nascosto per essere sopportato. In questo scritto tratto da un precedente lavoro di Mauro Manica, Intercettare il sogno (2014), viene narrata la vita di Antonia attraverso le sue poesie e le sue lettere. Ma anche la sua tesi di laurea, dedicata alla Bovary di Gustave Flaubert, è ricca di spunti e riflessioni che parlano di una contraddizione. Il conflitto irrisolvibile tra l’essere e il dover essere.

«Antonia cresce tra rigori formali e sostanziali dimenticanze» (Manica, Oldoini 2019, 245), ricorda Manica in una nota a piè di pagina, attraverso le parole di Alessandra Cenni, biografa della poetessa. E, in un’altra nota, l’autore riporta come Antonia sentisse una certa affinità col personaggio di finzione Tonio Kröger, dell’omonimo racconto di Thomas Mann, il quale «affronta la problematica del conflitto tra vita ed arte […] del difficile rapporto con la vita degli individui in qualche modo ‘diversi’ […] soggetti artisticamente dotati che non riescono però […] a godere delle bellezze dell’esistenza più semplice e quotidiana» (ivi, 244). Tali suggestioni mi hanno fatto pensare a un’altra ‘esistenza mancata’: la vita di Luisa ‘Luisella’ Marazzi Hoepli.

Sono molto affezionato al film documentario del 2002, Un’ora sola ti vorrei, realizzato da Alina Marazzi – figlia della Hoepli – con foto, diari e pellicole d’epoca rinvenute in soffitta a trent’anni dalla morte della madre. Una morte tragica, anche in questo caso, poiché Luisa muore suicida nel maggio del ’72, dopo alcuni anni di case di cura, in Italia e all’estero. Non ho potuto fare a meno di rinvenire delle analogie nel modo in cui entrambe le donne, Antonia e Luisa, hanno subìto il contrasto Nature/Nurture, natura contro cultura: nell’apparente agiatezza e spensieratezza della vita borghese sono state assalite da un nemico invisibile, che infine ha avuto ragione di entrambe. Ovviamente è impossibile mettere a confronto due vite diverse, tanto più se separate da trent’anni di storia, con un conflitto mondiale in mezzo. Tuttavia, non riesco a fare a meno di pensare che Antonia e Luisa abbiano espresso questo loro male di vivere attraverso un linguaggio comune. Quello della rêverie dell’arte, che nelle parole di Manica consente «di oltrepassare la mancanza che si realizza attraverso lo sguardo assente o invadente dell’altro» (ivi, p. 255). E se per la giovane poetessa tale rêverie, il tentativo di elaborare una mancanza, è rimasto incompleto – lo osserviamo noi dall’esterno, in vitro – mi viene da dire che per Luisa Hoepli il processo di elaborazione abbia attraversato le generazioni fino a trascendersi. Il film della figlia Alina è la vittoria sul lutto, la possibilità dell’arte di recuperare, forse inventare, lo sguardo di una madre morta troppo giovane e troppo inspiegabilmente per una bambina di otto anni.

Per concludere questa mia prima considerazione, ci tengo a riportare quanto ho ascoltato in occasione della giornata di studio La scrittura della cura. Scrivere come cura, svoltasi al CIPA di Roma il 30 aprile dell’anno 2022 (Gigante, Romano 2022). Quel giorno, lo psicologo analista Augusto Romano ha evidenziato l’immenso valore che hanno le immagini – filmiche, pittoriche, qualsiasi simbolo – nel tradurre le emozioni in qualcosa di sopportabile e digeribile. E lo ha fatto ricordando come Carl Gustav Jung, nel suo Libro Rosso, abbia trovato nelle immagini un potente antidoto contro l’energia incontenibile degli affetti. Infatti, è grazie alle tavole che compongono il volume, alla loro qualità estetica e catartica, che Jung si salvò dall’angoscia dell’irrappresentabile. In tal senso, l’arte come pura espressione emotiva assume il gravoso compito dell’autocura, sebbene l’esito del processo sia tutt’altro che scontato. Per esempio, nella traduzione intergenerazionale del lutto operata con il film documentario, Alina Marazzi sembra elaborare il dolore di madre e figlia al punto da affrontare non una meccanica sublimazione, ma una vera e propria trasformazione dell’affetto. Per Antonia Pozzi, d’altra parte, la poesia ha garantito una metamorfosi solo parziale, impedendole l’accesso a una dimensione relazionale capace di lenire il dolore.

Buon odio

La mia seconda considerazione che ha per sfondo la vicenda di Antonia Pozzi riguarda due sentimenti fondamentali: odio e amore. Non si tratta solo dei fuochi principali di ogni espressione artistica, ma anche di due capisaldi del pensiero psicoanalitico fin dai tempi di Sigmund Freud (1920). Queste pulsioni primarie sono sopravvissute all’evoluzione della disciplina, trovando un posto di rilievo anche nella trasformazione teorica di Wilfred Bion. L (Love) e H (Hate), con carica + (plus) o – (minus), sono «i derivati emotivi, capaci di legare o unire, di quelle che Freud aveva ritenuto fossero le pulsioni», scrive Manica in una nota a piè di pagina di Fearful Symmetry (Manica, Oldoini 2019, p. 246). Nel paragrafo Quale psicoanalisi per Antonia Pozzi? (ivi, pp. 247-252), l’autore considera l’ipotetico terapeuta che avrebbe potuto prendersi cura della giovane poetessa. E lo fa con un’analogia ripresa dal pensiero del teologo e psicoanalista tedesco Eugen Drewermann che, ne Il cammino pericoloso della redenzione (1995), afferma: «È Dio che ama per primo». Manica completa così il pensiero: «non può essere l’uomo, nella sua finitudine, a doversi meritare l’amore di Dio» (Manica, Oldoini 2019, p. 251). La metafora religiosa si può adattare a due relazioni fondamentali del lavoro analitico: quella bambino/caregiver e quella paziente/terapeuta. Secondo lo psicoanalista della SPI, sarebbe un amore che viene dall’alto, disinteressato e incondizionato, l’unico rimedio a una fame di affetti insaziabile come quella che ha consumato Antonia. Un amore che non è finalizzato alla gratificazione narcisistica di chi lo offre, un amore del proprio riflesso. Ma è amore per l’altro riconosciuto nella sua diversità. A questa verità clinica, resa così bene da Mauro Manica, vorrei aggiungere una postilla: se questo discorso è fondamentale per l’amore, deve valere necessariamente anche per l’odio.

Hate in the Counter-Transference è un articolo di Donald. W. Winnicott (1947), ormai classico per il pensiero psicoanalitico. Negli anni ’40, quando le reazioni emotive dell’analista erano tabù per il mainstream della disciplina, affermare che è possibile provare un odio ‘obiettivo’ per i pazienti ha del rivoluzionario. È uno dei primi casi in cui un’idea relazionale, così poco ortodossa, non incorre nella scomunica della psicoanalisi ufficiale. E, sebbene oggi sia difficile parlare di controtransfert senza includere il transfert e viceversa, ho preso in considerazione il discorso winnicottiano sull’odio proprio perché trovo che sia complementare a quello sul genitore/terapeuta che deve amare per primo. Infatti, una mente che si forma, una mente di bambino, per crescere ha bisogno di attingere direttamente alla materia grezza, ovvero alle emozioni del genitore. Se ha bisogno di vivere l’amore per poter amare, così ha necessità di sperimentare l’odio. Non solo per scoprire come fare buon uso della propria aggressività – senza vergogna, senza compiacenza, senza ipocrisia. Ma anche e soprattutto per poter accedere a un amore autentico (ivi, p. 353), che resiste agli inevitabili conflitti della vita. Un amore capace di perdonare, a cui serve sporcarsi d’odio per accettare che l’altro, nella sua diversità, non è esattamente come lo vorremmo.

Forse una gabbia dorata, fatta di «rigori formali e sostanziali dimenticanze» (Manica, Oldoini 2019, p. 245), ha soppresso in Antonia quell’odio che è precondizione di un amore genuino. Il suo odio non tradotto è diventato una non-cosa, un quid irrappresentabile che distrugge i legami d’amore. Un «salvatore oscuro» -K (minus knowledge), nelle parole di Grotstein (2007). Per Antonia Pozzi, non essere vista nello sguardo d’odio/amore dell’altro ha precluso la possibilità di accedere a quei sentimenti anche dentro sé stessa. La compiacenza, necessaria a sopravvivere sul piano materiale, ha ucciso la sua poesia. Poesia che ha rappresentato il disperato tentativo di tradurre l’emotività privata in vere e proprie relazioni affettive.

Primato della forma

Nel paragrafo finale dedicato alla poesia di Antonia Pozzi (Manica, Oldoini 2019, pp. 252-256), ho trovato una preziosa riflessione sull’arte e la sua genesi che mi ha fatto pensare alla vecchia diatriba tra psicoanalisti e scrittori, secondo cui i primi potrebbero servirsi dell’opera d’arte come strumento di analisi dei secondi. Come ricorda Charles Rycroft, un analista inglese ‘romantico’ quasi quanto Bion, Freud aveva gettato il pomo della discordia imparentando il pensiero onirico e quello creativo alla nevrosi (Rycroft 1979, p. 265). Manica contrappone alla patologizzazione dell’arte sia il pensiero di Jung che quello di Imberty, entrambi per la «necessità di difendere una psicoanalisi dell’opera dal riduttivismo implicito ad un’analisi dell’autore» (Manica, Oldoini 2019, p. 253). Io aggiungo a questa difesa degli artisti la prospettiva del succitato Rycroft, che in Psychoanalysis and the Literary Imagination, affronta la questione partendo da basi molto solide, radicate nella biologia, citando nientemeno che Charles Darwin: «L’immaginazione è una delle facoltà umane più alte […] Sognare ne è il miglior esempio; come afferma nuovamente Jean-Paul [Richter], ‘Il sogno è un’involontaria forma di poesia’» [1] (Rycroft 1979, p. 269). A tal proposito, proseguendo nella mia riflessione tra poetica dell’arte e metodo analitico, è proprio sulla poesia che vorrei soffermarmi. In particolare, sulla poesia come generatore di forma in contrapposizione al traumatico, inteso come spinta verso l’irrappresentabile: due poli del conflitto che ha dilaniato Antonia Pozzi.

Nella giornata di studio L’immaginazione: funzione formativa ed impiego clinico del 20 novembre 2021 al CIPA di Roma, è intervenuto il candidato analista SPI Gabriele Cassullo. Nella sua presentazione di un caso clinico alla luce delle riflessioni di Charles Rycroft, ricordo che Cassullo ha utilizzato un’immagine molto evocativa per rappresentare il concetto di traumatico: una pastiglia effervescente. O meglio, il processo dell’effervescenza stessa, in cui la pastiglia non esiste già più e resta soltanto una nube di fluido che continua a ribollire. L’immagine dell’effervescenza credo rappresenti bene come Antonia Pozzi sia stata consumata, non tanto da una ferita specifica – la pastiglia-trauma che non si vede – ma da una mancanza originaria che ha prodotto, incessantemente, infiniti micro-traumi. Questi continui piccoli colpi sono le bolle dell’effervescenza, danni che di per sé non sono fatali, ma che alla lunga possono ostacolare il continuum dell’esperienza e disturbare l’armonia della lirica dei diversi aspetti del Sé (Manica, Oldoini 2019, pp. 229-256).

Ma c’è un altro prezioso contributo rycroftiano che vorrei ricordare, uno che esplicita maggiormente il profondo legame – stavolta in positivo – tra psicoanalisi e arte. Per l’analista inglese, un artista non è un nevrotico che non ce l’ha fatta, ma colui che si considera «parte dell’universo, capace di assorbirlo nella sua interezza per poi ricrearlo per distillazione nel proprio lavoro creativo» [2] (Rycroft 1979, p. 274). L’idea di un ponte tra l’artista e l’universo di cui si fa interprete, mi fa pensare alla proposta di Manica di una «divaricazione tra l’Io (Sé) mondano dell’artista e l’Io (Sé) creatore» (Manica, Oldoini 2019, p. 252) – una visione che evoca alcune tra le idee più suggestive del pensiero di Jung: l’identità Psiche-Mondo, la compenetrazione di inconscio individuale e inconscio collettivo, la complementarità delle parti del Sé. Per Antonia Pozzi, l’Io creatore della poesia tenta il salvataggio dell’Io mondano, ferito da legami relazionali inadeguati. Ma per ogni poesia, per ogni tentativo di dare forma alla sofferenza, c’è una ‘bolla’, una micro-ferita che annulla lo sforzo creativo, così che il dolore torni a essere invisibile e insopportabile. Eppure, questa lotta impari fra processo traumatico e pensiero poetico sembra affermare ancora una volta che il conflitto si combatte su un terreno comune, quello della forma. Tanto che Mauro Manica parla di «primato della forma, come aspirazione al dare rilievo simbolico alle cose, ai fatti traumatici, agli elementi non digeriti e non sognati» (ivi, p. 253). Purtroppo, per la giovane Antonia, l’aspirazione di cui parla l’autore è rimasta tale. La guerra con l’irrappresentabile, alla lunga, ha consumato la sua poesia. Lo sforzo creativo atto a tradurre in legami d’amore il suo universo sentimentale non è stato sufficiente. Forse, uno sguardo benevolo negli occhi dell’altro avrebbe potuto completare la trasformazione della poesia: da assolo di una parte isolata del Sé a vera e propria lirica dei suoi diversi aspetti.

L’altrui verità

L’ultima riflessione che porto si ispira a due esperienze formative presso il CIPA di Roma. La prima è stata la partecipazione al gruppo di ricerca Il cambiamento in analisi tra rêverie e funzione trascendente, coordinato da Lorenzo Zipparri. Qui ho scoperto un concetto fondamentale che James S. Grotstein descrive nel suo Un raggio d’intensa oscurità: la posizione trascendente (2007, pp. 137-150). Al paragrafo La teoria kantiana della trascendenza e del trascendentalismo, l’autore afferma: «Ritengo che la riverenza, il timor sacro e il vertice estetico siano altre manifestazioni di O» (ivi, p. 150). O è uno dei capisaldi del pensiero del Bion mistico, un’idea che meriterebbe un lavoro a parte per essere presentata in modo dignitoso. Ai fini del mio lavoro, etichetterò O semplicemente con alcune espressioni coniate dallo stesso Bion:

«Verità assoluta» e «Realtà ultima» [3]. Secondo altre note perifrasi, O è ciò che resta perennemente al di là dell’esperienza. Un processo più che una cosa, che non può mai essere vissuto in prima persona: «non si esperisce veramente O, si esperisce essere O», scriveva Grotstein (ibidem). Questo, a mio parere, si traduce in due modi: da un lato c’è O come assenza che toglie significato; l’esperienza di una realtà senza filtri che la psiche è incapace di accogliere; un negativo che attacca il legame, tanto che Mauro Manica fa riferimento al -K (minus knowledge) letteralmente, conoscenza negativa – per esprimere la sofferenza irrappresentabile di Antonia (Manica, Oldoini 2019, 246). Ma, d’altra parte, O può essere anche un vuoto potenziale, un processo emotivo di sintonia con l’altro e col mondo: l’esperienza soggettiva di dare senso e significato alle cose. Nella poesia, così come in ogni opera d’arte, provare a stare al di là dell’esperienza, in un vuoto che può essere tutto e niente, è un passaggio fondamentale sia per l’atto creativo sia per la fruizione dell’opera. Per rendere più esplicito tale passaggio, prenderò in prestito un’immagine che il fisico e sinologo Shantena Sabbadini utilizza nella sua traduzione dell’I Ching per spiegarne il funzionamento (Sabbadini, Ritsema 2017, p. 21).

Si consideri una clessidra:

  1. la prima pancia, quella superiore, è la realtà con il suo infinito caos di elementi sensoriali, materia grezza che non può essere digerita dalla nostra psiche;
  2. poi c’è la strozzatura della clessidra, un punto in cui l’esperienza viene incanalata in modo ordinato e diventa accessibile alla mente;
  3. infine c’è la seconda pancia, quella inferiore, da cui l’esperienza torna nella realtà sottoforma di infinite interpretazioni.

Nella metafora della clessidra, O sarebbe lo scorrere dell’esperienza attraverso la strozzatura, il punto di congiunzione tra la realtà grezza e la sua rielaborazione: un processo trasformativo fondato sulle emozioni.

La seconda esperienza formativa a cui facevo riferimento a inizio paragrafo è stata la partecipazione al laboratorio di Elena Gigante, Fenomenologia dell’arte e dei processi simbolici, dove ho conosciuto un altro importante interprete di Bion, stavolta italiano. Sto parlando dell’analista SPI Giuseppe Civitarese (2021), il cui articolo L’identità di terribile e felicità: sublime, sublimazione e unisono nell’arte e nella psicoanalisi mi ha aiutato a comprendere meglio alcuni aspetti di Fearful Symmetry. Civitarese, infatti, scrive che il sogno e la poesia rappresentano una «straordinaria opportunità, ogni volta, di avere più punti di vista sul mondo, tutte interpretazioni ma, in quanto condivise, non arbitrarie» (ivi, p. 10). Anche in questo caso mi viene in aiuto immaginare la strozzatura della clessidra: un punto in cui la realtà oggettiva e la nostra soggettiva interpretazione di essa si toccano. Ma c’è un’altra metafora su cui vale la pena di riflettere, stavolta dello stesso Civitarese, una che stravolge la visione classica del metodo analitico, tradizionalmente associato all’operare asettico del chirurgo. Superando questa visione rigida e distaccata, Civitarese propone che un analista sia un pittore più che un chirurgo, qualcuno

«che deve rendere pensabile lo spavento e trasformarlo in esperienza estetica» (ivi, p. 12). Qui lo spavento è quello dell’incontro con l’altro e con la realtà che esso rappresenta. Perché la realtà, di per sé, non ha senso né forma e, se non sufficientemente simbolizzata, rischia di diventare un buco nero che inghiotte ogni cosa. L’analista allora può diventare l’esperienza di O del paziente, la strozzatura per cui passa la trasformazione che restituisce senso e significato. Perché una realtà che non ha senso è come una landa desolata in cui non si trova niente per cui valga la pena di vivere. Un’esperienza insopportabile per qualsiasi essere umano, a maggior ragione per un animo sensibile come quello della poetessa Antonia Pozzi.

Conclusioni

Alla fine di questo viaggio tra metodo e poetica, psicoanalisi e arte, vorrei lasciare una commemorazione e una domanda.

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Il 13 febbraio 2022 sono trascorsi 110 anni dalla nascita di Antonia Pozzi. Per ricordarla, Eugenio Giannetta ha scritto un pezzo per Avvenire del 14 maggio (2022, p. 19), dove racconta della tre giorni letteraria in onore della scrittrice: L’età delle parole è finita per sempre? Nell’articolo sono citate le parole di Graziella Bernabò, biografa di Antonia: «A volte la grande sensibilità si paga sul piano della vita, ma paradossalmente è una risorsa per il mondo. Per la sua sensibilità Antonia Pozzi si è aperta al dolore, ma anche alla bellezza del mondo». L’idea della sensibilità come apertura ai dispiaceri e alle gioie della vita mi fa venire in mente uno dei capisaldi della psicologia complessa: «Solo il medico ferito guarisce» (Jung 1961, p. 173). Perché è proprio questa ferita nell’animo umano, questa sensibilità, che permette di entrare davvero in contatto col prossimo. Solo dopo questo contagio è possibile trasformare il dolore in bellezza, così che la ferita diventi una finestra su un mondo in cui vale la pena di vivere.

E ora la domanda.

Se consideriamo la nuova psicoanalisi una psicoanalisi dei contenitori – ♀ (female) nel gergo di Bion – e se contenere «vuol dire dare un senso all’esperienza emotiva grezza» (Civitarese 2021, p. 13) grazie a un contatto umano con l’altro.

Se «esperire essere O» (Grotstein 2007, p. 150) significa vivere l’unisono di un’esperienza emotivamente condivisa, nella stanza di terapia o di fronte a un’opera d’arte.

Allora si può dire che l’artista non è altro che colui che riesce a mettere la propria esperienza emotiva a disposizione del prossimo? Qualcuno in grado di catturare affetti che esistono al di là dei nostri sensi e tradurli in esperienza grazie alla propria poetica?

E un analista che affronta l’indicibile della sofferenza altrui, non ha forse questo stesso compito?

Note

  • [1] La traduzione è mia, il virgolettato dell’autore.
  • [2] Anche questa traduzione è mia.
  • [3] Così viene tradotto anche il Tai Chi, il simbolo cinese che include gli opposti yin e yang.

Bibliografia

  • Civitarese G. 2021, L’identità di terribile e felicità: sublime, sublimazione e unisono nell’arte e nella psicoanalisi, in «Atque», vol. 29, nuova serie.
  • Di Marco I. 2022a, Poetico traumatico, https://www.lapaginabiancadocx.com/item/92-poeticotraumatico (consultato il 30/09/2022).
  • Di Marco I. 2022b, Poetico traumatico, https://www.lanternaweb.it/poetico-traumatico/ (consultato il 30/09/2022).
  • Drewermann E. 1995, trad. it. Il cammino pericoloso della redenzione. La leggenda di Tobia interpretata alla luce della psicologia del profondo, Queriniana, Brescia 1999.
  • Freud S. 1920, Al di là del principio di piacere, in OSF, vol. 9, Bollati Boringhieri, Torino 2000. Giannetta E. 2022, Antonia Pozzi, parole dalle vette della solitudine, in «Avvenire», Avvenire Nuo-
  • va Editoriale Italiana, Milano.
  • Gigante E., Romano A. 2022, La scrittura della cura. Scrivere come cura Mattina [Youtube], Roma.
  • Grotstein J.S. 2007, trad. it. Un raggio di intensa oscurità. L’eredità di Wilfred Bion, Raffaello Cortina Editore, Milano 2010.
  • Jung C.G. 1961, Ricordi, sogni, riflessioni, a cura di Jaffé A., Rizzoli, Milano 1998.
  • Manica M. 2014, Intercettare il sogno. Sviluppi traumatici e progressione onirica nel discorso psicoanalitico, Borla, Roma.
  • Manica M., Oldoini M.G. 2019, Fearful symmetry. Spaventose simmetrie. Psicoanalisi e stati primitivi/ creativi della mente, Celid, Torino.
  • Marazzi A. 2002, Un’ora sola ti vorrei, Mikado Film, Roma.
  • Rycroft C. 1979, Psychoanalysis and the literary imagination, in Fuller P. (a cura di), Psychoanalysis and Beyond, Chatto & Windus, Londra 1985.
  • Sabbadini A.S., Ritsema R. 2017, I Ching. Il libro dei mutamenti, Feltrinelli, Milano.
  • Winnicott D.W. 1947, Hate in the Counter-Transference, in «Journal of psychotherapy practice and research», vol. 3, fasc. 4, 1994.
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