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Del senso e del nonsenso. La talking cure come pratica performativa

Rivista annuale a cura del Centro Italiano di Psicologia Analitica Istituto di Roma e dell’Italia centrale

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2022 Nuova Serie Numero 3 Incontri al CIPA

A CURA DELLA REDAZIONE La rubrica intende attingere ai vari momenti di confronto, di riflessione e di ricerca che hanno avuto luogo nel nostro Istituto. La possibilità di ritornarvi, dunque, grazie alla pagina scritta e di farsi traccia e testimonianza, nel tempo, di percorsi e dei fermenti della nostra Associazione.

Del senso e del nonsenso. La talking cure come pratica performativa

L’‘arte’ in senso estetico moderno potrebbe ancora sopravvivere […] solo se continuasse a ‘parlare’ e solo se più direttamente ‘parlasse’ (forse non solo con la parola) del senso e del non-senso di cui aspira a essere portatrice esemplare.
Garroni 1992, p. 233

Se dovessi tentare di descrivere a un bambino cosa significa ‘fare analisi’, non mi riferirei tanto all’immaginario medico-sanitario, parlandogli per esempio di medici senza camice che curano le emozioni o di chaise longue come alternativa allo stetoscopio e alle punture. Partirei, piuttosto, dal gioco, dal teatro, dalla musica, pratiche in cui sognare e vivere, fantasticare e fare-sul-serio non possono essere mai scotomizzati.
Questo ancoraggio all’esperienza artistica potrebbe rappresentare una cornice per ripensare le psicoterapie, valida anche per gli ‘addetti ai lavori’. Tuttavia per alcuni, forse per la maggior parte di noi, un’operazione simile potrebbe apparire capziosa, irrazionalista, o peggio, provocatoria, probabilmente a causa di un antico pregiudizio che confonde la leggerezza con l’effimero.
Ritengo che l’innesto della talking cure nel variegato campo delle pratiche artistiche costituisca un bacino prezioso di possibilità per rivitalizzare la teoria della clinica. Ma non alludo alla tradizione della Gestalt, né all’arte-terapia e tanto meno allo psicodramma. E non intendo neanche pensare alle ricerche psicoanalitiche sull’arte, come quelle di Ernst Kris e di molti altri. Mi riferisco all’arte come postura esistenziale, come sguardo-attraverso (Garroni 1992), ma di questo parlerò più in dettaglio dopo.
In un panorama sempre più caratterizzato dal mito dell’oggettività scientifica, dalla ricerca evidence based e dall’accumulazione di coefficienti di significatività, la pratica clinica sembrerebbe subordinata al ruolo di collettore di evidenze statistiche. In questa Weltanschauung ogni verità o indicazione terapeutica deriverebbe da un processo di validazione, fondato sulla falsificazione di ipotesi nulle. D’altro canto, nella stessa contemporaneità, quasi a effetto boomerang, fioriscono prospettive radicalmente antiscientifiche, improntate al negazionismo, alla vanità dell’opinionismo e alla demenza dello spontaneismo (pensiamo al proliferare di terapie e sedicenti terapeuti che offrono soluzioni magiche come pacchetti di una manciata di sedute che cambiano la vita): è l’aberrazione dell’improvvisazione improvvisata senza arte né parte.
In questo scenario, la talking cure – per statuto orientata anche alla mathesis singularis, quindi a cogliere gli aspetti di unicità, irriducibilmente umani, di ogni ‘caso clinico’ – potrebbe ritrovare nuova linfa non solo nella ricerca scientifica – da cui peraltro ha sempre attinto – ma anche in quella a tutti gli effetti artistica.
Attenzione però: non si tratta di rifiutare a priori il sapere specialistico – d’altra parte ogni arte ha le sue tecniche e i suoi linguaggi specifici. Non a caso gli antichi recitavano: Ὁ βίος βραχύς, ἡ δὲ τέχνη μακρή – vita brevis, ars longa. La paternità di questo motto risale a Ippocrate, un medico che parlava anche d’arte; nella sua epistemologia la parola téchne non può essere tradotta come mera ‘tecnica’, ma concerne un saper fare intriso d’intuizione, sensazione, pensiero e sentimento.
In questa luce, accostando Ippocrate a Emilio Garroni, si potrebbe ripensare l’arte quale campo di esperienza in cui si continua a parlare (e non solo con la parola) del senso e del non-senso.

La ricerca attraverso la performance

Considero la talking cure come naturale continuazione di una ricerca lunga millenni: dal teatro greco ai performance studies.
Prima di chiarire questa visione, diventa necessario aprire una piccola parentesi per tracciare, in estrema sintesi, l’origine storica degli studi sulla performance, o per meglio dire, degli studi attraverso la performance.
Durante la Seconda Guerra un folto gruppo di artisti e intellettuali europei si ritrova al Black Mountain College del North Carolina per sfuggire alle persecuzioni naziste. Negli anni Cinquanta nasce una vera e propria comunità artistica che cerca di differenziarsi dalla cultura dominante dell’establishment. Lì si riuniscono personalità come Eric Bentley, Arthur Penn, John Cage, Merce Cunningham, Willem e Alaine de Kooning, Franz Kline, Buckminster Fuller, Paul Goodman, Robert Rauschenberg, e altri. Successivamente questa comunità si trasferisce a New York: pensiamo alla musica di Cage del Fluxus Group, agli happening di Kaprow, al lavoro politico del Living Theatre di Julian Beck, alla contestazione sociale dell’Open Theater di Joseph Chaikin, alla body art di Carolee Schneemann e alla pop art di Andy Warhol. Tra i teorici della performance spicca il nome di Richard Schechner che, insieme all’antropologo Victor Turner, nel 1967 fonda The Performance Group: si tratta di una compagnia indipendente e militante con la quale, fino al 1980, Schechner dirige diversi esperimenti teatrali, basati sullo studio dei comportamenti e delle relazioni umane. I performance studies trovano il primo spazio nel Graduate Drama Department della Tisch School of the Art della New York University. Parallelamente un altro centro propulsivo per lo studio della performance art diventa la Northwestern University, nell’Illinois (Carlson 1996). La storia della performance in Europa appare più dispersa in varie realtà parallele; tra gli artisti della performance d’origine europea si possono annoverare figure come quelle di Marina Abramović, Joseph Beuys, Gina Pane, solo per dirne alcuni.

Dalla rappresentazione all’assenza

Tornando alla talking cure come naturale continuazione di una ricerca che dal teatro greco approda ai performance studies, immaginiamo di tracciare un filo sottile: dalla rappresentazione alla presenza, e dalla presenza all’assenza. In questo ideale continuum, il contesto della talking cure potrebbe essere pensato come un apice, caratterizzato dalla sparizione dell’artista stesso. L’arte è assenza, si potrebbe ripetere nell’eco di Pierre Fédida (1978).
All’inizio del continuo poniamo il teatro greco: potrebbe apparire una scelta arbitraria, poiché l’incipit della ricerca estetica può essere rintracciato molto prima dell’antichità classica, per esempio già nei rituali paleolitici. Ebbene, la ragione di questa scelta risiede nel fatto che nel teatro greco emerge una separazione nettissima tra cosa è in scena e cosa resta fuori dalla scena (osceno), almeno per quanto riguarda la divisione tra attori e spettatori. Questo espediente permette di individuare un chiaro contesto della mimesis come pratica estetica.
Nel corso dei millenni, si istituisce una ciclica crisi dell’autorialità che assottiglia, fino ad abbattere, la differenza tra artisti e fruitori, creatore e creatura, artista e opera, quasi a voler tornare periodicamente all’origine dell’arte, alla sua intrinseca ritualità che trascende il medium artistico e ricerca un’esperienza d’anima. Questo processo parrebbe culminare, fino a esaurirsi, nella performance art che, non di rado, è stata travisata o male interpretata.
Solo per darne un’idea, pensiamo alla celebre 4’33’’ di John Cage: chi è l’autore di quel silenzio denso di suoni? Il compositore o i fruitori? Cosa significa essere compositore e dove sta l’opera? Pensiamo ai ready-made di Marcel Duchamp: chi crea cosa?
E ancora, immaginiamo artisti come Richard Schechner: bisogna vigilare sul rischio di confondere l’osmosi tra arte e vita che caratterizza la sua ricerca per ispirazione frettolosa o estemporaneità senza coscienza. I performance studies si fondano, invece, sulla necessità di creare un metodo capace di ‘riflettere-sull’arte-facendo-arte’, ovvero di pensare al senso dal di dentro, mentre si fa, senza separazione tra arte e discorso sull’arte, insomma senza metafisiche. La tensione insita in questo tipo di ricerca punta al cuore del processo: una dimensione in cui l’arte batte. Lì le pratiche e i linguaggi diventano vivi, perché situati nella precipua congiuntura tra corporeità, senso, affetto e coscienza. In quel crocicchio, l’estetica ritrova un habitat liminale tra dicibile e indicibile, affacciato sull’abisso del precategoriale e dell’irriflesso (Banes, Lepecki 2006): l’arte si sporca, ritorna umana e quindi imperfetta, incontra la vita e con essa l’assenza.
Insomma la ricerca al confine tra arte ed esistenza non può essere derubricata a mera provocazione, o ad astruso esercizio concettuale, ma rientra in una analisi profonda che richiama l’origine estetica del nostro essere umani.
Il continuum estetico dalla rappresentazione all’assenza sembrerebbe terminare con la crisi della performance stessa, inaugurata dalla virtualizzazione del reale e dalla rivoluzione digitale. In questo processo, si è dissolta, almeno apparentemente, la centralità della physis, la parte viva e primigenia dell’esperienza, quella del corpo e quindi dell’inatteso del senso. La performance, dunque, sembrerebbe essere definitivamente morta.
Ritengo, invece, che una delle pratiche in cui poter far confluire tutto quel bagaglio d’esperienza coincida proprio con la talking cure: un contesto, dal mio punto di vista, tutt’altro che finito. L’analisi potrebbe essere concepita come il trascendere dell’estetica verso un ambito che ritrova la matrice dell’aistesis nel senso umano (indipendentemente dal linguaggio o dai linguaggi che tradizionalmente concepiamo come artistici).

Perché la talking cure è arte

La cura analitica non è meno ‘artistica’ di un concerto di pianoforte o di un dramma teatrale per effetto della mancanza di un pubblico o di un’audience (è risaputo, infatti, che esistono nella storia dell’arte infinite performance per un solo spettatore, o cosiddette disperse, come esiste la gruppo-analisi; d’altra parte nella psicoterapia attori e spettatori si scambiano continuamente i ruoli).
Né la psicoanalisi potrebbe essere esclusa dal campo delle pratiche artistiche perché accompagnata da un obiettivo più o meno esplicitato, da un’utilità latente, più o meno discutibile, come quella di stare meglio (l’arte in sé dovrebbe ‘servire’ per rendere l’essere umano migliore, ma al di là di questa visione soggettiva, esiste anche l’arte applicata o cosiddetta ‘impegnata’).
E ancora, mi sembra completamente arbitrario invocare una differenza etica fondata sul fine della cura rispetto al fine dell’arte: l’estetica senza etica è sempre cosmetica, questo vale per la cura, tanto quanto per la più ‘pura’ concezione dell’arte; bypassare il piano etico significa aggirare quello umano, nell’arte, nella cura e in qualsiasi forma di azione umana.
Penso inoltre che la responsabilità di chi cura rispetto a chi è curato sia la stessa cosa ‘seria’ di chi compone, scrive o dipinge rispetto ai ‘destinatari’ delle opere: primum non nocere è un principio che dovrebbe essere valido tanto per il medico, quanto per l’artista. E come il pittore dipinge sempre sé stesso, allo stesso modo chi cura sta cercando in fondo sé stesso: chi cura innanzitutto si cura.
Tantomeno potremmo pensare che la presunta ‘extra artisticità’ (o minore artisticità) della talking cure risieda nella immaterialità e multiformità dei suoi esiti: i suoi ‘prodotti’ non sono riconoscibili come un pezzo musicale, una tela, una coreografia, un libro, ma l’intangibilità non solo non va a detrimento dell’arte, ma forse ne costituisce la caratteristica essenziale: si tratta di tornare all’arte delle origini, quella ‘sacra’ ossia letteralmente intoccabile.
Insomma, dopo aver assimilato tutta l’esperienza della performance art, dell’arte concettuale e del postmodernismo, seguendo la pista del confronto con le pratiche artistiche, non si trovano differenze specifiche tra cosa potrebbe essere arte e cosa potrebbe essere analisi. E non ha neanche senso invocare l’usurata distinzione tra arte e artigianato: artigianato vuol dire applicare una tecnica, in modo più o meno consapevole, per raggiungere un determinato risultato, ma l’analisi non corrisponde certamente a questo, pur essendo intrisa anche di artigianalità. La differenza sostanziale tra un artista e un artigiano (e non è detto che un artigiano non possa, suo malgrado, inciampare nell’arte) è che il primo non sa dove sta andando, mentre il secondo sì. L’artigiano può decidere di realizzare una scarpa, bellissima, perfetta, originale; l’artista non sa se sarà una scarpa o un cappotto, non lo sa mai, neanche quando crede di saperlo. E decide molto poco di quello che fa o farà. In un certo senso è come se l’artista fosse in balia dell’esperienza che lo crea e lo ricrea continuamente. Egli può solo cercare di guardare attraverso i fenomeni di cui è testimone.
E allora, sbaragliando qualsiasi perplessità, il grimaldello che trasforma la talking cure in pratica-artistica-a-tutti-gli-effetti consiste in uno sguardo-attraverso: qualcosa che, nel sentire il senso insieme al non-senso, fa senso (making sense), ovvero lascia emergere il nuovo senso che trasforma la realtà psichica.
Ma non è questo il fine di ogni opera? Cambiare l’essere umano. Altrimenti perché un artista dovrebbe dedicare tempo ed energie per qualcosa di totalmente ‘inutile’?
Lo sguardo-attraverso indica una prospettiva filosofica descritta da Emilio Garroni che si produce restando all’interno dell’esperienza, mettendola, però, implicitamente in questione, o distanziandosene «mentre guardiamo, dall’interno del guardare e mediante il guardare» (1992, 37). Garroni trae spunto dal Wittgenstein maturo delle Ricerche filosofiche (1953, n. 90, p. 52):
«È come se dovessimo guardare attraverso i fenomeni: la nostra ricerca non si rivolge però ai fenomeni, ma, si potrebbe dire, alle ‘possibilità’ dei fenomeni».
Il filosofo dell’estetica come filosofia non speciale (Garroni 1992, pp. 226-237) ci aiuta a comprendere questa visione, ricordando che pratiche e prodotti oggi considerati artistici, sicuramente, esistevano già prima che una cultura li ricomprendesse nella prospettiva unitaria di linguaggi estetici (basti pensare ai riti, o ai dipinti rupestri, risalendo almeno fino al paleolitico superiore). Si tratta di riferirsi a una visione emersiva e contingente dell’arte che presuppone una circolarità: manifestazioni, tradizionalmente concepite come artistiche, all’interno di determinate culture, potrebbero perdere di vitalità, esaurendo la loro capacità di rinnovare il senso e tornando all’eterogeneità di esperienze da cui erano emerse. Al contrario, nuove pratiche, come la talking cure stessa, potrebbero essere candidate a manifestare esemplarmente quella condizione del dare-senso, fare-forma, che potremmo non avvertire più, in modo vivo, nelle arti tradizionali (che a volte, lo dico tra parentesi, sembrano sature e non parlano più).
L’emblematicità artistica della terapia della parola, in questo momento storico, scaturisce dall’essere fondata sull’ascolto: la dimensione più rinnegata e, proprio per questo, più necessaria in una contemporaneità assordante e sorda, mercuriale e traffichina. L’ascolto sensibile implica la capacità di non eludere il non-senso dell’esistere e comporta, pertanto, l’apertura alle sue vertiginose antinomie. Fermarsi, riflettere, sentire sono azioni dotate di una carica eversiva che è di per sé arte, perché permette di cambiare il mondo, di ricrearlo.
Victor Turner e Richard Schechner sostengono che «se è vero che l’arte imita la natura – come scriveva Shakespeare – è altrettanto vero il contrario» (Lo Gatto 2018).
Anche Thomas Bernhard, in Estinzione (1986, p. 31), attraverso il ricordo dello zio Georg, sosteneva che «Soltanto se abbiamo una giusta concezione dell’arte abbiamo anche una giusta concezione della natura».
Tra arte e natura esiste la stessa relazione di reciproca mimesis che si stabilisce tra analisi ed esistenza. Non si tratta di scadere in una visione onnipotente o esaltata dell’arte, ma al contrario, di entrare in una visione giocosa e viva della cura. Allora, se è vero che non si può uscire dalla vita per guardarla da fuori, quanto meno, si può cercare di vederla attraverso lo spazio-tempo della talking cure: questo potrebbe cambiare la vita stessa.

Is performance, as performance

«Agire profondamente è il modo per trovare e incarnare nuova conoscenza, rinnovare l’energia; [la performance si fonda sull’incontro tra] persone che si relazionano sui fatti piuttosto che su basi ideologiche»
Lo Gatto 2018

Non si potrebbe dire altrettanto della talking cure?
Provando ad ampliare lo spettro della performatività, ci renderemo conto, come sosteneva Schechner, che «tutto il mondo è performance» (ibidem). D’altra parte, già Guy Debord (1967, pp. 53-59) sosteneva che «tutta la società […] si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli» e che la spettacolarizzazione sembra aver preso il posto della religione, perché realizza l’esilio in un aldilà; essa funge da guardiano del sonno, il «cattivo sogno» della società moderna incatenata. Ma aggiungerei che, proprio in virtù di questo carattere diffuso della performatività – tanto diffuso da farci credere che la performance d’arte sia definitivamente morta –, il nuovo si annida sempre in territori periferici e antispettacolari (come la terapia della parola). Territori capaci di espellere gli spettatori dallo spettacolo.
Non mi riferisco solo al fatto che nella performance dell’analisi non ci sia un pubblico (o che attori e spettatori possano coincidere); espellersi dallo spettacolo significa entrare nella stanza di drammaturgia della terapia, per uscire dallo spettacolo della vita come rappresentazione quotidiana (Goffman 1959). In questo modo si diviene spettatori – anziché attori, burattini o marionette – e l’ex-sistere si fa aderente, almeno per quarantacinque minuti: la durata media di una performance e di una seduta d’analisi.
Schechner (1973), nel concetto di broad spectrum (Deriu 1999, p. II), individua quattro domini delle attività performative: dramma, script, teatro e performance. Il dramma è il cerchio più piccolo, il dominio dell’autore; indica uno scritto di tipo narrativo (una partitura, una mappa, un libro) che viaggia nello spazio e nel tempo, indipendentemente dalla persona che lo trasporta. Lo script, invece, racchiude il codice che deve essere trasmesso da persona a persona; questo rappresenta il campo del maestro, del guru, dello sciamano (ma attenzione: non quello dell’analista che non ha funzioni didattiche, né taumaturgiche in senso stretto). Poi viene il teatro che è concreto e immediato, il dominio dell’attore. Esso costituisce la manifestazione/rappresentazione del dramma, la risposta dell’attore allo script. Infine, nel cerchio più grande, risiede la performance che coincide con il dominio dello spettatore; questo territorio si estende dalle ritualizzazioni animali ai saluti (pensiamo alla stretta di mano o al gomito-a-gomito durante la pandemia), dalle cerimonie civili e religiose allo sport, dal teatro a tutte le arti, fino a culminare, dal mio punto di vista, proprio nella talking cure. Qui l’attore si fa spettatore di sé stesso e l’artista diventa invisibile. Assente.
Lo stesso Schechner (1973) sottolinea che l’indagine ontologica della performance si potrebbe idealmente dividere in due macroforme: is performance e as performance. Nel primo caso, quello che strettamente performance appare orientato a un risultato estetico in modo intenzionale, sebbene poi possa dare origine a manifestazioni tanto eterogenee quanto le latitudini e le culture. Nel secondo caso invece – come insegna l’antropologia di Victor Turner, Erving Goffman e Clifford Geertz – ogni aspetto della vita quotidiana può essere analizzato e interpretato come performance.
La relazione tra queste due macroforme è regolata dal cosiddetto infinity loop, una struttura di interdipendenza che non ha un punto di origine o di fine; come nell’ápeiron periéchon – pensiamo alla lemniscata dell’infinito – non esiste soluzione di continuità tra cosa è performance e cosa è come una performance.
L’arte diventa forza di visione-attraverso che permette di cogliere il simbolo delle cose nelle cose stesse. E allora, non si tratta di trasferire la terapia nella metafora del teatro o della performance, o ancora nella metafora della musica. La talking cure non è solo as performance (‘come se’ fosse arte): è proprio arte, a tutti gli effetti.
Ma andiamo per gradi.

Le regole del gioco

Se affermiamo che la terapia della parola performance, bisognerebbe rispondere alla domanda ‘e cos’è una performance?’. Potremmo sintetizzare con un motto diffuso nell’ambito dei performance studies: performance is what performance does. Questa formula potrebbe essere estesa all’ambito performativo della cura che non può essere circoscritto a identità aprioristicamente determinate. Al di là degli orientamenti, delle scuole di formazione e delle letture che ciascun analista attraversa, la performance terapeutica si definisce a partire dalla pratica o meglio dalle pratiche cliniche.
Emergono alcune parole chiave: esperienza, sinesteticità, vita-e-arte, ritualità, corpo. L’identità della performance risulta quindi connessa a un contenuto fortemente esperienziale e si caratterizza per l’estrema varietà dei modi espressivi. La performance è il contesto degli intermedia o dei multimedia, parole oggi inflazionate che indicano quella compenetrazione tra più linguaggi estetici che dovrebbe plasmare la sensibilità sinestetica.
Un altro aspetto caratterizzante consiste nell’estetizzazione del quotidiano che determina l’osmosi tra arte e vita (pensiamo al sentire un sogno o una passeggiata come azioni artistiche).
Non si può trascurare inoltre l’elemento rituale che contribuisce a sagomare la performance, ovvero la presenza di precisi codici che definiscono il contesto entro cui si svolge l’azione, (proprio come in terapia si stabiliscono le regole del setting).
Infine spicca la centralità del corpo tant’è che molti definiscono i performance studies una continuazione della body art (Andrisano 2006). La pratica clinica, come ogni performance, risulta fondata sul corpo, o come si usa dire, è embodied, incarnata. «Datemi dunque un corpo» – asseriva Deleuze (1985, p. 220):

è la formula del capovolgimento filosofico. Il corpo non è più l’ostacolo che separa il pensiero da sé stesso, ciò che il pensiero deve superare per arrivare a pensare. Al contrario è ciò in cui affonda o deve affondare, per raggiungere l’impensato, cioè la vita. […] Non si farà più comparire la vita davanti alle grandi categorie del pensiero, si getterà il pensiero nelle categorie della vita. E queste sono appunto gli atteggiamenti del corpo, le sue posture.

Lo sguardo-attraverso rientra in una postura del corpo che è insieme coscienza. «Il Leib fenomenologico […] è l’estensione della mia psiche e non può essere da essa distinto» (Kirchmayr 2008, pp. 53-54).
La visione di Deleuze risuona con quella di Merleau-Ponty che concepisce il corpo come modalità originaria di rapporto con il mondo. Rifacendosi alla distinzione husserliana tra Körper e Leib, il fenomenologo francese distingue tra corpo oggettivo e corpo fenomenico: il primo è il corpo come cosalità, quello fondato; il secondo, fondante, rappresenta il corpo vissuto in prima persona. L’esperienza può avvenire solo «in persona», «in carne ed ossa», perché percepire significa vivere (Mancino 1987, p. 21). (Ovviamente l’espressione ‘in carne e ossa’ non allude qui alla differenza tra l’essere in presenza o da remoto, ma si riferisce piuttosto alla possibilità di sentire il corpo e di partecipare all’esperienza attraverso un corpo senziente).
I riferimenti a Deleuze o Merleau-Ponty accomunano la ricerca clinica a quella teatrale. Per esempio lo stesso Schechner (1972, p. 14) sosteneva che «Tutto il lavoro della performance inizia e finisce nel corpo».
Anche un altro grande maestro, quale Eugenio Barba, ha descritto l’esperienza della performance come corpo dilatato. Si tratta di una condizione di disorientamento che «obbliga a mettere in moto tutte le energie del ricercatore, acuisce i suoi sensi, come quando si avanza nell’oscurità» (Barba 1992, p. 133). Si brancola nel buio, insomma, come descriveva Freud (1919, p. 189) nell’esperienza del perturbante. Si tratta di un’amplificazione estetica, cioè letteralmente di un acuirsi dei sensi che scaturisce da una situazione di oscurità, intesa come temporanea mancanza di senso. Questa esperienza richiama molto da vicino la capacità negativa, descritta dal poeta Keats e ripresa da Wilfred Bion (1970).

Capacità negativa e liminalità

Schechner (1973, pp. 177-178) si riferisce proprio a John Keats per presentare il suo paradigma not-not not che introduce la pratica del trasporto e della trasformazione.
Secondo l’autore il performing è un paradigma della liminalità che si attualizza nella zona d’ombra tra il lavoro sull’altro e il lavoro su sé stessi. Si tratta di un’area in cui l’attore non è ‘io’, né ‘non io’; né persona, né personaggio. Per descrivere questo paradigma, Schechner (1985, pp. 108-109, trad. it. mia), memore dell’antropologia di Turner, utilizza l’esempio dello straniero interno e quindi del ricercatore sul campo che incontra una cultura differente dalla propria:

che ruolo svolge il ricercatore sul campo? Non è un performer e non è un non performer, non è uno spettatore e non è un non spettatore. Si trova tra due ruoli proprio come si trova tra due culture. Sul campo egli rappresenta – che lo voglia o meno – la sua cultura d’origine; e di ritorno a casa egli rappresenta la cultura che ha studiato. Il ricercatore sul campo si trova sempre in una situazione di ‘non… non non’. E come un performer che si muove tra workshops e prove, il ricercatore sul campo attraversa le tre fasi del processo performativo isomorfe a quelle del processo rituale:
1. Lo spogliarsi del suo […] 2. La rivelazione […] di ciò che è ‘nuovo’ nella cultura nella quale egli vive […] 3. Il difficile compito di usare le note raccolte sul campo […] per realizzare un ‘prodotto’ accettabile […]: il modo in cui egli monta e traduce ciò che ha scoperto in oggetti comprensibili per il mondo nel quale In breve deve tirar fuori una performance accettabile da tutto il materiale del workshop e delle prove, un tentativo di far parlare la scrittura con la voce ‘dell’altra cultura’. […] I ricercatori sul campo quindi non soltanto osservano ma imparano, partecipano, intraprendono azioni. I registi sono stati, e i ricercatori sul campo stanno divenendo, specialisti in comportamento restaurato.

L’analista che incontra un paziente deve sostare in quella zona d’ombra che costituisce l’incontro con l’altro; si tratta di un campo in cui le soggettività si mescolano e si può provare un senso di forte disorientamento. Questo processo potrebbe essere descritto come un ‘andare e tornare da terra’, proprio come nell’immagine di una palla che rimbalza toccando il suolo e poi se ne distanzia. In sintesi si delinea un metodo che consiste nel portarsi dal koinos all’idios kosmos e viceversa. In questo andirivieni, emerge il cosiddetto ‘comportamento restaurato’ che nella pratica analitica potrebbe essere inteso come alfabetizzazione di elementi beta – per dirla con Bion.
Il performer ‘restaura il comportamento’ attraverso un metodo rigoroso (il training) che consente di ascoltare l’altro e di agire a metà tra sé e l’altro – in un territorio che potremmo chiamare campo bipersonale, aïda, terzo intersoggettivo, eccetera. L’azione (Schechner 1973) oscilla tra flow (esperienza dello stare immersi nella realtà degli eventi) e reflexivity (riflessività prima, durante e dopo).
In tal senso il performing diviene un paradigma della liminalità: ma «che cos’è la liminalità se non la soglia che separa ed unisce due limiti?», soleva ripetere Cage (1939-1961). L’arte e la vita in questo paradigma si riflettono reciprocamente, come in uno specchio.
Alla base del concetto di restored behavior si presume una stratificazione di vissuti che fa sì che dietro a ogni azione ce ne sia un’altra, come dietro ogni vissuto si depositano una miriade di altri vissuti. La performance nasce da un tentativo di risalire attraverso la sequenza di quegli strati: il corpo diviene allora il principale strumento di recupero o restauro.
Non si tratta di tornare alla metafora dell’analisi come archeologia, ma piuttosto di proiettarsi in una dia-fisica dei sensi, ossia in un attraversamento del senso mediante i sensi. A questo proposito mi vengono in mente le parole che l’operaio francese Navel appunta nei suoi Travaux (1945, p. 208) commentati da Ernesto De Martino (1977, p. 72). Navel cerca di realizzare il passaggio estetico dall’origine contadina alla nuova condizione operaia, risvegliando il senso:
La mano, sensibile alle percezioni successive del legno della credenza, del ferro della maniglia, del vetro della saliera e del pizzico di sale, mi meraviglia: mi stupivo di trovare un tal tesoro di conoscenze nella semplice pelle delle dita. Cercavo di vivere completamente risvegliato, sempre cosciente del momento, della cosa, del gesto. L’adulto vive addormentato nelle sue abitudini. È sempre bello apprendere la vita, e tutto d’un tratto io apprendevo all’albero verde del contatto diretto. […] Mentre la mano teneva il suo pizzico di sale in minuti cristalli, io sapevo ch’essa era simile a quella di tutte le nonne della terra quando fanno il gesto di aprire la saliera per salare la minestra, il gesto che avevo visto fare a mia madre; […] Ma al di là di mia madre, io entravo in rapporto con tutti i morti […] L’uomo vive con le sue mani. […] La vita è ciò che si tocca, le stesse sensazioni inducono gli stessi sogni. Boscaioli, vignaioli, contadini, dandomi la loro mano mi avevano dato anche quella che era passata nelle loro teste, rosse o bionde che fossero.
Il comportamento restaurato coincide con quella mano che guarda-attraverso strati di memoria sensibile, individuali e collettivi. L’orecchio dell’analista dovrebbe allora diventare come la mano di Navel che sente il simbolo della cosa nella cosa stessa (Lispector 1944, p. 135).

La pratica analitica come performance d’assenza: umiltà

Uno dei principi cardine che rendono la terapia della parola arte performativa coincide con l’umiltà: conditio prima.
Per porsi davvero in ascolto di un altro, bisogna riuscire a relativizzarsi, a decentrarsi, mettendosi tra parentesi, ma prima di ogni cosa non bisogna aver paura di essere comuni, come recitava la poetessa Jolanda Insana (2012): «ti senti speciale/ e metti perline tra i capelli e gelatina/ e ruoti le dita per acchiappare forme d’aria/ e tenere in pugno l’universo/ ma non sei speciale/ sei rigida e gelidina/ e io sono contenta di essere comune».
Essere niente di speciale – umani come tanti – non equivale solo alla capacità di non prendersi troppo sul serio, ma diviene una vera e propria scuola di rinuncia.
La prima cosa a cui un analista deve rinunciare è il mondo-potere, qualcosa che appare disfunzionale rispetto al mondo-condiviso e descrive una dimensione legata a parole come mondanità, successo, desiderio di piacere. Se, a livello profondo, non avviene questa rinuncia, non può esserci cura. Potrebbe anche accadere che un analista riscontri una risonanza nel mondo, magari mediatica, ma come ‘effetto secondario’; se invece il terapeuta resta primariamente concentrato sul mondo-potere, le sue parole perdono di efficacia terapeutica, mancano di verità, di aderenza al vissuto: insomma non curano. Una parola, come un silenzio, per essere potenti, devono nascere dalla verità dell’analista: se un terapeuta non crede a quelloche-dice-mentre-lo-dice, la sua performance diventa una farsa. Riecheggia qui il concetto bioniano di ‘O’ inteso come origine o grado zero (Neri 2007).
Potremmo pensare al metodo dell’immedesimazione e dello straniamento che hanno attraversato la teoria del teatro: in ambito strettamente performativo, non si tratta né di immedesimarsi, né di straniarsi, ma di stare dentro l’esperienza attraverso l’esperienza.
In definitiva, chi cura con la parola dovrebbe vigilare sul rischio di confondere il potere con la potenza. Il primo consiste in un esercizio intenzionale che si presume possa orientare le energie per il raggiungimento di precisi scopi nel mondo; nel secondo caso, invece, la potenza è una forza vitale che non può essere intenzionalmente diretta. Per rinunciare al mondo-potere bisogna abbandonarsi: esercitarsi nell’arte sottile di non opporre resistenza alla potenza della vita.
Nel potere prevale un atteggiamento attivo, nella potenza, invece, si determina una disposizione a metà: né attiva né propriamente passiva, perché l’abbandono richiede educazione. Il terapeuta dovrebbe diventare come un’arpa che si lascia suonare dal vento: «Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene e dove va: così è di chiunque è nato dallo Spirito» (Giovanni 3,8).
Ora sostituiamo alla parola ‘vento’ il termine ‘psiche’ – che tra l’altro ne condivide la radice etimologica – intendendo la psiche come potenza psichica; quindi riscriviamo ‘spirito’, con la minuscola, avvicinandoci in questo modo al concetto di ‘coscienza’ [1]. E allora rileggiamo: «La potenza della psiche soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene e dove va: così è di chiunque è nato dalla coscienza». Il verso di Giovanni, parafrasato, potrebbe essere una specie di manifesto, giocando all’arte della talking cure.
Restando sempre in una prospettiva aconfessionale, Edith Stein ci può aiutare a cogliere questa particolare disposizione, nella sua descrizione dei tre regni che corrispondono ad altrettanti modi di stare al mondo.
Il regno della natura (come nel film di Terrence Malick, The Tree of Life) corrisponde a un atteggiamento di passività. Si tratta del livello psichico-naturale, in cui l’essere umano si fa guidare dalla vita come qualcosa che sta fuori di lui, una sorta di orientamento specie specifico che stabilisce a priori le sue scelte. In questo regno si colloca la vita semplice, ma anche quella conformista: nasco, vado a scuola, sposo un uomo o una donna, lavoro, metto al mondo dei figli, prego o bestemmio, muoio.
Il regno della libertà collima, invece, con il livello spirituale in cui si matura un atteggiamento attivo: questo regno, per esempio, ospita l’ambizione, la carriera, le scalate, il diventare qualcuno, la forsennata corsa per uscire dall’anonimato e dalla mediocrità. Ma qui si colloca anche il voler salvare qualcuno e tutta la retorica della lotta al male.
Infine, viene il regno della grazia che comporta la capacità di passare attraverso: è il regno degli sguardi-attraverso. In questo territorio la persona non è né passiva né attiva, ma appare «liberata tanto da essere guidata dall’alto come lo si è dall’interno» (Stein 1930-1932, p. 53; cfr. Salvioli 2006).
Forse la pratica analitica esprime la sua dimensione estetica in un solco liminale dell’esperienza artistica che la avvicina a quella mistica, ma senza dimenticare il gioco dei bambini. Attenzione però: non invoco una deriva mistico-religiosa della pratica clinica, mi riferisco piuttosto alla ricerca di una postura capace di attingere da diversi campi d’esperienza in modo completamente aconfessionale.
Ritrovo questa postura nelle parole che Edith Stein utilizza per descrivere san Giovanni della Croce. Lo definisce un ‘realista’, sottolineando la sua capacità di sentire, nella dimensione immanente dei sensi, qualcosa che possa trascenderla: san Giovanni «ha le tre caratteristiche del Santo, del bambino e dell’artista» (Ales Bello 2021, p. 270). L’analista, come una specie di san Giovanni, dovrebbe essere appunto un po’ santo, un po’ bambino e un po’ artista:

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  1. santo nel senso di restare aperto a una trascendenza immanente che consiste nell’esercizio infaticabile di sentire la potenza della vita, anche quando è dolorosa;
  2. bambino, perché un terapeuta non può prescindere dai giochi linguistici che moltiplicano la vita (Campo 1971) attraverso immagini psichiche;
  3. artista, in quanto chi cura con la parola deve poter maturare un’equazione personale che diventa una specie di tratto, una cifra del proprio modo di stare al mondo e di stare in relazione.

La pratica analitica come performance d’assenza: invisibilità e corpo

Un altro presupposto della terapia in quanto performance consiste nell’invisibilità: metodo di sparizione dell’artista, esercizio d’assenza. L’analista deve stare attento a rendere la sua presenza quanto più leggera possibile, dentro e fuori il setting. Pensiamo alla necessità di non invadere la vita e il vissuto dei pazienti, di non diventare intrusivi, sia a livello simbolico – per esempio schivando giudizi o interpretazioni saturanti – sia letterale, per esempio evitando di incontrare i pazienti fuori della terapia. L’esercizio d’assenza di un terapeuta si sostanzia in una vera e propria sparizione: a differenza di altri artisti, infatti, lo psicoanalista non espone locandine (almeno per quello che concerne l’attività strettamente clinica), non ha follower o fan, non viene celebrato. Deve mantenere un contegno quasi religioso, ma senza abiti di riconoscibilità, come invece avviene negli ordini clericali.
Infine, come ogni performer, l’analista è tenuto a compiere un lavoro costante su sé stesso che investe tutta la sua complessità psicocorporea. Lo sguardo-attraverso diviene, allora, una sorta di habitus per il terapeuta, da usare non solo con il paziente, ma innanzitutto nella propria esistenza personale. Se questo non accade, il rischio è che lo sguardo-attraverso si trasformi in uno strumento ‘appiccicato’ che inficia l’efficacia degli interventi terapeutici: non a caso ci ripetiamo che l’analista può portare il paziente fin dove è giunto per sé stesso.
Vedere-attraverso presuppone un sentire che corrisponde anche a un sentirsi. Proprio per questo appare ineludibile l’ancoraggio al corpo. Ogni terapeuta, come un performer che al mattino compie gli esercizi di training, dovrebbe stare molto attento a prendersi cura del corpo e a maturare una coscienza del corpo. Le tecniche possono essere tante per quanti sono i terapeuti. Ciascuno, nella propria equazione personale, dovrebbe trovare anche il modo per rendersi amico il corpo. Questo processo non disdegna un piano pragmatico, totalmente fisico. Per esempio, personalmente trovo importante nuotare tanto quanto fare supervisione. Alcuni colleghi sono legati al Tai-chi, altri alla meditazione e alla passeggiata. Per altri ancora il meditare può corrispondere a correre o ad andare in bicicletta. Insomma ciascuno dovrebbe allenarsi a sentire il corpo anche attraverso l’esercizio fisico che diventa insieme esercizio simbolico.
Giunti a questo punto, si potrebbe obiettare che lo sguardo-attraverso, esattamente come il concetto di performance, sia talmente esteso da risultare una categoria ombrello: tutti i mestieri e le professioni possono essere considerate performance, in tutte le professioni appare necessario maturare uno sguardo-attraverso e per esempio prendersi cura del proprio corpo, da quelle manuali a quelle più intellettuali. Così come in tutti i lavori del mondo, l’esperienza resta qualcosa di imprescindibile. Ebbene, la differenza specifica del fare analisi è che in questo contesto lo sguardo-attraverso non costituisce solo uno strumento tra tanti o, come si usa dire, una specie di ‘competenza trasversale’. Nella terapia della parola, come nelle altre forme d’arte a tutti gli effetti, senza quello sguardo non c’è arte e non c’è forma. Credo che l’idraulico possa riparare un rubinetto anche senza sguardo-attraverso, lo stesso vale per un ingegnere quando progetta un impianto. Al contrario, se l’analista non riesce a maturare quella forma di trascendenza immanente come un vero e proprio modo di stare al mondo, non ci può essere cura, né per sé stesso, né per i suoi pazienti. Va da sé, che la visione-attraverso non rappresenta una prospettiva che si raggiunge una volta per tutte, ma appare soggetta, come ogni aspetto della vita psichica, a discontinuità e a continui aggiustamenti.

Attraverso lo sbadiglio. Un’esperienza clinica

Edda è una donna bellissima, intorno ai cinquanta, raffinata e poliglotta. Praticamente perfetta. Durante il lockdown, ci incontriamo da remoto e mi appare sullo sfondo una collezione di porcellane di Limoges, poi un affresco del Settecento, una dormosa capitonné di un blu pavone come i suoi occhi. Sembra che Edda sia un tutt’uno con gli arredi della casa. Tutto è elegante, lirico, pittorico. Altissimo come le volte a stella del palazzo nobiliare in cui vive. Ascolto con curiosità le sue tensioni che appartengono a un mondo lontano dal mio, mi sento come lo straniero interno di Turner. Il lockdown severo sta per finire e mi racconta i suoi sforzi per rendere impeccabile la futura cena con i parenti austriaci in visita a Leuca, nobili ma di una nobiltà idiosincratica; si aggiungono le preoccupazioni per lo shooting fotografico, organizzato insieme al fratello, per lanciare il nuovo marchio di famiglia. Edda non si sente mai adeguata, eppure la sua perfezione mi sembra d’un tratto così immacolata da diventare algida, glaciale. Ho l’impressione di addormentarmi su una distesa di ghiaccio. Mi capita di sbadigliare. Ma proprio durante uno sbadiglio, avverto qualcosa di atono nelle parole della paziente attraversarmi prima le orecchie e poi l’addome. In quel momento noto che Edda, a furia di mettersi le mani in testa – presa dalla concitazione dei discorsi e probabilmente disinibita dal sentirsi a casa – ha i capelli insolitamente scarmigliati. La sua capigliatura cattura la mia attenzione fino a colonizzarla, i capelli diventano per me così rumorosi da coprire il suono della voce, nascondendo il significato delle parole: non riesco più a seguire il filo del discorso. Siamo in videocollegamento e per certi aspetti, mi sento anch’io protetta dalla distanza. Ma la sensazione di stanchezza progressivamente si impone: sono sempre più stanca, stanchissima, di una stanchezza incomprensibile. Le parole di Edda diventano pesanti, rallentate in una specie di slow motion. La noia si trasforma nella sensazione di perdere i sensi. Mi preoccupo. Penso che non posso svenire davanti alla paziente. Non capisco, eppure in fondo Edda mi sta parlando di tensioni quotidiane, i soliti temi, e io tutto sommato, sto bene, ho riposato.
Fa una pausa: viviamo insieme una sospensione opprimente, aggravata dalla realtà virtuale. Mi sento male, sul punto di svenire, come un ‘venir meno’, mentre Edda sembra un dipinto di Egon Schiele con i capelli scomposti e un’aria quasi lasciva.
Nel silenzio risuona in me una parola: ‘spettinata’. Respiro e le dico che comprendo la sua preoccupazione e il suo bisogno di essere scrupolosa affinché ogni cosa vada a buon fine. Ma come un aspetto leggermente spettinato conferisce una mano di freschezza a un insieme composto, così a volte lasciar un po’ andare aggiunge un tocco d’arte, rendendo il complesso più fluido, meno acconciato. Un pizzico di nonchalance accorda sensualità alle cose. A questo punto Edda mi racconta un sogno: «Sono con lo zio a Leuca, mi afferra di spalle e mi prende per i capelli. Io resto immobile e mi accorgo di aver perso la voce». Poi aggiunge con un suono freddo, senza modulazioni e senza pause: «prima di iniziare la terapia mi sono giurata che non gliene avrei parlato, l’ho confidato solo a un prete tanti anni fa. Ora glielo dico, ma poi mi deve promettere che non ne parleremo più: questa persona quando ero adolescente abusava di me, cioè in realtà non so se erano molestie o violenze. È successo più di una volta».
Attraverso l’immagine spettinata, la noia, che avevo sperimentato a inizio seduta, aveva rivelato il suo nucleo d’angoscia; la perfezione di Edda aveva mostrato l’altra faccia come maniacale tentativo di ‘pettinare’ l’incontrollabile scarmigliatura dell’esistenza. Si era sentita presa per capelli, Edda, da un familiare che le aveva mostrato la sua ombra perturbante. E allora bisognava pettinarsi bene: la sensualità doveva essere disciplinata, contingentata, anzi occultata, perché nascondeva una colpa antica.
Da quel momento, ‘spettinarsi un po’ è diventata l’immagine del nostro attraversamento terapeutico, immaginante e immaginifico.
Edda, nel corso della terapia, mi ha resa partecipe di una continua oscillazione in quella dimensione dubitativa che tanto spesso accompagna l’esperienza traumatica: sono stata io? È accaduto davvero? Ero complice? Qual è il limite tra piacere e dolore? Tra complicità e straniamento?

Imaging O

 Schechner si pone la stessa domanda di Edda, in Imaging O, o meglio sono Ofelia e O, le pazienti protagoniste della sua performance a riflettere insieme su questi interrogativi. Sembrano i poli di un’antinomia. Infatti, Ofelia esprime una sofferenza amorosa spirituale che la rende un archetipo della pazzia d’amore, mentre O incarna un femminino primigenio ed erotico. Quest’ultima è la protagonista del romanzo erotico Histoire d’O della giornalista e traduttrice francese Dominique Aury, pubblicato con lo pseudonimo di Pauline Réage. La sua identità rimase segreta per quarant’anni, fino a poco prima della morte, avvenuta all’età di novantun anni, quando rivelò di aver scritto il libro come una serie di lettere d’amore al suo amante. O era una bellissima fotografa di moda parigina che acconsentiva a pratiche erotiche estreme, sconfinanti nel sadomasochismo.
Schechner ha utilizzato, come testo di partenza per la performance, un’intervista rilasciata dall’autrice al New Yorker, sostituendo all’intervistatrice la protagonista dell’Amleto shakespeariano.
Il dialogo tra O e Ofelia, precedentemente filmato, proiettato durante la performance, è anche interpretato dal vivo in un altro momento dello spettacolo. Pertanto si crea una sovrapposizione tra piani temporali che possiamo intendere come una mise en abyme di avant e après coup (esattamente come avviene nella performance dell’analisi).
Imaging O è nata nel giugno e luglio 2011, mentre Schechner era Visiting Professor presso l’Università del Kent, a Canterbury. Il processo di realizzazione, durato sei settimane, è stato concepito come un vero e proprio work in progress, a partire da quattro elementi testuali: letterali, personali, spaziali e visivi.
Innanzitutto ci sono i testi letterari (La Storia di O e l’Amleto) da cui derivano quelli personali, ossia gli scritti e le azioni prodotti dagli attori a partire dai ‘drammi’ originali. Poi viene il testo spaziale, caratterizzato da diversi ambienti del Jarman Art Center che ha funto da setting per la costruzione della performance, orientandone le scelte di realizzazione. Imaging O è stata definita una performance dispersa anche perché le scene si sono svolte in differenti spazi, all’interno e all’esterno dell’edificio: nell’atrio principale, per le scale (compresa quella antincendio), negli studi, nei bagni e in uno spazio chiamato ‘il Cubo’ (un corridoio di vetro al secondo piano). Infine, è presente anche un ulteriore testo visivo composto da alcuni dipinti del pittore franco-polacco Balthasar Klossowski, meglio conosciuto come Balthus, che ritraggono figure femminili semivestite o nude.
Volendo tracciare un parallelismo con la terapia, possiamo sostenere che i testi letterari svolgono la stessa funzione delle storie che precedono l’incontro della coppia analitica. Sia il paziente sia l’analista portano con sé il proprio romanzo autobiografico incompiuto, costellato da una peculiare sintomatologia. Quei contenuti continuano a scriversi e, in un certo senso, vengono reciprocamente riscritti durante la cura, dando origine a nuovi testi personali. Anche il testo spaziale dell’analisi, come nella performance di Schechner, non funge da mero contenitore, ma diventa esso stesso contenuto: pensiamo al setting come dimensione simbolica, e non solo fisica, che si estende dentro e fuori i confini della stanza d’analisi, in presenza o da remoto. A proposito di testo spaziale, l’analista junghiano Henry Abramovitch (2021), partendo dalla descrizione del proprio studio, presenta due orientamenti principali nell’allestimento del setting terapeutico: spazio vuoto, improntato alla neutralità e all’assenza di connotazioni troppo personali, e spazio pieno, in cui diversi oggetti e arredi scelti dall’analista contribuiscono non solo a creare un’atmosfera terapeutica, ma diventano in qualche modo catalizzatori del processo di cura. Abramovitch descrive lo studio di Jung e quello di Freud che appartengono entrambi (nonostante la scelta di spazi vuoti sia prevalente nei postfreudiani) al modello degli spazi pieni; l’autore sottolinea come per i due maestri gli oggetti contribuissero a creare un legame con il passato, non solo individuale, ma anche collettivo (pensiamo alla collezione di sculture religiose di Freud o alla finestra istoriata di vetro temperato che ornava la stanza di Jung).
Fin qui, dunque, abbiamo descritto i testi letterari, personali, e spaziali dell’analisi; resta da definire il testo visivo. Esso rappresenta la miriade di immagini, fisiche e psichiche, che si moltiplicano durante la cura: l’aspetto più o meno cangiante della persona che abbiamo di fronte – dalla prospettiva del terapeuta e da quella del paziente –, le immagini evocate dalle parole, le metafore, ma anche, non meno importanti, le figurazioni oniriche.
Un altro aspetto che contribuisce a definire la specificità della performance è la presenza di un metodo corredato da precise regole di scrittura. Nella stesura dei testi personali di Imaging O, gli attori dovevano utilizzare solo parole pronunciate dalle protagoniste femminili delle opere selezionate: non potevano usare parole che non fossero presenti nei due testi letterari di partenza, né quelle di personaggi maschili. Proprio questi limiti, piuttosto stringenti e qualche volta infranti, hanno permesso ai partecipanti di liberare la propria immaginazione estetica; allo stesso modo, nel contesto terapeutico, la presenza di regole – quali, per esempio, la durata della seduta – consente di creare un temenos capace di liberare immagini.
Il dialogo tra O e Ofelia diventa una specie di psicodramma in cui le due protagoniste riflettono senza giudizio su alcuni temi che il regista definisce ‘caldi’: abiezione, sottomissione, corpi come oggetti erotici, innocenza corrotta dal pensiero, piacere del dolore e dolore del piacere. Lo stesso Schechner concepisce il loro dialogo come una metafora dell’esistenza, un viaggio esplorativo, sia individuale sia collettivo, che non pretende di risolvere, né vuole evitare alcune domande, ma cerca di attraversarle usando l’immaginazione. In un certo senso le due protagoniste, così diverse tra loro, esercitano una reciproca funzione di compensazione, mostrando, l’una all’altra, l’altro polo dell’antinomia.
Nella dinamica della cura questa reciprocità di sguardi alimenta un dialogo che si fonda sulla sospensione del giudizio. È proprio quest’ultima caratteristica a rendere la terapia rivoluzionaria e politica, perché il paziente può fare esperienza di un valore che dovrebbe costituire la testata d’angolo della democrazia: l’ascolto vero, non giudicante e aperto.
Un’altra caratteristica di Imaging O consiste nella realizzazione di una speciale sparizione dell’artista che si materializza in alcuni momenti definiti dispersals. Schechner lascia agli spettatori una mappa per scegliere quali scene seguire. Si istituiscono due momenti di dispersione in cui prendono vita, contemporaneamente, diverse azioni della durata di venti minuti l’una. La dispersione in Imaging O diventa un esercizio di assenza su più livelli: dispersione nel testo (utilizzando non solo testi pre-esistenti ma anche testi prodotti dagli attori), dispersione nello spazio (dislocando l’azione in più ambienti), e infine dispersione del potere del regista che permette ad attori e spettatori di prendere parte alla drammaturgia.
Emblematica, da questo punto di vista, è la creazione di uno spazio chiamato Dramaturgical Room: invece di avere una nota di programma o qualcosa di simile, durante lo spettacolo, gli spettatori possono entrare in una stanza ricca di materiali multimediali che raccontano la realizzazione del processo performativo; lì è possibile incontrare direttamente il ‘drammaturgo’ e in questo modo partecipare alla drammaturgia, ponendogli domande sulla performance stessa e sui suoi molteplici sensi. La Dramaturgical Room appare, allora, come una sorta di coscienza performativa, ossia di dispositivo con funzione di continuità nella discontinuità delle scene. Essa rappresenta uno spazio metaperformativo di riflessione sull’esperienza attraverso l’esperienza: in questo modo la drammaturgia si realizza contemporaneamente alla performance scritta.
Tornando nella prospettiva della talking cure, potremmo considerare la stanza di drammaturgia in una sorta di ecologia della mente (Bateson 1972); essa può essere riletta come un ambiente immateriale che va emergendo durante la terapia, capace di creare spazi interni di coscienza, sia nell’analista, sia nel paziente; allo stesso tempo, tuttavia, potremmo pensare la stessa stanza d’analisi come dramaturgical room, uno spazio-attraverso in cui raccapezzarsi rispetto alla ‘scrittura’ delle nostre vite che, nel frattempo, continuano la loro azione dentro e fuori la terapia.

Note

  • [1] Ma cos’è la coscienza? Luigi Aversa (1999) ne propone una definizione in chiave fenomenologica come insieme di tempo, spazio, intenzionalità e Io; quest’ultima istanza – o complesso primario, seguendo Jung – appare strettamente legata al corpo e permette di ridefinire i primi due elementi come tempo e spazio vissuto.

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