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La porta del cinema e la porta dell’inconscio. Angiola Iapoce in dialogo con Angelo Moscariello

Rivista annuale a cura del Centro Italiano di Psicologia Analitica Istituto di Roma e dell’Italia centrale

il grande schermo

2018 Nuova Serie Numero 0 Il Grande Schermo: risonanze analitiche

A CURA DI CATERINA ROMAGNOLI Le immagini, con la loro indeterminatezza simbolica e con gli spazi vuoti in esse contenuti, rappresentano una delle chiavi per aprire la porta dell’inconscio. In questa prospettiva il cinema è una delle arti favorite per questa lettura. La rubrica Il grande schermo ospita emozioni e riflessioni sulle due espressioni immaginali: lo sguardo del cinema e lo sguardo della psiche.

La porta del cinema e la porta dell’inconscio. Angiola Iapoce in dialogo con Angelo Moscariello

Iapoce

La lettura del tuo libro Aprire quella porta [3] è stata per me estremamente illuminante. Sei riuscito a raccontare in un saggio, anche di non facilissima lettura, ciò che, in maniera disordinata e confusa, si trovava dentro di me. Hai descritto con concetti e parole non scontate proprio quello che vi è nei film e che ne rappresenta la ‘magia’ attrattiva per lo spettatore. E ti ringrazio anche perché le tue raffinate analisi, non mi hanno ‘smontato’ l’attrazione per il cinema che, anzi, ne è uscita incrementata. Sarebbe troppo lungo ripercorrere qui tutti gli innumerevoli temi da te affrontati, anche se sarebbe estremamente stimolante, ma per questo rimando alla lettura diretta del tuo libro.

Ho scelto alcune tematiche del libro che mi hanno particolarmente sollecitato e su questo ti rivolgo alcune riflessioni e alcuni interrogativi.

Ciò che mi ha particolarmente sorpreso è stata la tua profonda conoscenza di Jung e la brillante e moderna lettura che ne dai. E questo non soltanto perché citi spessissimo lo psichiatra svizzero, ma ancor più perché junghiano è in buona parte l’impianto concettuale dell’intero libro. Subito dopo hai dato alle stampe un altro lavoro che, anche nel titolo, esplicita la tua frequentazione del pensiero junghiano[4].

«È opinione comune che un film che non ci cambia la vita è un film inutile». Sono le parole di apertura e che ritroviamo qua e là nel corso della lettura. Qui dichiari esplicitamente la cornice entro cui svilupperai il tuo pensiero. Non vi è film senza uno spettatore e tra il primo e il secondo, durante la visione, si stabilisce una circolazione di tipo ermeneutico che fa rimbalzare il film sullo spettatore: toccando le sue emozioni, un film cambia la sua prospettiva, sia di se stesso e sia sul mondo; un film ci ‘ridescrive’, altrimenti fallirebbe nel suo intento ‘filmico’. Ma ciò che, secondo me, è ancor più interessante nel discorso che porti avanti è il movimento ermeneutico all’inverso, per cui lo spettatore ‘modifica’ il film stesso. Se ho ben capito questo concetto, si tratta di quelle interruzioni nella trama narrativa che rappresentano quelle che chiami «immagini oscure», ovvero simboliche proprio in senso junghiano. Si tratta di immagini che contengono l’apertura a quell’indicibile che non può essere riassorbito dal piano narrativo. Ma – tu continui – questa «immagine oscura» (simbolica) «richiede l’interpretazione soggettiva dello spettatore per poter essere reintegrata nella catena significante del racconto» (p. 17). Si tratta di un’immagine ‘eccedente’, un significante senza un significato che però in quanto tale – e qui citi Barthes – «apre il campo del senso totalmente, cioè infinitamente»[5].

Da qui la mia domanda: «Possiamo dire che ogni film lavora su due livelli discontinui – il piano narrativo (che potremmo assimilare al lavoro della coscienza) e il piano simbolico (che è il piano dell’inconscio) e che l’apporto dello spettatore è simultaneamente passivo e attivo, passivo nel seguire la trama del racconto, attivo nell’affrontare il significante privo di significato, ovvero nell’immaginare l’irrapresentabile/indicibile?»

E se concordi con la domanda, in questo il cinema può essere accostato, con le debite differenze, a uno degli aspetti più specifici della psicoterapia, ovvero l’alternanza, nelle sedute, tra piano della coscienza e piano dell’inconscio. Anche se non sei uno psicoterapeuta, cosa pensi di questa mia osservazione?

Moscariello

La tua osservazione iniziale è giusta. È proprio così, ogni film lavora su due livelli discontinui, quello narrativo che attiene alla coscienza e quello simbolico che attiene all’inconscio. I due livelli si affiancano, si fondono e si separano in uno scambio incessante, per cui l’uno risulta indiscernibile dall’altro con il risultato che l’immaginario risulta più reale del reale (ammesso che quest’ultimo esista). In un film ogni immagine è sempre un’immagine concreta di una immagine mentale, che è quella del regista. Inquadrare una cosa o una persona vuol dire far coincidere la sua riproduzione con l’idea che di essa ha il regista (ecco perché, ad esempio, tutte le figure femminili, che vediamo sullo schermo, non esistono in natura, ma sono tutte proiezioni ideali della mente di chi le rappresenta). Il fenomeno si spiega con il fatto che ogni artista, e i registi sono o si sentono artisti, sono degli ‘scompensati’ salvati dal dono della forma artistica (ma non sempre, come dimostrano i casi estremi di un Nietzsche o di un Artaud). Essi registi sono tipi creativi, sono tipi, per dirla con Jung, «in cui il diaframma tra la coscienza e l’inconscio è più permeabile», sono persone le quali sublimano le loro nevrosi mediante la loro ‘messa in forma’ artistica, con il risultato di compensare lo squilibrio psichico tra il piano della coscienza e quello dell’inconscio da cui essi sono afflitti. Nel caso del cinema soltanto quei film che rendono universale il particolare e rendono collettivo il personale sono film riusciti nella loro funzione compensatoria, che si estende anche agli spettatori e non resta più limitata al caso singolo dell’artista. Affinché questo avvenga, il film deve favorire l’apporto dello spettatore, apporto che, come tu osservi, è simultaneamente attivo e passivo. La condizione richiesta per attivare questo flusso film-spettatore-film è che il regista sappia integrare il piano razionale con quello irrazionale senza forzature, con quella che Jung chiama funzione trascendente e che ritiene essenziale per la riuscita poetica dell’opera: «La raffigurazione estetica ha bisogno della comprensione del significato, e la comprensione ha bisogno della raffigurazione estetica»[6] (Jung, p. 112). Quando questa integrazione dei due piani non si attua allora il film risulterà per gli spettatori o banalissimo o incomprensibile, con buona pace di quel processo psichico del “ricambio” studiato dai filmologi (salvo che non si tratti di spettatori televisivi amanti delle telenovelas oppure di cinefili snob pronti a difendere ogni ermetico pastrocchio partorito da sedicenti autori malati di ipertrofia dell’Ego). Dunque, durante la visione di un film, lo spettatore si trova a confrontarsi in maniera simultanea con il piano dell’istinto e con quello dell’Io (con il doppio livello del Desiderio e della Legge, per usare i termini di Lacan) e perciò si può dire, come tu suggerisci, che vedere un film attiva la stessa alternanza tra il piano della coscienza e quello dell’inconscio che si attiva durante una seduta di psicoterapia.

Iapoce

Il cinema e la psicoanalisi sono posti oggi particolarmente in relazione e non vi è associazione psicoanalitica che non contempli una sezione dedicata al tema. Ma tu ti dimostri piuttosto critico rispetto a questa operazione. In realtà metti in guardia dall’applicazione banale, scontata e un po’ automatica dell’interpretazione psicoanalitica al contenuto del film. E su questo io sono pienamente in accordo con te. La vicinanza del cinema alla psicoanalisi va piuttosto ricercata non in ciò che viene detto quanto piuttosto per come viene detto. E citi La caduta della casa Usher come «primo film freudiano» (p. 44), film del 1928; riporti anche le parole del regista del film, Jean Epstein che rivela come la terapia psicoanalitica «conferma l’esistenza di un’anima profonda […] il cinematografo traduce pubblicamente l’universo in immagini ancor più disordinate, più assurde di quelle che gli scienziati sono riusciti a scoprire» (pp. 44-45). In questo il cinema si scopre come «un formidabile rivelatore dell’inconscio» (p. 45). In sostanza, la vicinanza tra cinema e psicoanalisi va cercata, e la si trova, in quella espressione di immagini che ritroviamo nella fantasia e nei sogni, che rappresentano il fulcro portante della manifestazione dell’inconscio.

Cinema e psicoanalisi rivelano entrambi l’inconscio, entrambi si nutrono di ciò che chiami il ‘figurale’ da distinguere dalla ‘rappresentazione’, semplice mimesis senza apporti soggettivi. Nel cinema viene spezzata la ‘catena del verbale’ e si squarciano visioni del profondo in forma di simboli e metafore. Come tutte le psicoanalisi dell’inconscio, il cinema è un ‘significante immaginario’ che porta allo spettatore le ‘pulsioni prerazionali’, e questa è la lingua scritta della realtà.

Nella tua immagine del cinema, sposti molto l’attenzione su tutti quei film in cui più è evidente la forza dell’elemento pulsionale che si impone sul piano razionale della narrazione. Alla fine mi sembra di aver colto che sposi la tesi di Lyotard per cui il vero cinema è l’a- cinéma, ovvero un film di sensorialità, di immagini e di ‘pulsionale’, dove l’energia fluisce senza imbrigliamenti narrativi. Così come certamente privilegi quei film che, attraverso alcune tecniche cinematografiche specifiche, per esempio effetti ottici particolari –cambio di velocità della ripresa, sovraimpressione, dissolvenza, immagini flou – facilitano l’accesso alla ‘figuralità nascosta’, un accesso oggi particolarmente facilitato dall’uso del digitale e delle sue infinite potenzialità di realizzazione dell’immagine. Ho ben interpretato le tue riflessioni?

Moscariello

L’analogia tra il film e il sogno va riconosciuta a patto di tener presenti le differenze tra il linguaggio del primo e quello del secondo. Lo stato di «vegliambulismo» che Artaud riferiva allo spettatore dei film consente di deformare la realtà sotto il vigile controllo di una razionalità che si incarica di mantenere ben riconoscibile tale realtà nel momento in cui ne modifica la fisionomia quotidiana. Si tratta di una condizione di ‘visionarietà cosciente’ che può esprimersi per accumulo dei segni (Welles, Fellini), oppure per rarefazione di essi (Keaton, Bresson, Dreyer), ma che sempre, comunque, crea un universo ‘altro’ la cui materia è solo ed esclusivamente il linguaggio filmico e non già un qualche materiale pro-filmico, a sua volta già deformato (quadro, scenografia, recitazione degli attori o anche sogno sognato). Il cinema non riproduce mai il mondo, ma ne crea uno che è simile ad esso e che obbedisce alla logica del sogno. Sullo schermo la realtà ‘altra’ non si ottiene inseguendo la vuota fantasticheria, si ottiene dipanando l’iniziale ‘macchia’ poetica della coscienza (quella di cui parlava già Vico e ripresa poi da Bergson) mediante una alternanza quasi matematica di soggettività e di oggettività di cui sono esempi la ‘discontinuità narrativa’ di un Godard e la tecnica della ‘soggettiva libera indiretta’ di un Pasolini. Se nel cinema narrativo classico gli scarti temporali tendono ad essere occultati in nome della massima trasparenza, nel cinema ‘poetico’ essi diventano la vera materia dell’espressione e si organizzano secondo quella logica «sconcatenata» di cui parla Deleuze. Alla durata temporale cronologica si sostituisce una durata atemporale della coscienza che de-realizza le cose e le trasporta in un ambito metaforico (caso programmatico: L’anno scorso a Marienbad di Resnais). In seguito a ciò l’immagine, da semplice ‘indice’, si trasforma in immagine-simbolo, con il risultato che la prospettiva che si viene a creare tra tali immagini non può essere che ‘interna’, relativa cioè al particolare contesto in cui esse si strutturano e, in quanto tale, essa è anche ‘irripetibile’ e perciò non-convenzionale.

Iapoce

Pur riconoscendo il grande valore di quel cinema à-cinéma e pur apprezzando molto gli ‘effetti’ del cinema digitale (sono una grande estimatrice di Avatar), non credi di essere troppo di parte quando scarti completamente il cinema-narrazione che trova la sua espressione più alta nel cinema hollywoodiano? Per essere più chiara: concordo con te sulla lettura ‘politica’ da fare per questi film, film ‘borghesi’ che tagliano su una narrazione forte e un montaggio altrettanto ‘forte’, film che si rivelano al servizio dell’establishement e che non concedono il ‘lampo creativo’ dello spettatore.

Ma, secondo me che sono un’estimatrice anche del cinema ‘borghese’, il valore ‘filmico’ sta proprio in questo taglio esclusivamente narrativo, in cui trionfa la sceneggiatura, film che chiamano al consenso più che alla critica e al dissenso. Forse ogni film è ‘antirealistico’, anche quello che sembra rappresentare in modo oggettivo la realtà perché forse, anche in questo caso, possiamo trovare il piano dell’‘oscuro’, che è poi, il più delle volte rappresentato dai sentimenti che affondano le radici in magmaticità archetipiche. Penso alla commedia dell’epoca d’oro di Hollywood, che ruota intorno ai plots amorosi, a lieto fine, scontati per lo più, ma, se la mano del regista è prestigiosa, sono film che colgono anch’essi un immaginario primitivo (l’amore incondizionato, il principe azzurro, le trame ‘addomesticate’ del destino, ecc.) e proprio per questo non annoiano. Penso a film quali Accadde una notte del 1934 o Susanna del 1938, solo a titolo di esempio. Oppure anche a quei brevi film, meno conosciuti, di Mitchell Leisen quali La signora di mezzanotte (1939) o Ricorda quella notte (1940): si tratta di film estremamente raffinati e brillanti in cui lo spettatore è contagiato dalla loro scoppiettante energia. Si tratta, alla fin fine, di film che si avvalgono di interpretazioni straordinarie, e, soprattutto, di ‘ritmi narrativi’ particolarmente esaltanti. Tu sei molto critico verso «le belle storie da offrire a un pubblico in cerca di illusoria consolazione» (p. 65). Ma il sempre attuale psicoanalista dei bambini Donald Winnicott ritiene che tanto l’illusione quanto la consolazione rappresentino tappe fondamentali per una maturazione equilibrata di un bambino. Perché rifiutarle?

Tu forse non sarai d’accordo, ma non possiamo dire che, anche in questo caso, ci troviamo in presenza di un certo ritmema pasoliniano, ovvero un certo ritmo che comunque ha dentro di sé il ‘filmico’ e lasciamo quindi al gusto personale di ognuno il piacere o non piacere? Insomma, non c’è poesia anche nel cinema narrativo?

Moscariello

La domanda che tu poni è: davanti alla catena di immagini che scorrono sullo schermo, dove va a infilarsi l’inconscio dello spettatore? La risposta è: in tutti quei vuoti, in quei tagli e in quei prolungamenti nella rappresentazione che sono ingiustificati sul piano narrativo, in tutte quelle immagini che non rappresentano nulla di definito ma che evocano molto di indefinito. In ogni film si possono trovare lampi di quello che Lyotard chiama l’a-cinéma, da lui inteso come la quintessenza del cinema puro. Si tratta di lampi (volontari ma anche involontari) che colpiscono la psiche dello spettatore e suscitano in lui ‘pulsioni pre-razionali’ dovute alla natura animistica e metamorfica del linguaggio cinematografico che parla all’inconscio dello spettatore pur dentro un pretesto o una cornice narrativa razionale (sempre secondo la dinamica della junghiana ‘funzione trascendente’). Questi momenti, dove l’invisibile subentra al visibile e il non-detto prende il posto del detto, sono percepibili in molti film ma in alcuni diventano la cifra espressiva del film e della poetica del regista. Si pensi alla scena iniziale nel deserto in Professione reporter di Antonioni dove una serie di inquadrature sono per intero riempite in alto dalla fascia azzurra del cielo e in basso dalla macchia gialla della duna desertica a formare una ‘composizione pittorica’ astratta, simile a uno dei pannelli monocromi di Mark Rothko. Si pensi all’interminabile e quasi muto piano-sequenza iniziale tra gli alberi del parco in Sacrificio di Tarkovsky dove la ‘pressione del tempo’ sull’inquadratura instaura la polarità tra la disperazione esistenziale del ricco protagonista e la speranza nel futuro, nutrita dall’umile postino a prefigurazione del tragico finale. Si pensi, infine, all’improvvisa inquadratura sul nero in Velluto blu di Lynch, da dove, pur essendo pieno giorno sbuca come un fantasma la bionda ragazza che circuirà lo sprovveduto giovane protagonista conducendolo dentro l’incubo.

Del cinema della Hollywood del periodo classico è ingiusto, come tu osservi, negare le qualità artistiche. Ma si tratta di qualità che non tengono conto della dellavolpiana differenza semantica tra le arti, qualità non inerenti al linguaggio filmico in sé, ma merito delle sceneggiature di matrice letteraria o teatrale che stanno all’origine di esso. I film di questo cinema si possono anche raccontare a parole, essi si affidano a continui e anche godibili colpi di scena teatrali, mentre il cinema puro è quello che non si può raccontare dal momento che è fatto di quelli che possiamo chiamare ‘colpi di cinema’, vale a dire di ‘idee filmiche’ espresse unicamente per mezzo del montaggio e dei movimenti della cinepresa e, in quanto tali, irrealizzabili in altri linguaggi e intraducibili in termini verbali (non si può raccontare La corazzata Potemkin come non si possono raccontare Deserto rosso, Stalker e Mulholland Drive, mentre si possono raccontare Accadde una notte e Susanna, il cui merito sta tutto nei dialoghi e nella recitazione che sono qualità profilmiche). Comunque, il merito storico e sociale della ‘politica dei generi’, praticata ieri (e in verità anche oggi) da Hollywood, resta quello di produrre con mille variazioni le stesse favole che non ci stanchiamo mai di sentirci raccontare (favole western, dove il cavaliere buono vince su quello cattivo, favole noir, dove la giustizia alla fine trionfa eccetera) e questo va anche bene per rassicurarci, oggi come ieri, ma a patto che esse vengano fruite come tali e non come vere alternative di vita a disposizione di tutti. Mitizzare può avere una funzione per la crescita del Sé, mistificare non può che produrre negli spettatori un effetto regressivo.

Ritmo non è ritmema. In questi film classici ricordati c’è, come tu osservi, un grande senso del ritmo, ma è un ritmo che attiene alla ‘poesia narrativa’ e non alla ‘poesia-poesia’, Questo ritmo è altra cosa da quel ritmema teorizzato da Pasolini in un capitolo del suo Empirismo eretico come elemento metrico originale del suo ‘cinema di poesia’ e consistente

«in un rapporto creativo tra l’intero ordine delle inquadrature e l’intero ordine degli oggetti di cui sono composte», un rapporto tra le immagini ‘anomalo’ rispetto a quello presente nel cinema di prosa (perché fatto di lunghe inquadrature quando ce le aspetteremmo brevi e di brevissime quando ce le aspettiamo lunghe). Questo rapporto metrico originale mira a favorire l’identificazione attiva dello spettatore, e sarà adottato negli anni ’70 anche da altri registi della modernità come Godard, Rocha, Anghelopulos e anche dagli stessi registi della Nuova Hollywood tra cui Scorsese, Coppola e Cimino in funzione antinaturalistica contro la sceneggiatura). Va ricordato che nel cinema muto degli anni Venti una grande capacità di astrazione prosodica e metrica la troviamo nelle gag del genere slapstick che popolano le comiche, non soltanto di Chaplin, ma anche di Keaton, di Lloyd e di Stanlio e Ollio, e in seguito la ritroveremo nelle gag surreali di Jerry Lewis e di Jacques Tati.

Iapoce

Un ultimo punto vorrei portare alla tua attenzione perché, anche qui, colgo una vicinanza impressionante tra cinema e psicoanalisi.

«Sogni e miti sono la materia di cui è fatto il cinema. I simboli e le metafore sono le figure che li traducono in immagini significanti di una rappresentazione pre-verbale che attinge alla dimensione di possibilità del reale» (p. 91). E questa è anche la ‘materia’ di cui è fatta la psiche: Immaginario filmico e Immaginario psichico. Ora, proprio perché nei film la ‘materia’ è al suo livello più primitivo, quasi al livello del pulsionale a-rappresentazionale, dobbiamo dire che un film raggiunge il suo scopo ‘filmico’ quanto più riesce a cogliere nella psiche dello spettatore i depositi emozionali ancestrali più profondi e più nascosti. Quanto più cioè un film è in relazione con quello che definirei ‘l’irrapresentabile eterno’ che, pertanto, entrerebbe sempre nella configurazione filmica. E, in queste immagini e in questo immaginario, saremmo in presenza dell’aspetto universalistico della settima arte. Così come una delle mete della psicoterapia junghiana è quella di restituire quell’essere umano al suo alveo umano condiviso dagli altri esseri umani, e ‘condiviso’ è esattamente all’opposto di ‘subìto’. Cosa ne pensi?

Moscariello

Rispondo alla tua domanda finale citando le parole di Jung: «Il tornare a immergersi nello stato primigenio della partecipation mystique è il segreto della creazione e dell’azione artistica, poiché a questo livello dell’esperienza non è più in causa il singolo soltanto, ma la collettività, e qui non si tratta più del bene o del dolore del singolo, ma della vita della collettività»[7]. Questo vale per tutte le arti e a maggior ragione vale per il cinema che è l’arte più universale e democratica di tutte, l’arte più capace di attualizzare gli archetipi collettivi (eterno femminino, femme fatale, eroe, strega, mago incantatore e quant’altro), e di portare alla luce tutti i mostri che abitano nel profondo della psiche di ognuno (quei mostri già raffigurati a fine Ottocento dalla pittura simbolista di un Von Stuck,di un Klinger e dagli inchiostri di uno scrittore-disegnatore molto amato da Jung come Alfred Kubin). E in questo lavoro creativo il cinema non chiede di essere subìto ma chiede di venire condiviso in un rapporto paritario tra il regista e lo spettatore, proprio come quello che, nell’analisi, dovrebbe instaurarsi tra il terapeuta e il paziente (e spesso accade che un film riesca a curare meglio di una seduta psicoanalitica). Il bello del cinema è che quando andiamo a vedere un film non sappiamo mai cosa vedremo: si spengono le luci, ci abbandoniamo al flusso delle immagini che scorrono sullo schermo, e iniziamo un percorso simultaneo all’esterno e all’interno di noi che ci farà scoprire l’‘altro’ che abita dentro di noi.

Iapoce

Termino qui, con il mio sentito ringraziamento per avermi offerto la possibilità di leggere i tuoi scritti, e per le riflessioni e i chiarimenti che hai apportato a questo dialogo.


Note

  • [1] Psicologa, analista del CIPA.
  • [2] Già docente di Storia del Cinema, critico cinematografico e saggista.
  • [3] A. Moscariello, Aprire quella porta. Il cinema come rappresentanza simbolica dell’inconscio, Fattore Umano Edizioni, Roma 2016.
  • [4] A. Moscariello, L’inconscio sullo schermo. Il cinema secondo Jung, Moretti&Vitali, Bergamo 2017.
  • [5] R. Barthes, Sul cinema, Il Melangolo, Genova 1997, p. 18.
  • [6] C.G. Jung, La dimensione psichica. Raccolta di scritti, a cura di L. Aurigemma, Bollati Boringhieri, Torino 2015, p. 112.
  • [7] C.G. Jung, La dimensione psichica, op. cit, p. 89.
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