
2012 Numero 1
Interpretatio duplex: gli sconfinati confini della psiche
In questa commemorazione di Mario Trevi, noi tutti stiamo cercando di esporre un nostro personale punto di incontro con la sua opera, cogliendone diverse sfaccettature e restituendone diverse letture. Questa operazione ricorda molto da vicino lo splendido inizio di un famoso saggio di Trevi (1983, p.12) in cui egli inaugurava la sua proposta di un’interpretazione ermeneutica della psicologia analitica parlando della concezione interpretativa di un grande mistico ebraico, Mosè Cordovero, il quale riteneva che ogni lettore avesse nella Torah un settore soltanto suo, per cui solo quel lettore poteva intendere correttamente, in quel punto a lui destinato, la Torah. Da ciò discendeva, per Cordovero, che una corretta interpretazione della Torah richiedesse il concorso convergente e dialettico (sarebbe meglio per noi oggi dire dialogico) di miriadi di interpreti.
Partirò da qui, dall’introduzione della problematica dell’interpretazione, perché questo è stato il mio punto d’incontro con il pensiero di Trevi, talché mi pare proprio che in tutti questi anni non ho fatto altro che girare intorno a questo tema. Negli scritti di quel periodo (il decennio 1980-90) Trevi introduceva nella comprensione psicologica un modo di considerare l’interpretazione assolutamente diverso dal senso tecnico introdotto da Freud nella Traumdeutung (molto più vicino, come ben specificato da Laplanche e Pontalis, a spiegazione che a interpretazione in senso ermeneutico), sicuramente ispirato alla bicefalia interpretativa tipica del pensiero junghiano (l’interpretazione riduttiva e finalistica). La differenza era però abissale: l’operazione di Trevi era infatti ispirata dalla necessità di porre il discorso psicologico nell’ambito di un più vasto e radicale progetto ermeneutico che, mentre riconosceva una distanza incolmabile tra la realtà e il discorso umano, riconosceva anche lo sforzo interpretativo come il senso più specifico dell’esistere umano.
Il fatto è che, dopo un simile passaggio, niente è più lo stesso, il mondo non è più quello di prima, né tanto meno lo può essere la psicologia: e infatti, nelle opere scritte in quegli anni, Trevi diede l’avvio a un vero progetto per una psicologia completamente desostanzializzata, potremmo dire addirittura deontologizzata, considerata davvero, in modo rigoroso, come il modo d’esistenza puramente discorsivo della psiche umana.
Credo che non sia possibile cogliere pienamente il valore della riflessione treviana se non si sottolinea questo passaggio, dal quale discendono tante sue prese di posizione. In particolare la sua ostinata e coerente battaglia contro ogni “oggettificazione” nel discorso psicologico: dal rifiuto del termine “psicologia” a favore di “considerazione psicologica”, dal rifiuto del termine “simbolo” per “attività simbolica”, dal rifiuto della sostantivazione del termine “inconscio” a favore della sua aggettivazione, dal rifiuto del sogno come evento a favore del racconto onirico. Trevi parlava di funzioni psichiche e di modi del discorso: e sono radicali le sue affermazioni, in Interpretatio duplex, in cui dice che la psiche è nulla, essa non è che il suo linguaggio (Trevi, 2000, p. 132).
La curvatura ermeneutica del pensiero di Trevi assunse una declinazione particolare: i punti saldi del suo discorso riguardavano, per un verso, l’infinità dell’interpretazione e per l’altro la storicità della condizione dell’interprete: dunque il problema dei vincoli storici e situazionali dell’interpretazione. Tematica quest’ultima, che Trevi ereditava dall’amatissimo Karl Jaspers, e dalla teoria interpretativa, da quest’ultimo influenzata, di Luigi Pareyson. Apertura e attualità, dunque: non so bene come riuscire a trasmettere la straordinaria vitalità di questo atteggiamento, come si rifletteva nella pratica clinica di Trevi, come egli riusciva a far sentire che nel lavoro analitico si era impegnati in autentico lavoro di ricerca di qualcosa di vero, di autentico, che poteva illuminarci e confortarci, ma bisognava ripartire subito dopo, non acquietarsi, perché “La verità non si possiede se non nella forma del doverla cercare ancora” (è la frase di Pareyson che insieme all’aforisma di Gadamer “L’arte del domandare è l’arte del domandare ancora” caratterizza forse meglio il suo atteggiamento). E molto spesso, in analisi, ho pensato che quella ricerca poteva nella nostra attualità restituire il senso dell’accorata invocazione di Agostino, quando, preoccupato dal peccato di hybris, scriveva: “Quaero, pater, non adfirmo!”
Trevi era però un uomo dubbioso: e quando, negli anni successivi, cominciai a frequentare il suo gruppo di ricerca, sentivo che egli si interrogava spesso su due punti caldi della teoria dell’interpretazione: si chiedeva (ci chiedeva) come e se fosse possibile decidere tra il “non poter più interpretare” o il “non interpretare più” (e dunque si chiedeva quali fossero i limiti dell’interpretazione). E discutevamo sulla possibilità di autoconsapevolezza del punto di vista, sulla possibilità cioè che il momento della “certezza” interpretativa potesse contenere in sé anche una capacità autolimitantesi. Questo solo per dare un’idea delle aperture prospettiche, estremamente attuali, del suo pensiero. Le sue idee mi aprivano la testa: tanto era stato rispettoso e astinente in analisi (il vero peccato capitale dell’analisi, che Trevi davvero aborriva e che considerava il segno del fallimento analitico era l’indottrinamento), tanto sentirlo parlare nel periodo post analitico mi induceva a esplorare discipline e autori anche lontani dalla psicologia, che però arricchivano la capacità di pensare e di immaginare, rendendo sensibili alle infinite modulazioni di quello che lui chiamava il discorso della psiche (che definiva come il prodotto incessantemente diversificantesi della cultura).
In quegli anni uscirono uno dopo l’altro degli scritti che proponevano gli spunti più innovativi e i riferimenti cardinali del suo pensiero: dal 1983 cominciò a venir pubblicato, in quattro parti, sulla Rivista di Psicologia Analitica, nella rubrica Opinioni, quello che poi divenne, per l’editore Bompiani, Per uno junghismo critico. Subito dopo, nel 1986, l’editore Borla pubblicò un minuscolo libretto rosso cremisi, Interpretatio duplex, appunto, che della lunga esposizione concettuale e metodologica dello junghismo critico è la rappresentazione espressiva. Vorrei fermarmi un attimo su quest’ultimo testo, non certo per esporne i contenuti (cosa che richiederebbe un trattato per la densità dei temi e delle risonanze filosofiche), ma perché credo che questo libretto riesca a dare un’idea della complessità della figura intellettuale di Mario Trevi.
Si tratta di uno scritto unico nella produzione di Trevi, senza citazioni, senza bibliografia: si potrebbe dire un pamphlet di ardua lettura, una sorta di lunga, sinuosa narrazione, con punte di lirismo, i cui attori sono due “figure” che vengono quasi personificate per far risaltare le loro azioni: il discorso della psiche e il discorso sulla psiche. Ed è proprio su questo particolare stile scelto per rappresentare la complessità del discorso psicologico che vorrei soffermarmi.
Conosciamo tutti la limpidezza concettuale del pensiero di Trevi, la sua rigorosità espressiva, il suo continuo sforzo non soltanto di esprimersi chiaramente, ma anche di situare il suo pensiero nell’ambito di ricerche testuali rigorose.
In questo scritto però vediamo qualcosa di più, vediamo il suo saper utilizzare le immagini, le metafore, il suo chiedere alle parole di esprimere qualcosa di più di un senso proprio, il suo cercare di trasferire nel discorso la sua profonda sensibilità, esperienza e visione del mondo. Trevi non era certo un intellettuale freddo, non era (soltanto), come si dice in ambito junghiano, un tipo di pensiero. Era, sì, un pensatore rigoroso, che odiava ogni sciatteria e diffidava di ogni approssimazione, che chiedeva in primo luogo a se stesso di parlare bene, di esprimersi correttamente e con una logica indefettibile. Ma era anche un uomo che traeva ispirazione continua da tutto quanto circondasse quel discorso razionale, da quegli aspetti dell’esperienza umana che, non essendo compresi nel discorso razionale, costituiscono quei pungoli che alla ragione continuamente danno da pensare. Trevi diceva, e in questo sta il cuore di Interpretatio duplex, che l’opposizione tra razionale e irrazionale era assolutamente falsa e fuorviante, ma che il discorso razionale si trovava immerso, coinvolto e provocato dalle molteplici forme espressive dell’extrarazionalità.
Potremmo cogliere in questa sua posizione una somiglianza con la riflessione di Wittgenstein, autore che Trevi, peraltro, citava spesso e che amava proprio per la sua sobrietà: ciò che si può dire, si può dire chiaramente, anzi si deve dire bene. Ma quanto è importante quel tacere su ciò di cui non è possibile parlare, quanto è importante rispettare quel silenzio, senza pretendere di violarlo, di violentarlo riducendolo a qualcos’altro, lasciando piuttosto che esso semplicemente mostri sé (è il mistico, diceva Wittgenstein), questo Trevi lo sapeva bene.
E così come il secondo Wittgenstein traeva alimento dall’espressività di quel silenzio, considerandolo, come scrive Gargani, “un silenzio colmo d’espressione” (Gargani, 2008, p. 136), pieno di musica, di ritmo, di gesti, di poesia, così anche Trevi, amante della musica e dell’arte, considerava della massima importanza gli sfondi estetici, gli aloni, i contorni, i silenzi, il pathos e le risonanze che circondano e ispirano il discorso razionale. Nel suo pensiero non c’è mai riduzione, non c’è traducibilità dell’uno nell’altro: ma c’è un legame espresso da una figura complessa che ci rimanda a sofisticate meditazioni epistemologiche, e che ci lascia ancora molto da pensare, un rapporto cioè di inclusione reciproca. Qui c’è un intero programma di ricerca, lo sviluppo del quale è il compito che ci ha lasciato in eredità.
In questo pamphlet c’è la posizione intellettuale di Trevi, il pensatore che trae alimento dal pathos e dall’aisthesis, senza confonderli, ma valorizzandoli come espressioni differenziate dell’esperienza umana; ma c’è anche la sua posizione esistenziale, di persona (nel senso pieno e filosofico del termine) che sta nell’esistenza impegnata a elaborare un pensiero che sia fortemente legato e congruo con la sua esistenza. In fondo è proprio questo il valore più alto che possa esser perseguito nel rapporto analitico. E proprio questo è stato il valore esemplare che la sua persona, intransitivamente, mi ha trasmesso in analisi.
Non so se ho colto aspetti di Trevi, o se in questo mio ricordo la mia soggettività giochi un ruolo troppo importante. Di sicuro so che in questo dubbio mi conforta proprio il suo pensiero: Trevi certo non condivideva una concezione interpretativa a là Schleiermacher (che in fondo è quella che ha dominato l’intera concezione psicoanalitica, almeno fino ai nostri giorni), non pensava cioè che l’interprete dovesse cogliere il pensiero dell’autore addirittura meglio dell’autore stesso. Come pure, all’opposto, non pensava che un testo fosse muto e totalmente alieno dalle sue interpretazioni. Pensava invece alla storicità del testo, e pensava che i piccoli tradimenti che ogni interprete in buona fede compie hanno l’effetto di rivitalizzare i testi, consentendo loro di continuare a vivere attraverso le loro interpretazioni.
L’augurio che faccio a me stessa, e a tutti coloro che vorranno continuare a confrontarsi con la sua opera, è di cogliere non da allievi, ma da liberi interpreti la sua eredità, proprio così come egli avrebbe voluto.
Bibliografia
- Gargani A.G. (2008) Wittgenstein. Musica, parola, gesto, Cortina, Milano.
- Trevi M. (1983) Il sé: soggetto, oggetto, orizzonte. In N. Ciani (a cura di) Il narcisismo, Borla, Roma.
- Trevi M. (1986), Interpretatio duplex, Borla, Roma (riedito in Trevi M., 2000, Per uno junghismo critico, Fioriti, Roma).
- Trevi M. (2000)Per uno junghismo critico, Fioriti, Roma.
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