Stai leggendo
Commento a: Giuseppe Martini “Le storie infrante”

Rivista annuale a cura del Centro Italiano di Psicologia Analitica Istituto di Roma e dell’Italia centrale

Invito alla Lettura

2016 Numero Extra Invito alla Lettura

A CURA DI FRANCESCO DI NUOVO E ROBERTO MANCIOCCHI La rubrica Invito alla lettura propone indicazioni in merito ai contributi più attuali e significativi della psicoterapia con uno sguardo attento agli attuali sviluppi del pensiero teorico; sarà ovviamente presente una forma di dialogo con la letteratura, la filosofia, le neuroscienze e le arti. La rubrica sarà, a seconda dei numeri, completata da una sezione di recensioni, nella quale alcuni psicoterapeuti commenteranno le più interessanti novità del panorama italiano e internazionale.

Commento a: Giuseppe Martini “Le storie infrante”

Giuseppe Martini, Le storie infrante
Fattore Umano Edizioni, Roma 2016

Nelle nove storie che compongono la prima opera narrativa di Giuseppe Martini[1], una frase ricorre con insistenza, come per segnalare l’evento centrale delle vite che vengono raccontate: «poi qualcosa si ruppe». Di storie infrante infatti si parla, di storie interrotte da un evento psicopatologico che cambia drasticamente il senso e il corso di queste vite. Da conoscitori della storia della psicopatologia, sappiamo dare un nome a questi eventi, li riconosciamo nella descrizione jaspersiana del processo, di quell’evento d’interruzione radicale dell’evidenza e della partecipazione al mondo condiviso che confronta chiunque tenti di rapportarsi a esso con la categoria dell’incomprensibile. Moltissime storie cliniche sono state descritte nei testi di psicopatologia fenomenologica per evidenziare le alterazioni strutturali di questi modi alterati di vivere l’esperienza, fino a scandagliare aspetti sottili e profondissimi sui quali si costituisce il vissuto umano, e su queste descrizioni si basa in genere il diagnosta che voglia tentare di comprendere dall’interno la sofferenza psichica.

Nel libro di Martini si fa invece qualcosa di diverso, qualcosa che ci confronta con un tipo di operazione sulla quale forse non si è ancora abbastanza riflettuto nella comunità di coloro che si riconoscono psicoterapeuti: ci si confronta, cioè, con il tentativo di costruire una narrazione là dove non c’è nulla che possa essere essere narrato, là dove c’è un vuoto, un’interruzione, una mancanza, una frattura che rende impossibile una continuità narrativa. Là dove, dunque, l’incomprensibile si è insediato a costituire un’impossibilità rappresentativa, o un’intransitività comunicativa. Non si comprende la follia: su questo impopolare assunto jaspersiano dobbiamo insistere per cogliere la qualità di quell’essere fuori dal mondo e dal senso comune, da cui si genera il sentimento di spaesamento, la vertigine esistenziale che caratterizza ogni contatto con la follia. Ma qualcos’altro si può fare, una volta preso atto di quell’incomprensibile frattura: si può tentare di immaginare, si può tentare di costruire una narrazione di quello che forse potrebbe essere quel mondo, e di fantasticare sul modo in cui potrebbe essersi costituito. Come diceva un grande clinico, Pierre Fédida, di fronte all’incomprensibile, all’orrore dell’inimmaginabile, il compito dell’analista è di continuare a immaginare.

Un processo, questo, che non ha niente a che fare con i modi identificativi della comprensione empatica – tanto che Fédida lo definiva piuttosto neghempatia – poiché non si costituisce nella similitudine con l’altro che abbiamo davanti: esso si distende piuttosto su quel vuoto di rappresentazione, su quel difetto di comunicazione interpersonale, su quell’incomprensibile altro, nel tentativo di costituire un ambiente di pensieri e di rappresentazioni in attesa, forse, di essere abitate. Come nel racconto Passeggiate nel vuoto, ove al nulla rappresentativo di Aurora, la fanciulla che in analisi non sapeva dire altro che «niente, come al solito», si contrappone il tentativo dell’analista di immaginare pensieri non pensati, sentimenti non vissuti, desideri non provati, fallendo, approssimando, qualche volta catturando l’attenzione e facendo lentamente crescere la possibilità e la disponibilità della ragazza a costruire una rappresentazione della propria storia.

Certamente, in questo modo le narrazioni si costituiscono nella capacità immaginativa del terapeuta, stimolata dal contatto con il suo paziente, e portano il segno della sua soggettività, della sua storia personale, dei suoi ricordi, delle sue capacità inventive e dell’affinamento di queste indotto dall’educazione della sua sensibilità e competenza.

Martini, che ha lavorato lungamente in senso teorico e clinico sulla narratività e sul suo valore per la costituzione dell’identità umana, compie in questo volume un passaggio che rende maggiormente visibile quella sottile operazione immaginativa che agisce nella soggettività di ogni psicoterapeuta ogni volta che si trova autenticamente impegnato ad ascoltare i suoi pazienti. Questo ascolto oggi ha perso ogni connotazione recettiva ingenuamente realistica, configurandosi piuttosto come un’attività altamente complessa, ricca di risonanze sinestesiche, mnestiche e immaginative,  tanto da poter essere considerato tout-court come una funzione poietica, in cui pezzi di esperienza dell’uno entrano in risonanza con frammenti di memoria dell’altro, nella creazione di nuovi intrecci, di nuove narrazioni delle quali è tributario il senso.

In questo volume, nell’abbracciare fino in fondo la finzionalità del raccontare, Martini riesce a mostrare con maggiore libertà ed evidenza le potenzialità di verosimiglianza del narrativo, intessendo le sue storie nei margini di contatto tra le esperienze storico biografiche dello psichiatra narratore e le vite di persone che hanno sperimentato l’incontro con quegli eventi spaesanti, con quelle fratture troppo spesso riduttivamente considerate dalla psichiatria solo come perdite desoggettivanti. In questo modo, l’estraneamento che promana da quelle vite così profondamente segnate mostra la propria capacità di permeare intimamente la vita del narratore, generando un’atmosfera di sospensione in cui il confronto con l’incomprensibile sembra divenire la cifra stessa dell’esistenza e dell’interrogarsi umano.

Le storie raccontate sembrano scaturire proprio dalla difficoltà di narrare quell’evento di rottura, dato che chi lo ha vissuto sembra aver perso, o non aver mai acquisito, la capacità di raccontarlo. Ed è da questa sospensione inspiegabile che la finzionalità narrativa prende l’avvio, quasi avvalendosi di una suspence che mette il lettore in attesa di uno svolgimento risolutivo. In questo punto il racconto di finzione rivela al massimo grado la sua efficacia, nel momento in cui assume quell’evento come l’origine di una domanda, alla quale cerca di rispondere allontanandosi dai vincoli di una realtà troppo convenzionalmente definita, lasciando piuttosto emergere le potenzialità di un’inventiva capace di ipotizzare, di creare intrighi, di distendere un intreccio narrativo che cerca di comporre le possibili radici e le eventuali conseguenze di quell’evento nella temporalità dell’esistenza umana.

Incontriamo così vite spezzate alle quali riusciamo immaginativamente a dare un senso, riusciamo a seguire la genesi di un delirio erotomane, a figurarci l’insediamento di depressioni inspiegabili su antichi vuoti luttuosi, a scorgere qualche possibilità di restaurare un contatto affettivo con gli oggetti perduti per mezzo del refrain di una canzonetta, o della ‘casuale’ scoperta di un luogo di gioco infantile. E riusciamo anche a immaginare la devastazione di vissuti affettivi segnati dall’abbandono e dalla trascuratezza, o a cogliere le paradossali analogie di storie che si intrecciano, incrociando percorsi di vita e diramandosi in altre storie. E specialmente riusciamo a scorgere come la follia degli altri si insinui nelle nostre vite e possa produrre in esse degli effetti di senso, per lo meno quando diviene domanda aperta anche sul nostro incomprensibile. In fondo, come ci ricorda l’appassionata ricerca sulla narratività di Paul Ricoeur, è nel lettore che si compie l’ultima, e forse più importante riconfigurazione del racconto di finzione, quando cioè, nell’atto di lettura, le possibilità verosimili dischiuse dal mondo del testo ritornano a dispiegarsi nella vita effettiva dei lettori.


Note

  • [1] Questo testo si trova pubblicato sul sito della Casa Editrice www.fattoreumanoedizioni.com. L’Autore e la Casa Editrice ne hanno dato licenza per la pubblicazione in questo numero della Rivista.

Quaderni di Cultura Junghiana © 2022 CIPA - Istituto di Roma e dell'Italia centrale Tutti i diritti riservati
È consentito l'uso di parti degli articoli, purché sia correttamente citata la fonte.
Registrazione del Tribunale di Roma n° 167/2018 con decreto dell’11/10/2018
P.iva 06514141008 | Privacy Policy