
2012 Numero 1
Il sogno e lo spirito del tempo. Come i sogni in analisi compensano le dominanti della cultura
Forse il sogno non ha solamente una connessione di senso con la vita individuale del sognatore, come aveva pensato Freud. Nemmeno, sembra sufficiente ampliare lo sguardo, come aveva fatto Jung, a quell’inconscio collettivo che trova espressione anche nel sogno, popolandolo di immagini capaci di raccontare le fondamentali (archetipiche) forme del pensare e del sentire, patrimonio dell’umanità che ci ha preceduto e di cui facciamo necessariamente parte. Forse il sogno, e la sua interpretazione, esprimono anche un nesso significativo con lo spirito del tempo. Non solo: il sogno sembra anche voler rappresentare (e l’interpretazione del sogno darne voce) il tentativo di riequilibrare le unilateralità dell’epoca che si sta vivendo e di comporne i conflitti, specie là dove la coscienza collettiva mostra un buon grado di inconsapevolezza. Per questo i nostri sogni mettono in scena, come in un teatro alternativo, valori e orientamenti spesso difformi dalla coscienza collettiva. In questo senso, il nostro punto di vista mantiene fermo nella sua validità il legame tra sogno e sintomo nevrotico, architrave dell’edificio freudiano.
Ma, dentro questa cifra di significato, consente una maggiore fecondità interpretativa oltrepassare l’ortodossia freudiana (che spiega sintomo e sogno come un tutt’uno, anelli di quell’unica catena che è il necessario compromesso individuale tra desiderio e interdizione) ricomprendendo anche nell’esperienza onirica la pertinenza allo spirito del tempo che Jung riconosceva ai sintomi nevrotici:
«Senza esserne consapevole, il nevrotico partecipa alle correnti dominanti del suo tempo e le rispecchia nel suo conflitto personale. La nevrosi è strettamente correlata al problema del tempo e configura propriamente un tentativo fallito dell’individuo di risolvere in sé medesimo il problema generale»1.
Questa è l’ipotesi da cui prende le mosse il presente lavoro, passando in rassegna e commentando alcuni degli innumerevoli sogni che i pazienti portano nelle sedute d’analisi. Pazienti a volte spaventati, altre confortati, altre ancora incuriositi e desiderosi di cogliere un senso dei loro sogni, mai consegnabile interamente a priori ma solo, e sempre provvisoriamente, dentro la relazione analitica in cui il sogno si fa narrazione condivisa. Quasi sempre, comunque, si tratta di sogni portati in seduta da pazienti che se ne mostrano meravigliati, coinvolti in un’esperienza estetica che solo il linguaggio delle immagini può regalare, consentendo successivamente alla parola che le ospita la possibilità di accedere a significati che sempre trascendono le condizioni di vita del sognatore, spesso confuse o bloccate.
Le concezioni che fanno da sfondo al nostro discorso sono quelle espresse da Jung che, valorizzando il contenuto manifesto del sogno (pista oggi molto battuta anche in campo freudiano2, tradizionalmente incline alla sola decodifica di un supposto contenuto latente, posizionato dietro l’ingannevole superficie delle immagini manifeste), ne vede la specificità nella funzione compensatoria rispetto alla coscienza3 e nella funzione prospettica rispetto ai problemi della vita4. Ipotesi, quest’ultima, ripresa soprattutto in alcuni recenti sviluppi della psicoanalisi post freudiana: valga per tutte l’esempio della psicologia del Sé 5. La particolarità del presente discorso consiste nell’applicare questi punti di osservazione al rapporto tra sogno individuale e spirito del tempo, a partire da quello che suggerisce l’esperienza clinica diretta. E’, questo, un punto di vista spesso sacrificato dalla cultura e dalla pratica analitica, più attrezzate nella declinazione individuale dell’interpretazione del sogno senza la quale, per altro, il significato e la terapeuticità della funzione onirica non sarebbero interamente esplorabili.
E pur tuttavia, già Jung aveva sottolineato la funzione pubblica e collettiva del sogno:
«Il sogno quindi gli dice: “Quello che stai facendo è un impegno collettivo; pensi di farlo privatamente nello studio del dottore, ma molti altri stanno facendo la stessa cosa”. L’analisi è analoga alla confessione, e la confessione è sempre stata collettiva, e deve essere collettiva; non è fatta soltanto per sé stessi, ma per il bene della collettività, per uno scopo sociale.» 6
I contenuti che emergono dalla disamina dei sogni ricalcano, per certi versi, le stesse considerazioni cui può approdare l’analisi delle esperienze psicopatologiche; per altri versi, invece, suggeriscono ulteriori sviluppi. A conferma dell’originalità epistemica del sogno che, nella pratica analitica ma più in generale nella storia degli uomini, continua il suo ruolo di rivelazione del nuovo e di pro-vocazione alla trasformazione psichica, specie in ordine alle manifestazioni emotive socialmente più diffuse, alle trasformazioni sociali in atto ed alle loro contraddizioni, alle complessità culturali della nostra epoca.
1. Stati d’animo collettivi: l’angoscia
Nulla più degli affetti è in grado di esprimere valori e direzioni di senso che caratterizzano la vita individuale e la vita sociale. Il sogno spesso rappresenta non solo e non tanto azioni, ma stati d’animo, che spesso ancor più dei personaggi messi in scena rivelano zone d’ombra del sognatore e, al contempo, contraddizioni o nuovi possibili sviluppi di un’intera società.
In particolare, l’ascolto dei sogni dei pazienti che soffrono di attacchi di panico, rappresenta la via maestra per coglierne i vissuti più profondi e i percorsi psichici, quasi sempre inconsapevoli, che vengono allestiti a propria protezione.
L’esperienza del panico, oltre ad essere una tra le più diffuse forme psicopatologiche del nostro tempo, è anche tra le espressioni più emblematiche del parallelo che esiste tra la psicopatologia stessa e lo spirito del tempo. Sia per la primitività emozionale che il panico comporta, nel senso degli stati affettivi che sono tutt’uno con le sensazioni del corpo, sia per la strutturazione delle strategie di evitamento, che trovano oggi nella tecnologia a larga diffusione i percorsi più fruibili. Primitività affettiva e tecnologia al servizio dell’evitamento delle emozioni spesso oggi coabitano, costituendo uno dei paradossi più emblematici dello spirito del tempo.
Riportiamo due sogni di un medesimo paziente che sembrano ben illustrare questi due elementi.
Il primo:
Sono rincorso da una massa di gente. Tento di scappare attraverso una casa strana, fatta di legno e di pietra: dentro ci sono persone che sembrano di un altro mondo. Ma le persone che mi rincorrono mi raggiungono. Provo una grande angoscia e mi sveglio.
Colpiscono tre elementi narrativi del sogno. Il primo riguarda la situazione dell’essere rincorso da una folla anonima, da una molteplicità non riconoscibile né individuabile. Situazione che rimanda all’esperienza subita di un pericolo imminente, senza possibilità di parola e di riflessione, come al paziente è successo durante le crisi di panico. Una situazione dove l’unica possibilità è la fuga, resa possibile da un istinto di sopravvivenza che nel sognatore non è né annullato né modificato da quell’onnipotenza che è invece propria della psicosi. Solo la psicosi, infatti, consentirebbe di costruire spiegazioni altre e distanti da quelle comuni, permettendo una coabitazione delirante con la folla minacciosa dei fantasmi interni, senza necessità di fuga. Per altro, nel sogno, a rincorrere il paziente è una folla umana, non animale. E, nemmeno, il paziente fugge da pericolosi agenti atmosferici. Il che, implicitamente, conferma che l’esperienza dell’angoscia viene annoverata dall’inconscio del sognatore dentro l’alveo dell’umano, non considerata totalmente aliena. Conoscenza onirica e riflessione filosofica qui convergono: il sogno dà ragione ad Heidegger e all’umana “autenticità” dell’angoscia da lui tematizzata.
Il secondo elemento narrativo riguarda lo spazio che si attraversa nella fuga dal pericolo. Si tratta di una casa diversa da quelle comuni, una casa composta da elementi primitivi: il legno e la pietra. Dentro, sembra di essere in un altro mondo. La fuga, potremmo dire, fa vivere un senso di estraneità rispetto al mondo comune, fa visitare regioni più primitive rispetto a quelle della quotidianità comune.
Terzo elemento: dalla folla si viene raggiunti, non c’è scampo. La forza di chi rincorre supera le protezioni allestite da chi è rincorso. Molto significativamente, lo stesso sogno si è ripetuto più volte: ma le versioni precedenti a questa si fermavano allo stadio della fuga, senza esitare nell’inquietudine dell’essere afferrati. Esitavano, invece, in una sorta di strana apatia e di senso di incompiutezza.
Potrebbe trattarsi, certo, della descrizione onirica dell’esperienza di un episodio di panico. Come anche, sempre su di un terreno di lettura individuale del sogno, della possibilità raggiunta in analisi dal sognatore di rappresentare l’angoscia, fino ad allora indicibile dal sogno stesso. Ma, nella prospettiva del nostro discorso, possiamo anche pensare che nel sogno venga tematizzata l’inevitabilità dell’angoscia, nonostante i tentativi di abortirla. Ed inoltre, la possibilità psicologica di tollerare l’angoscia, contro gli orientamenti culturali della coscienza collettiva che vorrebbero depennarla, anche a costo dell’incompiutezza esistenziale.
L’angoscia, sembra in sintesi dire il sogno, è connessa all’esperienza dell’inevitabile sopraffazione di forze anonime e indistinte; la fuga da esse comporta un senso di estraneità dal mondo ma, alla fine, il confronto con queste forze è inevitabile, non lo si può rinviare all’infinito. E il confronto toglie sì la quiete ma non è annichilente, mentre il mancato confronto priva della completezza esistenziale! Questo è il messaggio “culturale” del sogno che, nella pratica analitica, spesso appare molto prima che la coscienza del sognatore possa sentirne la possibile ricaduta nella sua vita pratica.
Il secondo sogno:
Mi trovo in una stanza ricoperta da piastrelle bianche. L’ingresso è costituito da una porta inserita dentro un frigorifero. Da qui premono per entrare: si tratta di ombre nere con gli occhi rossi. Io oppongo resistenza e con le mani premo dall’interno della stanza-frigorifero per non farle entrare. La stanza dove mi trovo ha una finestra che permette la visione all’esterno: si vede bene fuori, ma mi dico che non basta!
Anche in questo sogno, cronologicamente successivo al precedente, viene riproposta con immediatezza e forza espressiva (la forza del linguaggio delle immagini) la fenomenologia del panico: non tanto quella della fase critica, quanto la fenomenologia della conseguente messa in atto di operazioni difensive.
A premere alla porta sono delle ombre dagli occhi rossi. Soprattutto per un analista junghiano l’immagine non può essere più suggestiva e profonda, rimandando al grande tema dell’ “ombra”, cioè del non conosciuto e non avvalorato dalla coscienza, ma pur sempre parte dell’individuo, con cui l’incontro si fa inevitabile e conflittuale in talune epoche della vita. Specie quando, per necessità evolutive, ambientali o esistenziali, gli assetti psicologici precedenti si rivelano insufficienti e componenti sconosciute di sé stessi fanno la loro comparsa. L’esperienza del panico, per lo più, avviene proprio in questi frangenti.
Le ombre del sogno sono plurali, come si addice ad un racconto non concettuale ma drammatico, i cui protagonisti non sono le idee ma le personificazioni. Ma plurali forse anche per ribadire, come nel precedente sogno, l’indistinzione di ciò che preme. Ombre dagli occhi rossi, cariche di energia, di passione emotiva. Il frigorifero è la stanza psichica allestita dal paziente: dimensione della freddezza emotiva, dell’attenuazione del sentire; e dimensione del congelamento del tempo, predisposto per una conservazione che impedisca l’alterazione provocata dal cambiamento e dalla trasformazione. Immagine, quella del frigorifero, che rimanda alla razionalità tecnica, a quell’alternativa alla naturalità dello scorrimento del tempo che la postmodernità, culmine della storia occidentale, ha sancito per non rischiare l’imprevedibilità dell’incontro con l’ignoto che procura angoscia. E infine la visione a distanza (letteralmente: tele-visione), filtrata dalle mura che la proteggono. Lontana da ogni, naturale, immediatezza. Una protettiva tele-visione, che potrebbe anche invitare a non uscire di casa, vanificandone la necessità. E’ sicura e tranquillizzante la tele-visione ma, dice il sogno con un messaggio sempre più culturale, “non basta”. E allora il paziente, come una sorta di rappresentante del proprio tempo, viene invitato dal proprio sogno a riconsiderare la vita e le difese che da essa lo separano. Riaprendo un conflitto, foriero di apertura, tra sicurezza e libertà, tra vita razionale e vita emozionale. Conflitto che solo l’inconscio, che non ha smesso di parlare all’uomo d’oggi anche se questi ha forse smarrito la capacità di ascoltarlo, è in grado di riproporre con forza, affinché l’umanità non seppellisca con esso anche la propria necessaria aspirazione alla completezza.
2. Le trasformazioni sociali: una nuova domanda di paternità
Singolarmente, sembra che in questo periodo storico la figura dei padri e, più in generale, la figura dell’autorità a valenza paterna siano tra i contenuti più rappresentati nei sogni. Certo, tutta la psicoanalisi, che ha più di cent’anni, potrebbe testimoniare il ruolo e la rilevanza del padre nell’inconscio dei pazienti. Ma i sogni sul padre sembrano oggi avere la singolare tendenza a riequilibrarne l’insignificanza storica.
Riferiamo di una breve serie di sogni, tutti di pazienti diversi, che letti in sequenza consentono quasi un vero e proprio percorso di riflessone sul padre.
Il primo sogno è quello di una donna di 45 anni, precocemente uscita dalla stagione della dipendenza infantile sia per l’indisponibilità emotiva dei genitori, sia per le attenzioni sessuali del padre.
Un uomo mi aggredisce arrivando dall’alto. Io mi difendo e reagisco, ma l’uomo è più forte di me. Mio padre assiste alla scena, gli chiedo aiuto. Lui è impassibile e mi dice che ce la devo fare da sola!
Qui la sognatrice rivive il padre che non protegge: un uomo assente come padre e presente come maschio aggressore, che non ha aiutato la figlia nel confronto con il maschile ma, anzi, l’ha trascinata in un conflitto impari che si è tramutato in abuso. Un padre che ha abdicato al suo compito, lasciando la figlia nella posizione della domanda d’aiuto che, non ricevendo risposte, si è protratta nella vita adulta nella forma della domanda rabbiosa. Il sogno rappresenta un padre incapace della giusta vicinanza, quella che si compone dell’autorevolezza, che implica la differenza tra padre e figlio/a, ma che al contempo si compone della confidenza, che implica la corrispondenza fiduciosa tra padre e figlio/a.
Il maschile arriva sì dall’alto, ma minacciosamente e persecutoriamente, non nella configurazione del bene che salva e fa crescere, come il mito cristiano ha chiesto che avvenisse nella storia, anche con la mediazione della comunità familiare. Dall’alto è arrivato invece il male, mentre la domanda di bene, che proviene dal basso, non viene raccolta.
E’ la realtà di tante famiglie in cui si consuma l’abuso della vicinanza traumatica. Se la vittima è fortunata, altri potranno rispondere alla sua domanda di aiuto. A volte, come nel caso della sognatrice, ciò può avvenire ma, egualmente, il puntare “in alto” nella vita può rimanere caratterizzato da un’ansia (apparentemente) immotivata e da una sfiducia in sé stessi, che producono la rinuncia a mete pretenziose (l’alto!). Rinuncia che, spesso, è l’espressione sociale di quella sfiducia in sé stessi e nel futuro che discende dalla crisi del padre e del paterno.
La domanda al padre prosegue nel secondo sogno, quello di un ragazzo che nella vita esprime, nell’implicito dei suoi comportamenti più che nelle parole, il bisogno di una guida maschile.
Arrivo in una vecchia corte con case diroccate e sporche. Ci abitano degli extracomunitari. Uno mi chiede da accendere, ma poi vedo che fuma la sigaretta al contrario. Glielo faccio notare e lui mi risponde minaccioso. Ho paura di possibili reazioni. Guardo verso la città e riesco a vedere un amico vigile che con un cannocchiale mi sta guardando. Mi tranquillizzo e lo faccio presente a chi mi ha minacciato.
Una lettura più superficiale rinvia il senso del sogno al bisogno di sicurezza sociale diffuso nella nostra società. Un bisogno implementato dalla paura dello straniero, che spesso catalizza le proiezioni della gente (la realtà territoriale del sognatore è quella della Brianza lombarda) e provvede a dare una spiegazione certa e semplificata alle insicurezze più profonde.
Un secondo livello, decisamente più profondo e psicoanalitico, riconduce il senso del sogno alla scena analitica, in particolare al transfert positivo nei confronti dell’analista da cui il paziente si attende di essere visto e protetto nel confronto che lo attende, in analisi e nella vita, con la propria zona d’ombra (rappresentata, secondo una logica interpretativa di tipo soggettivo, dagli extracomunitari e dal degrado ambientale). Ma c’è un terzo livello, quello dell’implicazione socio-culturale del sogno che qui vogliamo soprattutto considerare. Il vigile, chiaramente, è un simbolo paterno più evoluto, perché collocato in una sfera relazionale più differenziata rispetto alla famiglia: la sfera delle istituzioni sociali. E’ curioso, e fonte di interesse anche culturale oltre che psicologico, che l’essere guardato dall’autorità non sia espresso da un’istanza di tipo paranoico, che non sia cioè rivissuto in termini di controllo punitivo e di limitazione alla libertà individuale. Che in primo piano, insomma, ci sia una domanda di protezione all’autorità sociale. Una domanda che è, al contempo, speranza in una fiducia possibile.
Anche qui ritorna il significato compensatorio del sogno, che Jung indicava per la psiche individuale e che noi vogliamo estendere alla psiche collettiva. Anche in questa seconda accezione la valenza compensatoria dei contenuti onirici è assolutamente inconscia, tanto che la trama del sogno fa sentire una notevole lontananza dall’epoca in cui la coscienza collettiva sentiva di dover scardinare la fiducia nei padri (eppure il ‘68 non è poi così lontano…), ma anche dall’epoca attuale, in cui la disistima del padre e dell’autorità hanno quasi raggiunto lo statuto dell’ovvio in famiglia, come nella scuola e ancor più nella politica.
Ma che cosa succede, allora, quando scompare il padre? La domanda ci cala sul terreno classico del celebre ed irrinunciabile testo freudiano Totem e tabù, nel pieno cioè del parricidio perpetrato dai figli, dopo il quale il rischio della distruttività dei fratelli rimasti soli è arginabile solo dal senso di colpa per ciò che hanno commesso e dall’interiorizzazione del codice paterno. Quale risposta forniscono i sogni dei pazienti di oggi? Scegliamo il sogno di una donna di cinquant’anni, che nella sua infanzia e giovinezza ha sperimentato il potere severo della madre e la debolezza del padre. Uno scenario lontano dalla classica vicenda edipica descritta da Freud, ma molto vicino alla realtà dei pazienti oggi incontrati nella stanza d’analisi.
Sono in una stanza che dà su di un cortile. Lì c’è un uomo, dev’essere uno dell’esercito. Mi trovo bene, la situazione mi è familiare. Poi mi arriva una voce: “il generale è morto!”. Tutti sono contenti perché, dicono, adesso possono fare quello che vogliono. Io però non sono per nulla contenta, perché mi sembra il caos! Non mi trovo bene con le persone che sono in cortile: sono giovani senza regole. Voglio andarmene.
Certo, anche in questo caso una lettura adeguata soggettiva del sogno dovrebbe far pensare alle difficoltà individuali della sognatrice: difficoltà a fare a meno della propria rigidità e ad accedere ad una maggiore mobilità emotiva, nel timore angosciante che ciò possa comportare la perdita di un centro di gravità psichico (nel sogno, simbolicamente: la morte del generale!).
Forse, anche, ad una difficoltà indotta dall’analisi e dalla relazione analitica, da cui la paziente si sente indotta a superare talune barriere dell’io per accedere ad una vita meno inibita dalle paure.
Ma non è possibile non leggere questo sogno anche come segno dei tempi. La morte arrecata al padre, simbolicamente rappresentato dal generale dell’esercito, sembra rispondere a desideri molto primitivi. Essa ha che fare con il desiderio della libertà mediante l’annullamento delle regole, dei controlli e dell’autorità stessa in quanto guida. Ma il risultato, espresso dalla paziente che nel sogno fa da osservatrice critica, non esita tuttavia nella frenesia tipica dell’esordio di ogni vacanza. Al contrario, si approda subito alla consapevolezza del caos. Come se si ricapitolasse, nella psiche della sognatrice, una storia collettiva già percorsa e rispetto alla quale si è più avanti, tanto da avvertirne subito le conseguenze dello stato di solitudine.
Il sogno sembra rappresentare nitidamente, come in un affresco, l’immagine dell’interiorità psichica odierna: non è più il tempo di abolire un padre ingombrante; è, semmai, il tempo del vuoto del padre. Ma nemmeno, tanto che il sogno si ferma allo stato dell’assenza, oggi è il tempo dell’Avvento, quello che dovrebbe precedere la nascita di un erede del vecchio padre.
Ma quale padre oggi viene invocato? Ci aiuta a comprenderlo il sogno di un insegnante, frustrato nelle sue ambizioni e convinto di non aver mai ricevuto nella vita gli aiuti necessari per sentirsi realizzato.
Sono assieme ad un amico. Stiamo ascoltando dal vivo un discorso di Berlusconi che, evidentemente, straparla con atteggiamento animoso. Mi dico: “che noia!”. Compare mio padre a piedi. Sono contento che si avvicini. Ha l’andatura di un uomo tranquillo e distinto, anche un po’ distaccato. Ci abbracciamo. Mi dice: “non sono nato ricco, ma sono qua!”.
Dell’ex presidente del Consiglio italiano tutti sanno: della sua ossessione per i sondaggi, della sua performance istrionica, del suo considerare la visibilità del successo il vero nutrimento della vita di un politico e di ogni uomo che voglia dirsi compiuto. E’ stato l’emblema, tra i più riusciti nell’epoca della tele-visione, della personalità narcisista che sa essere vincente e sfamare l’impeto alla visibilità. Al contempo, è stato l’emblema delle aspettative della gente, anche di quella scontenta e perdente, che oggi si trova spesso a sperare nella salvezza procurata non da un dio né da un nobile, ma da un uomo vincente che ha gli stessi suoi interessi, fin anche gli stessi suoi vizi.
Un uomo che può appartenere alla politica come al mondo dello spettacolo, capace di far leva non sulle regole ma sul cinismo e sulla furbizia. Con l’orgoglio di chi non è mai toccato dai sensi di colpa ma solo dalla vergogna della sconfitta,
Si direbbe, nel linguaggio che esprime il senso comune, che questi sia una figura di padre ideale per un uomo come il nostro sognatore, frustrato dagli insuccessi professionali e relazionali e convinto che solo con gli appoggi di personalità potenti ci si faccia strada. Invece, il sogno rovescia tutto e il percorso della coscienza non tiene più.
Il padre narcisista (simbolicamente rappresentato nel sogno dal noto personaggio politico, ma più in generale rappresentato dai tanti padri odierni), è dis-sennato e produce noia. Né rabbia né entusiasmo, come invece avverrebbe nella realtà della veglia: noia! Mentre diventa significativo, nella discrezione di una presenza modesta ma sicura, il padre reale che non porge la propria immagine di successo, ma l’abbraccio del prendersi cura.
Il sogno, nell’economia della psiche individuale del paziente, rappresenta senz’altro anche la riscrittura, resa possibile dall’analisi, della fiducia nell’autorità (paterna) nonostante il padre biografico, anche in questo caso una figura debole. Ma è altresì l’affermazione compensatoria della psiche inconscia nei confronti della psiche conscia collettiva: il padre narcisista, che usa il figlio per la propria visibilità anziché esercitare la responsabilità nei confronti della sua crescita, è un padre inutile. I figli non sanno che farsene!
3. Uno scontro di civiltà
Infine un sogno dai contorni mitologici, a rappresentare in sintesi le pretese e i limiti, pur nella sua grandezza, della cultura occidentale, che solo in talune forme di sofferenza psichica individuale trova espressa tutta la sua profonda complessità. Forse, senza i sogni in analisi, anche il collegamento epistemico tra la psicopatologia e lo spirito del tempo non sarebbe così evidente.
Davanti a me un ragno scuro, tipo una tarantola. E’ però solo una metà, manca la testa. Sono terrorizzata! Dopo molta titubanza dovuta alla paura, prendo un grosso vaso di pietra per schiacciarlo. Mentre sollevo il grande vaso per calarlo sul ragno, mi accorgo di avere in realtà tra le mani un reperto archeologico: è un mezzo busto di origine greca, che ricorda la bellezza e l’armonia tipica del mondo greco.
La paziente che sogna soffre di disturbi alimentari, alternando fasi rigidamente anoressiche a fasi di totale lassismo bulimico, in cui diventa preda, oltre che della voracità alimentare, anche di un’impulsività caratteriale e di un ritiro sociale fatto di moltissime ore di sonno notturno e diurno. Il sogno giunge in una di queste seconde fasi.
E spontanea nasce la domanda: ma perché una ragazza bulimica deve fare un sogno così simbolico e così trascendente la scena individuale della sua vita? A nostro parere, perché il sogno nasce dalla psiche, che è dimensione individuale ma naturalmente correlata ad una dimensione collettiva. Non solo nell’accezione dei motivi archetipici primari, ma anche in quella dei motivi storico-culturali che ne caratterizzano il divenire temporale.
La paziente è nativa della Puglia, regione del tarantolismo, fenomeno culturale che fino a pochi decenni fa ancora dava vita a rituali collettivi dal significato terapeutico. Il male da cui i rituali dovevano liberare uomini e donne, secondo la tradizione popolare era causato dal morso della tarantola, che procurava movimenti involontari del corpo (la còrea) ed un generale stato di agitazione psico-motoria con perdita del controllo della coscienza. Una sorta, diremmo oggi in termini medico-clinici, di grande manifestazione isterica simulante le convulsioni epilettiche.
Per questo, il tarantolismo può anche essere descritto come còrea isterica: definizione che apre alla clinica ma che evoca anche il mito. La còrea, dal greco choréia che significa danza, rimanda infatti alla figura di Dioniso, dio del piacere e dell’impulso, della scompostezza e della creatività, della forza e del dolore. Dio o, detto nel linguaggio della psicoanalisi, dimensione psicologica che nella riflessione che fu di Nietzsche è stata collocata agli antipodi della dimensione apollinea, del dio Apollo che invece si gloria della razionalità e della misura, della bellezza e dell’armonia, del diritto e della saggezza. Apollo che, sempre secondo Nietzsche, ha regnato in Occidente anche grazie alla rimozione di Dioniso, garantendo l’ordine della mente a scapito dell’interezza dell’umano.
Dunque, tornando al sogno, una tarantola “senza testa”, “solo corpo”, costituisce la minaccia per la paziente: l’imperio del corpo che, quando penetra violentemente nella sua vita, la terrorizza e le fa perdere la testa, il controllo. Come combattere questa minaccia? La paziente fino ad ora riesce solo, inconsapevolmente, a mettere in campo (se lo trova tra le mani…) il principio opposto: quello della razionalità, rappresentato dalla statua greca dalla chiara allusione apollinea, non tanto chiamata sulla scena per aumentare la comprensione, ma per uccidere la corporeità incontrollata. La composizione degli opposti è ancora lontana: così, ad una fase estrema bulimica, ne succede una altrettanto estrema ma anoressica.
Il sogno dice: manca sempre qualcosa, manca la testa del ragno, manca un pezzo nel busto greco. Manca, soprattutto, una riflessione; c’è solo scarica, impulso cieco, anche quando (paradosso dei paradossi!) si usa la ragione per combattere i morsi del corpo. Al corpo non ci si fa mai incontro: né lo si accoglie, né lo si valorizza. Gli si oppone, senza concordia, una razionalità che lo annulla.
E’ lo scenario individuale della paziente. Ma è, anche, lo scenario culturale occidentale: scienza contro tradizione popolare, ragione contro corpo, cultura contro natura. Una composizione degli opposti non sembra ancora disponibile, tanto meno nell’oggi scientifico e tecnocratico in cui il controllo sul corpo e sulla natura ha raggiunto vertici ineguagliabili. Ma in cui, lontani dalla composizione, il corpo psicopatologico si ribella, attanagliando la mente con il “morso” dei suoi ritmi autonomi.
La Tecnica ci ha allontanato dai riti e dai miti, che al “morso” facevano seguire il “rimorso” della coscienza, trovando nell’esperienza della colpa la possibile terapia della pericolosa autonomia del corpo. Oggi, senza più disporre della cultura della colpa, la nuova possibilità sarebbe quella di una più evoluta presa di coscienza, che accetti il corpo e il male con il senso del limite che essi propongono. Ma ciò non avviene e, in assenza di questa presa di coscienza, nasce un problema che è sì psicologico individuale ma anche culturale collettivo: se il limite non viene accettato e integrato nella vita, rimane solo la forza (cieca) della ragione. E la ragione, quando non è libera ma costretta dalla paura della corporeità, agisce solo difensivamente, facendosi strumento non al servizio dell’unità degli opposti, bensì dell’evitamento dei conflitti e del tormento che essi comportano. Obbligando, sempre, alla ricomparsa ancor più scomposta di ciò che vorrebbe eludere.
I sogni, implacabilmente, ce lo ricordano!
Note
- 1. Jung C.G., “Psicologia dell’inconscio” (1943), in Opere, vol VII, Boringhieri, Torino, 1983, p.20.
- 2. Vedi il contributo di Verticchio, Busato Barbaglio e Palmieri in: Bolognini S., Il sogno cento anni dopo, Bollati Boringhieri, Torino, 2000, p. 244.
- 3. Jung C.G., “L’essenza dei sogni”, in Opere, vol VIII, Bollati Boringhieri, Torino, 1976, p. 309.
- 4. Jung C.G., “Considerazioni generali sulla psicologia del sogno”, in Opere, vol VIII, Bollati Boringhieri, Torino, 1976, p. 275.
- 5. Fossaghe J.L., “The psychological function of dream. A revised psychoanalitic perspective”, in Contemp. Thought, vol VI, 1983, pp. 641-669.
- 6. Jung C.G., Analisi dei sogni, Bollati Boringhieri, Torino, 2003, p. 69.
Bibliografia
- Bolognini S. (2000), Il sogno cento anni dopo, Bollati Boringhieri, Torino.
- Jung C.G. (1943), “Psicologia dell’inconscio”, in Opere, vol VII, Boringhieri, Torino.
- Jung C.G. (1945), “L’essenza dei sogni”, in Opere, vol VIII, Bollati Boringhieri, Torino.
- Jung C.G. (1934), “Considerazioni generali sulla psicologia del sogno”, in Opere, vol VIII, Bollati Boringhieri, Torino.
- Jung C.G. (1928-30), Analisi dei sogni, Bollati Boringhieri, Torino, 2006.