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Jung, Jaspers: dal confronto mancato all’offerta di nuove prospettive sulla soggettività e l’oggettività della psiche

Rivista annuale a cura del Centro Italiano di Psicologia Analitica Istituto di Roma e dell’Italia centrale

QCJ 2014

2014 Numero 3

Jung, Jaspers: dal confronto mancato all’offerta di nuove prospettive sulla soggettività e l’oggettività della psiche

Perché mai volersi impegnare, oggi, tempo della messa in crisi dei pensieri forti, in una riflessione su ciò che unisce e su ciò che divide la psicologia analitica e la fenomenologia? La risposta è offerta, con lucida aderenza alle esigenze del conoscere psicologico, da Maria Ilena Marozza nel suo Jung dopo Jung, all’interno del capitolo dedicato a un ripensamento possibile della metapsicologia, intrapreso proprio a partire dalle convergenze e dalle ambiguità del rapporto (per molti versi inconsapevole) tra Jaspers e Jung:

Dando per scontato che dopo questo ripensamento nessuno può più parlare di un’unica verità oggettiva … diviene evidente la necessità di ripensare quei fondamenti metapsicologici, tramite cui la psicoanalisi ha conferito oggettività alle proprie interpretazioni, in termini non più esteriori, ma decisamente interni alla stessa esperienza psicologica. Credo che da questo punto di vista si apra di nuovo il confronto tra fenomenologia e psicoanalisi, ripartendo dall’analisi di quell’originarietà dell’esperienza psichica antecedente anche alla distinzione metodologica tra ricerca delle essenze e interpretazione analitica. Per dirla con le parole di Blankenburg, si tratterebbe di tornare verso l’evidenza naturale. (Marozza M.I., 2012, p. 136)

L’esigenza di cogliere il senso del conoscere dall’interno del vivere esperienzale è quella che motiva anche la presente riflessione, accompagnata dal tentativo di riconciliare in psicologia e in psichiatria teoria e prassi, senza che la seconda debba a posteriori discendere dalla prima, artificiosamente collocata nel regno delle presunte verità oggettive. In gioco, pur se non ancora sufficientemente chiarito all’interno dei discorsi sulla psiche, è il nodo cruciale della husserliana crisi delle scienze europee e della loro assolutezza oggettiva, sorretta dalla cartesiana disarticolazione di verità ed esperienza.

Il conoscere psicologico

Il tema del conoscere in psicologia (o in psichiatria) ha una stretta connessione con il tema dell’esperienza. Non esiste un conoscere psicologico che sia prodotto di una mente concepibile al di fuori della sfera dell’azione. Il riflettere dell’umano sull’umano è tutt’uno con la sua apertura al mondo, con il suo esservi situato, con il suo ricercare e, al contempo, sentirsi costretto dentro a relazioni e a contatti con cui non può non cimentarsi: in prima persona, ma tra gli inevitabili scogli di un mondo che è dato. Un mondo costellato dalla rete dei significati fruibili, dall’intenzionalità dell’altro, dalle iniziative del corpo proprio, dalle emozioni avvertite senza mediazione della volontà, dai corpi incontrati nel movimento, dall’inerzia delle cose. Per dirla in altro modo: conoscere è un’esperienza, dove si embricano il carattere soggettivo ed il carattere oggettivo della vita umana. Circolarmente, entrano quindi nella scena dell’esperienza tanto l’atto del conoscere, quanto i suoi limiti; tanto l’attore della conoscenza, quanto il suo recettore.

Questo intreccio di conoscenza ed esperienza umana, nel loro darsi immediato, è ciò che chiamiamo psiche. Jung, al proposito, ha espressioni molto significative. La prima:

La realtà psichica è in definitiva qualcosa di inafferrabile […] Tutto ciò che sperimento è psichico. Anche il dolore fisico è un dato psichico. E tutti i dati sensoriali […] sono pur essi immagini psichiche costituenti la mia unica esperienza immediata: poiché la mia coscienza ha esse sole per oggetto immediato. (Jung C.G, 1931, pp. 378 – 379, corsivo mio)

E la seconda:

Dalla psiche procede assolutamente ogni esperienza umana, e a lei ritornano infine tutte le conoscenze acquisite. La psiche è inizio e fine di ogni conoscenza. Anzi, essa non è soltanto l’oggetto della sua scienza, ma ne è anche il soggetto. (Jung C.G., 1937, p. 143, corsivo mio)

Proprio qui sembra potersi incontrare il crocevia cui giungono la fenomenologia di Jaspers, che fa della soggettività il vertice supremo della conoscenza psicologica, e la psicologia analitica di Jung che, celebrata la soggettività della psiche, non può non ammetterne anche l’oggettività, fino ad indurre uno stuolo di seguaci a parlare di psiche oggettiva.

L’ambiguità di Jung

L’ambiguità è d’obbligo là dove regna la complessità, che trascina con sé una molteplicità di significati e di interpretazioni. Da Jung, dalla sua fondamentale e irrinunciabile intuizione della complessità della psiche, che si colloca al di là della coerenza necessaria alla logica che separa e trascura, non ci si potrebbe aspettare altro. Almeno, quando si tratti di psiche e della sua natura gnoseologica ed esperienziale, dove la prima è tutt’uno con la seconda.

Così a Jung, epocalmente e biograficamente invaso dall’atmosfera del dubbio sui saperi certi, non può sfuggire l’insostenibilità dell’oggettività della scienza psicologica, sia sul fronte del metodo sia sul fronte del risultato. Perché la conoscenza dell’altro che sta di fronte (ob-iectum), come la dia-gnosi del disagio di chi soffre o il suo prendersene cura, non possono mai prescindere dalla soggettività di chi conosce, indaga, cura.

Su questo piano l’interprete più rigoroso dell’istanza junghiana, aperto altresì ad uno sviluppo ulteriore delle sue risorse implicite, è stato Mario Trevi:

In tutto Jung è vivo – e ne costituisce l’elemento differenziale rispetto agli altri grandi psicologi del nostro secolo – il problema della presenza ineliminabile del soggetto ricercante nell’oggetto della ricerca psicologica […] Questa posizione di Jung, questa vis problematizzatrice che percorre tutta la sua opera, è di stretta natura ermeneutica se, appunto, per ermeneutica intendiamo quell’atteggiamento di pensiero che, ponendo il problema dell’interpretazione, deve considerare altresì il vivo e ineliminabile problema dell’interprete nei confronti del testo da interpretare e riconosce che non c’è testo «oggettivo», staccato e indifferente dall’interprete… (Trevi M, 1987, pp. 9-10, corsivo mio)

La sottolineatura della soggettività del conoscere psicologico, e dell’implicito suo carattere di relatività, è tale in Jung da fargli compiere il famoso “delitto di lesa maestà” (Jung C.G., 1957, p. 107), quello di trascurare la scientificità positivisticamente intesa, per favorire la “comprensione dell’individuo” (ibid.). E qui diremmo, andando oltre le esplicitazioni junghiane: una com-prensione fenomenologicamente intesa.

Queste le parole, inequivocabili, di Jung nel suo scritto tra i più pretenziosi sotto il profilo teorico (Riflessioni sull’essenza della psiche):

La psicologia si trova in una situazione critica, perché le manca una base posta al di fuori del suo oggetto. Non può tradursi o raffigurarsi che in sé stessa […] E quando la complessità raggiunge la complessità stessa dell’uomo empirico, la sua psicologia sfocia inevitabilmente nello stesso processo psichico. Non è più in grado di distinguersi da esso, ma diventa il processo medesimo … La psicologia è il farsi coscienza del processo psichico, ma in senso più profondo non è una spiegazione di tale processo […] La psicologia deve abolirsi come scienza, e proprio abolendosi raggiunge il suo scopo scientifico. Ogni altra scienza ha un “al di fuori” di sé stessa; ma non la psicologia, il cui oggetto è il soggetto di ogni scienza in generale. (Jung C.G., 1947/1954, p. 240)

In questo passaggio di Jung si ha la saldatura più piena tra soggettività del conoscere psicologico, sua coincidenza con l’esperienza del processo psichico, comunanza tra soggetto conoscente e oggetto (soggetto) conosciuto. La conseguenza epistemica è l’impossibilità di annoverare la psicologia tra le scienze della natura, dove la pretesa obiettivante è metodo e criterio di affidabilità. L’esattezza e l’universalità del risultato non sono di casa dove ad essere conosciuta è la complessità dell’umano; e, inoltre, dove a compiere l’atto conoscitivo non sono le procedure fissate da una teoria, ma il soggetto con la sua equazione personale.

Le ricadute sulla terapia sono nette:

Ogni psicoterapeuta non ha soltanto il suo metodo: “è egli stesso quel metodo”. “Ars totum requirit hominem”, dice un antico maestro. In psicoterapia, il grande fattore di guarigione è la personalità del terapeuta […] Le teorie sono inevitabili, ma come meri sussidi. (Jung C.G., 1945, p. 98)

Ma il discorso di Jung non si ferma qui, e cercheremo più avanti di dirne anche il perché. Accanto alla sottolineatura della soggettività del conoscere psicologico, la sua preoccupazione, altrettanto forte, è di consegnarci i limiti di tale soggettività e la necessità di trascenderla. Qui si coglie la  sua feconda ambiguità di pensiero.

Sono due le direttrici del discorso: la prima è uno sviluppo dell’opzione ermeneutica, già sottolineata da Mario Trevi, che rimane nel recinto della relatività del conoscere; la seconda varca più decisamente i limiti della relatività e cerca di arginare le paure dell’incertezza che ne deriva,  con l’ancoraggio ad una possibile solidità (oggettiva) comune.

L’approccio ermeneutico non si ferma alla soggettività individuale, ma esige di considerare la stretta correlazione esistente tra psiche e storia: ogni conoscenza dell’umano è un’interpretazione che, nel linguaggio e negli orizzonti del suo dispiegarsi, si collega e appartiene a una storia e a una cultura, che non discendono dall’eterno ma, neppure, sono relegabili dentro l’esclusiva soggettività individuale. Il testo junghiano che chiarisce è nella Introduzione alla Psicologia della traslazione:

La loro veste temporale [quella delle verità, ndr] deve pur pagare il suo tributo alla caducità: essa dovrebbe adeguarsi al mutamento psichico. La verità eterna deve adottare un linguaggio umano che varii con lo spirito del tempo. Le immagini primordiali sono suscettibili di metamorfosi infinite eppure restano sempre le stesse, ma possono essere nuovamente intese. Esse esigono d’essere costantemente reinterpretate. (Jung C.G., 1946, p. 206)

Il discorso della psiche e il discorso sulla psiche (secondo la nota distinzione di Mario Trevi), non possono non esprimere lo spirito del tempo. “Le immagini primordiali restano sempre le stesse”, eppure, dice Jung, “possono essere nuovamente intese”: qui sta il cuore dell’ambiguità junghiana, necessaria per non escludere a priori né il polo della soggettività né il polo dell’oggettività, ma per contenere ciò che l’evidenza esperienziale (il nostro punto di partenza) rivela e al cui cospetto la logica non regge.

C’è dunque una oggettività che limita la sfera della soggettività e, al contempo, indica l’approdo ad un originario costante e immutabile, elargitore di comunanza universale. E’ il discorso degli archetipi, eliminando il quale Jung non sarebbe considerato per intero.

Ma qui il pensiero di Jung (siamo nella seconda delle due direttrici), disseminato con curvature differenti nelle pieghe della sua opera, non è più solamente ambiguo ma diventa ambivalente, con direzioni di significato troppo antitetiche per poter coesistere.

In un testo del ’38 la definizione, che a noi sembra la più precisa e la più pertinente, sembra offrire un’immagine di oggettività della psiche che ben si correla, sia pur antinomicamente, con la sua soggettività. In questo testo gli archetipi sono forme, non qualificate dal rivestimento del contenuto che, quindi, rimane storico e soggettivo. Le forme, invece, sono date al soggetto, come gli è dato il mondo in cui è situato prima ancora di volerlo e che egli conosce per esperienza.

In ogni psiche sono presenti … forme, disposizioni, idee in senso platonico, le quali istintivamente preformano e influenzano i nostri pensieri, sentimenti, azioni […] Non sono determinati dal punto di vista del contenuto, bensì soltanto in ciò che concerne la forma […] L’archetipo è in sé un elemento vuoto, formale, nient’altro che una “facultas praeformandi”, una possibilità data a priori della forma di rappresentazione. (Jung C.G., 1938/1954, p. 81, corsivo mio)

Ma la preoccupazione di nominare i contenuti, di rivestire le forme nude con immagini chiare e rappresentative, per Jung diventa quasi un’ossessione: baluardo all’unilateralità della coscienza, che solo la presenza di contenuti forti e perenni dell’inconscio sembra poter ridimensionare, e risposta allo smarrimento provocato dalla morte di dio. Così, più o meno negli stessi anni, Jung scrive:

I contenuti dell’inconscio collettivo sono i cosiddetti “archetipi” […] Per quanto riguarda i contenuti dell’inconscio collettivo, ci troviamo davanti a tipi arcaici o meglio ancora primigeni, cioè immagini universali presenti fin dai tempi remoti […] La vita dell’inconscio collettivo sbocca quasi interamente nelle rappresentazioni archetipiche del dogma […] Da quando le stelle sono cadute dal cielo e i nostri simboli più alti sono impalliditi, domina nell’inconscio una vita segreta. Perciò oggi abbiamo una psicologia. (Jung C.G., 1934/1954, pp. 4, 11, 22, corsivo mio)

Qui non c’è più solo il reticolo di significati che in-formano pensieri e comportamenti, l’oggettività come materia base su cui la soggettività si libera e crea. Ma, al contrario, un’oggettività che si impone da sé chiedendo obbedienza al soggetto.

Il conoscere soggettivo di Jaspers e la confutazione di Jung

Sembra incredibile, ma Jung non ha mai fatto riferimento a Jaspers nei suoi scritti. Jaspers pubblica ad Heidelberg la sua Psicopatologia generale nell’aprile del 1913. Ha appena compiuto 30 anni e il suo libro diventerà la pietra miliare di una psicologia che voglia rivendicare uno statuto epistemico specifico, non asservito alle scienze della natura. Quattro mesi dopo, a Monaco, si palesa in modo irreversibile il conflitto tra Freud e Jung. Al centro, tra le altre cose, la distanza di Jung da un riduzionismo che chiuda ogni interpretazione dentro a leggi già definite, impedendo un autentico conoscere psicologico.

Eppure, Jung non cita mai Jaspers. Nonostante Jaspers citi Jung, proprio nella Psicopatologia: in chiave critica, largamente ingenerosa, piuttosto prematura se pensiamo che è il 1913 (Jung ha 38 anni, ma è all’inizio…), decisamente incompleta se pensiamo che il tutto rimane invariato nella settima edizione del 1959. In buona sostanza, un confronto mancato, un reciproco peccato di omissione motivato forse da chiusure personali, forse da chiusure dei contesti culturali di appartenenza. A riprova, sta il fatto che anche nei confronti dell’altro grande esponente della fenomenologia, Ludwig Binswanger, l’ignoranza junghiana persevera; mentre, anche in questo caso, è il fenomenologo a prestare allo psicologo analista un minimo di attenzione (siamo nel 1952 e il testo è la famosa descrizione del caso di Suzanne Urban): nuovamente critica, in un sommario apparentamento Bleuler-Jung, con argomentazioni non lontane da quelle di Jaspers.

Eppure, c’è un implicito inconsapevole che, a posteriori, non può non incoraggiare una messa in relazione dei due autori.

Ma andiamo con ordine. Perché, con Jaspers, il conoscere psicologico assume una sua rigorosa e irrinunciabile configurazione? Perché, seguendo le anticipazioni filosofiche di Dilthey di trent’anni prima, l’ordine dell’umano (e della sua storia) è assunto come radicalmente diverso dall’ordine delle cose. Se nel secondo regna il criterio gnoseologico della causalità, nel primo il dominio spetta ai vissuti soggettivi. Netta e radicale la ricaduta in campo clinico psicopatologico: conoscere il paziente non significa spiegarne i comportamenti, rintracciarvi le cause; conoscere il paziente significa presentificarne gli stati psichici così come “provati”. È la soggettività psicologica del paziente a contare nella diagnosi e nella terapia psicologica e psichiatrica; ed è la soggettività del terapeuta, non le leggi di una teoria già data, a consentire il processo conoscitivo e curativo.

Nelle scienze naturali noi cerchiamo di afferrare soltanto un tipo di relazioni: le relazioni di causalità […] cerchiamo di trovare le regole dell’evento. Ad un livello più alto troviamo delle leggi e in molti campi della fisica e della chimica riusciamo ad esprimere matematicamente queste leggi e queste equazioni causali. In psicopatologia […] solo raramente troviamo delle leggi, e mai possiamo stabilire equazioni di causalità come in fisica e in chimica. Questo presupporrebbe una completa quantificazione dei processi indagati, cosa che nello psichico, che per sua natura precipua rimane sempre qualitativo, per principio non è mai possibile, senza che vada perduto il vero oggetto di indagine, cioè lo psichico […] “Lo psichico” sorge dallo psichico, in un modo per noi comprensibile. (Jaspers K. 1913, pp. 327 – 328)

Ne consegue che è ascrivibile allo psichico ciò che è “comprensibile” (verstehen), cioè presentificabile nella coscienza di chi indaga; mentre è ascrivibile al non psichico (all’ordine naturale delle cose) ciò che non è comprensibile ma solo spiegabile (erklären). Ma ne consegue anche che lo psicologo o lo psichiatra, se vogliono afferrare l’oggetto dello psichico cui si rivolgono, devono mettere in campo il valore conoscitivo dell’affettività.

Quando alla nostra comprensione i contenuti dei pensieri appaiono derivare con evidenza gli uni dagli altri, secondo le regole della logica, allora comprendiamo queste relazioni razionalmente; quando invece comprendiamo i contenuti delle idee come scaturiti da stati d’animo, desideri e timori di chi pensa, allora comprendiamo veramente in modo psicologico o partecipando affettivamente […] Mentre la comprensione razionale è solo un ausilio della psicologia, la comprensione affettiva ci introduce nella psicologia stessa (ibidem, p. 330)

Il discorso della Psicopatologia generale è rivoluzionario, perché cambia l’orizzonte dell’indagine e della cura, ma anche quello della formazione degli psicologi e degli psichiatri. Anche se trascura, ma il discorso esula dai confini del presente lavoro, la conoscenza e la cura delle esperienze psicotiche, relegate da Jaspers nel regno dell’in-comprensibile, dunque del somatologico da spiegare.

Ma che cosa, il discorso sulla comprensibilità psichica di Jaspers, porta a non poter condividere di Jung, mettendo completamente tra parentesi inequivocabili elementi comuni, come il discorso sulla soggettività già considerato, quello intorno alla causa («La mera conoscenza delle cause serve ben poco…», Jung C.G., 1930, p. 37) o, ancora, il discorso relativo all’affettività («Il fondamento essenziale della nostra personalità è l’affettività…», Jung C.G.,1907, p. 46)? In realtà è il tema del simbolo junghiano a dividere: un simbolo reo, secondo Jaspers, di dittatura psicologica soffocante la parola della soggettività.

È un po’ strano per chi abbia confidenza con il mondo junghiano sentire una tal critica proprio sull’aspetto, quello del simbolo in Jung, più foriero di grande apertura e di ulteriorità di senso, demolitore di ogni castello di certezze conoscitive. In realtà Jaspers (siamo nel 1913, lo ripetiamo, ma la Psicopatologia ha visto diverse edizioni in seguito) non coglie l’intero della riflessione junghiana sul simbolo; la sua critica sembra attestarsi sullo Jung dei Simboli della trasformazione del 1912 (citato da Jaspers in nota, a pag. 361 dell’edizione italiana), dove il simbolo ha una stretta connessione con i temi dell’inconscio collettivo. Nella disamina di Jaspers non compare tutta la complessità della successiva riflessione junghiana sul simbolo, ad esempio relativamente al simbolo vivo e al simbolo morto, oppure alla dipendenza del simbolo dall’atteggiamento della coscienza. Tutti elementi che, in realtà, allontanano da una concezione di assolutezza oggettiva del simbolo.

Ma, dicevamo, l’attenzione di Jaspers va al simbolismo inconscio, che accomunerebbe vita onirica e testi mitologici e rappresenterebbe il contenuto dell’inconscio collettivo. Un contenuto che, presentandosi con il volto della certezza già fissata, cozza irrimediabilmente con l’appello alla creazione soggettiva. In buona sostanza, la critica di Jaspers a Jung verte sul tema degli archetipi dell’inconscio collettivo.

E molto discutibile, secondo Jaspers, supporre l’esistenza di fondamenti universali inconsci la cui portata per l’individuo assuma quasi una valenza numinosa:

 La costruzione di Jung dell’inconscio collettivo ha l’ambiguità di essere da un lato un sapere oggettivo, fondato sull’indagine della preistoria e delle attitudini nascoste dell’uomo e, nello stesso tempo, di significare d’altra parte l’esortazione a partecipare a questa sostanza della verità per la propria salvezza. (ibidem, p. 367)

 Jaspers sembra mettere in guardia Jung dal pericolo di introdurre una trascendenza obiettivata, in questo mettendo il dito sulla piaga dell’ angoscia junghiana che accompagna la morte di dio. A tale trascendenza, Jaspers contrappone una trascendenza senza immagini, dove è la soggettività individuale a creare la propria esistenza, senza dipendere da assolutezze pre-fissate :

 Di fronte all’intero mondo dei simboli c’è in noi un principio originario per il quale esso viene relativizzato. L’autoriflessione ci libera dalla dipendenza dai simboli, ostacola la superstizione che rappresenta una costante minaccia e facilita, attraverso tutti i simboli, il nuovo più profondo legame dell’esistenza con la trascendenza senza immagini, che parla attraverso l’incondizionatezza dell’azione etica, attraverso il miracolo di donarsi nell’esistenza libera. Questa appare nella certezza non fissata, che trova la via nell’agire interiore ed esteriore, quando nella apertura della ragione si trova la decisione e la risoluzione dell’esistenza. (ibidem. p. 368)

L’ambiguità di Jaspers

Ma l’ambiguità non può non essere di casa anche in Jaspers. Parliamo di quell’ambiguità richiesta dalla necessaria molteplicità di significati, che caratterizza ogni interpretazione e ogni atto conoscitivo. Di quell’ambiguità da Jaspers stesso annunciata in quell’altra sua opera fondamentale per comprendere i discorsi che qui stiamo facendo: la Psicologia delle visioni del mondo, del 1919.

Il fatto che la vita consista nella sintesi di antitesi ha per conseguenza che ogni rappresentazione del vivente si muove involontariamente in una ambiguità dialettica […] Ciò vale per l’uomo singolo e per la cultura in generale. La vita culturale è sempre più viva là dove le antitesi permangono e non sono eliminate in favore di una forma e non vanno perdute. (Jaspers K., 1919, p. 399, corsivo mio)

Che cosa vogliamo dire? Che i limiti della comprensibilità psicologica soggettiva, là dove si tratti di conoscenza sul registro dell’umano, sono ben presenti anche in Jaspers. Certo il linguaggio fenomenologico con cui egli ne rappresenta l’approdo, l’inderivabilità del fenomeno per la coscienza, è radicalmente differente da quello psicologico analitico, che intende invece ritrovare nell’inconscio elementi fondamentali metapsicologici. Ma qui ci interessa sottolineare come, anche in Jaspers, si abbia un contributo decisivo nel considerare l’esperienza del conoscere psicologico come indissociabilmente composta di soggettività e di oggettività.

Il primo vero scoglio alla conoscenza come comprensione soggettiva, Jaspers lo riscontra proprio all’interno dell’esperienza psichiatrica, che gli ha suscitato gli interrogativi fondamentali che lo hanno poi portato alla filosofia. Ebbene, di fronte alla condizione psicotica, la presentificazione coscienziale dello psichico del paziente non è possibile: la soggettività entra in scacco e il verstehen abdica all’erklären. Nonostante la posizione di Jaspers abbia avuto all’interno della fenomenologia stessa, degli scritti di Binswanger in particolare, critiche e sviluppi ulteriori, resi anche possibili dai contributi dell’antropologia heideggeriana e della fenomenologia trascendentale di Husserl, essa rimane tuttavia espressione rigorosa del concetto di comprensibilità soggettiva. Queste le sue parole, contenute sempre nella Psicopatologia generale:

Questa comprensione si arresta in primo luogo dinanzi alla realtà del carattere empirico congenito […] La comprensione si arresta, in secondo luogo, dinanzi alla realtà delle malattie organiche e delle psicosi e dinanzi a ciò che di elementare c’è in esse. (Jaspers K., 1913, p. 392)

Qui la soglia di sbarramento è costituita dal bios, sia nella sua versione congenita, sia nella versione di quel mondo elementare, non arricchito della creazione psicologica soggettiva, proprio delle psicosi (che non significa che i pazienti psicotici siano privi di soggettività, ma che l’ “esserci” della condizione psicotica non è rivivibile nella coscienza del terapeuta).

Accanto alla soglia del bios e, per certi versi, analogamente, la comprensibilità soggettiva si arresta anche di fronte ai fondamenti dell’esistenza nel loro essere inderivabili. Un esempio possono essere il tempo e lo spazio, oppure il maschile e il femminile, tutti elementi inderivabili e originari, sempre presenti nella vita psichica dell’uomo. Su questo versante, dichiaratamente, avviene la scissura con il conoscere psicoanalitico che, secondo Jaspers, non sa invece porre limiti alla comprensione e necessita, metodologicamente, di un inconscio che renda derivabile l’inderivabile.

La comprensione si arresta, in terzo luogo, dinanzi alla realtà dell’esistenza assoluta, di ciò che l’uomo è veramente come sé stesso […] Anche se l’esistenza per la conoscenza psicologica non esiste, essa si rende sensibile alla comprensione psicologica come limite, nel quale c’è qualche cosa, che nel comprensibile appare solo come la sua completabilità. La psicoanalisi è restata cieca dinanzi a tutti questi limiti. Essa voleva comprendere tutto. (ibidem)

Jaspers, dunque, ammette la necessità di trascendere la soggettività: ma ciò conduce al limite dell’inderivabile che (l’intuizione è notevole!) dona al comprendere soggettivo il suo completamento. Ciò che rifiuta è il ritrovamento dell’oggettività nell’inconscio, perché se è vero che lì si arresta la soggettività cosciente, è altrettanto vero che viene introdotta un’oggettività psichica non consistente più nel limite della conoscenza, bensì in una nuova dimensione della psiche che pretende di spiegare l’inderivabile agli occhi della coscienza.

Su questo punto, come dicevamo, si assiste alla divergenza più radicale non solo (e non tanto) tra Jaspers e Jung, ma tra il conoscere fenomenologico e il conoscere analitico; ma, altrettanto (potere dell’ambiguità), su questo punto è forse possibile ritrovare un orizzonte di convergenza, se non tra fenomenologia e psicoanalisi, certamente tra fenomenologia e psicologia analitica. Il nodo è l’oggettività come limite della soggettività o, detto altrimenti, del non più rinviabile, che per la fenomenologia si sottrae tanto al movimento del comprendere quanto a quello dello spiegare (nel senso dell’essere causato o del causare) per appartenere al solo dominio dell’esperire, mentre per la psicoanalisi apre le porte a quella regione che ella non ha saputo se non chiamare “inconscio”. Ma che cosa intendiamo per “inconscio”? Torneremo su questa prospettiva alla fine del presente lavoro chiedendoci a che cosa, di Jaspers, potrebbe utilmente attingere la psicologia junghiana.

Sulla dialettica tra soggettività e suo limite, la Psicologia delle visioni del mondo sviluppa ulteriormente il discorso in una chiave più chiaramente filosofica. Innanzitutto, l’uomo non è concepibile solo come individuo: la sua vocazione è quella di essere parte di un tutto, collegamento con un universale:

La situazione fondamentale dell’uomo è che egli esiste come un essere particolare finito, ma è al tempo stesso consapevole di un universale, di una totalità […] sente l’esigenza di essere più che un mero particolare, e di ubbidire a un universale e di essere parte di un tutto (Jaspers K., 1919, pp. 440 – 441)

In questo inevitabile conflitto tra le due polarità, la soggettività dell’uomo è ciò che tuttavia anima la sua vita, oscillando inquieta tra l’illusione di raggiungere la totalità e il limite della concreta esistenza:

Fra queste antitesi si muove la vita, inquieta e mai totalmente compiuta […] L’uomo, in quanto esiste, è necessariamente sempre un frammento […] Tuttavia egli non è definitivamente questo determinato frammento […] L’uomo è in un processo, in una inquietudine, come se il tutto e l’universale fossero realmente raggiunti da lui […] Ma questa rimane pura considerazione, nella quale egli dimentica la sua concreta esistenza, la sua condizionatezza spazio-temporale, storica, corrispondente a un destino. (ibidem. p. 441)

La sintesi tra possibilità e necessità, altro modo di esprimere la dialettica soggettività- oggettività, è infine la formulazione forse più piena con cui Jaspers, che in questo riconosce il proprio debito nei confronti di Kierkegaar, descrive l’uomo e le sue modalità di conoscenza:

L’antitesi della necessità è la possibilità […] Il vivente, il paradossale, è ora l’unità di possibilità e necessità: Colui che vive nella possibilità e al tempo stesso limitato dalla necessità è l’uomo reale […] Sia possibilità che necessità sono universali (ibidem., p. 457)

Sorgente unica, percorsi differenti

Non c’è alcun dubbio che l’opera di Jaspers e l’opera di Jung siano attraversate da preoccupazioni e da linee di pensiero differenti. Ma, altrettanto, che all’origine del movimento della loro esperienza (perché il pensare è un’esperienza…), ci siano lungimiranze analoghe.

Il problema centrale in Jaspers, per lo meno nello Jaspers psichiatra, è la conoscenza dello psichico nel suo radicale discostarsi dalla conoscenza delle cose. È il sovvertimento gnoseologico, nel campo della psiche, del modello cartesiano. La soggettività dei vissuti dell’altro e la soggettività dell’atto conoscitivo nel presentificarli alla propria coscienza sono i mattoni fondamentali del conoscere psicologico, la cui natura è la com-prensione. A caratterizzarla non sono né leggi né teorie, ma il compartecipare soggettivo alla vita interiore dell’altro.

Per questo la fenomenologia, in Jaspers, è metodo e non teoria. Per questo, è ridimensionato il valore delle cause: non abolito, ma dichiarato irrilevante per la comprensione soggettiva. Non vuol dire che le cause non siano pensabili; vuol dire che metterle in campo nel processo conoscitivo dell’uomo trascura lo psichico, allestendo un “al di qua” del soggetto che, per presupposto teorico, lo riduce allo status di effetto causato. Così facendo, non possono più esserne colte le manifestazioni nella loro immediatezza, ma queste vengono reificate nel processo della consequenzialità meccanica. Vorrebbe dire trattare l’oggetto-uomo come l’oggetto-cosa: entrambi, invece, stanno sì “di fronte” al soggetto, ma nel primo si può penetrare con la com-prensione, nel secondo ci si deve arrestare nella spiegazione.

La marcatura della soggettività in Jaspers diventa dunque una grande apertura all’unicità dell’individuo, al suo carattere di libertà non riconducibile a cause che ne contengano il destino, al suo appello a un’etica della responsabilità. A Jaspers non sfugge certo il limite della soggettività e della conoscenza com-prensiva: ma anche l’esperienza del limite, che porta con sé un’irrinunciabile valenza oggettiva, è sempre tale perché in rapporto con il soggetto.

Anche Jung, l’abbiamo visto, sottolinea l’imprescindibilità del soggetto nella clinica e, più in generale, in ogni esperienza relazionale. Ma in lui è centrale un’altra preoccupazione di fondo, che riguarda l’individuo e al contempo la collettività: salvaguardare e, in un certo senso, accogliere senza negarla la complessità della psiche, nelle sue componenti consce e inconsce, singolari ed universali. È l’unilateralità della coscienza, l’hybris che vorrebbe negare il mistero e non considerare ciò che non è racchiudibile nella sfera dell’Io, a preoccupare Jung. Sia sul versante della salute psichica del singolo individuo, sia su quello della convivenza possibile tra le nazioni. L’in-conscio negato o rimosso, mette in guardia Jung, non sparisce là dove non sia guardato, ma cade nell’ombra per poi comparire, inatteso, soverchiando la coscienza. Da qui l’attenzione ai limiti della soggettività e la necessità di ascoltare, guardarne le direzioni e dare un nome a quella che non può non risultare, per il soggetto cosciente, una imprescindibile oggettività della psiche.

E in questo voler dare un nome, si aprono declinazioni junghiane differenti, compatibilità o incompatibilità con la fenomenologia.

Di certo, tanto in Jung quanto in Jaspers, l’attenzione a salvaguardare il carattere ambiguo del sapere e, prima ancora, dell’esperienza di vita, è costantemente presente, in una costante dialettica tra soggettività e suo limite che chiamiamo oggettività. Una dialettica che riflette anche l’acuta consapevolezza di un’epoca in cui, ambiguamente, alla celebrazione della libertà individuale si accompagna lo sguardo triste sui destini tragici dell’uomo occidentale.

A monte della vita e della riflessione di entrambi, forse una sorgente comune, sta dunque la crisi culturale dell’occidente che, a cavallo tra il XIX e il XX secolo, ha avuto il suo cantore più geniale in Friedrich Nietzsche. Ipotizziamo che sia proprio la morte di dio lo scenario motivazionale tanto di Jung quanto di Jaspers: assieme a dio, all’esordio del XX secolo, hanno lasciato il mondo anche «il concetto di fine, di unità e di verità» (Nietzsche F., 1887, p. 955). E ora, prosegue Nietzsche, «il mondo sembra senza valore» (ibidem).

Morto dio, ecco allora il bivio: Jaspers imbocca con decisione la strada della fiducia nel soggetto, lasciando da parte ogni altrove (dio è morto) fondante l’esperienza dell’uomo; Jung oscilla, perché sa che il soggetto solo, senza più un dio, è a rischio di un’incontrollabile inflazione, e la nietzschiana fedeltà alla terra può rimanere una pia illusione. Per questo imbocca la strada del relativo, dove alla coscienza si affianca sempre un altro che la compensa e la riequilibra. Ma chi è l’altro? È, di nuovo, una popolazione di divinità psichiche immanenti e universali, abitatrice dell’oltre-coscienza ma in continuo scambio con la coscienza medesima? Oppure, è la matrice di ogni esperienza del vivente, universale ma incontrata e interpretata in multiformi e culturali modi possibili, differenti nel tempo e nello spazio, soggettivamente qualificabili di contenuto?

Che cosa, di Jaspers, potrebbe accogliere il mondo junghiano?

La dimensione oggettiva della psiche messa a tema da Jung, ha indubbiamente implicazioni psicologiche importanti. La costruzione di un pensiero non può essere valutata solo dai suoi effetti, ma non c’è dubbio che questi siano presenti fin dalla sua originaria tessitura.

Innanzitutto, asserire la presenza di una costante alterità nella vita della coscienza, non cadendo nella trappola della sua emarginazione, comporta che il soggetto non sia mai orfano. Egli fa parte di una vita comune più vasta, appartiene ad un “tutto”, avvertito ma mai interamente posseduto. La cosa non ha solo un valore euristico, ma anche profondamente terapeutico, se è vero che “terapia” (dal greco theràpon: aiutante, compagno) è dischiudere la vita del paziente, accompagnandola con nuovi e più ampli orizzonti di senso.

In secondo luogo, l’oggettività della psiche che Jung ci consegna chiarisce il carattere patico dell’esperienza umana, oltre che dell’esperienza di malattia. Non solo, e non tanto, nel senso della qualità affettiva che ha nel soggetto il punto di partenza anche gnoseologico (su cui tanto Jaspers quanto Jung convergono) ma, soprattutto, nel senso del patire, da parte del soggetto, il carattere di oggettività dell’esperienza. Nell’esperienza il soggetto si direziona e crea significati ma anche, irriducibilmente, è segnato dal carattere di necessità limitante e significante che forse possiamo (ma solo in questo senso) chiamare ancora “natura”.

E tutto ciò non può non rimandare al grande discrimine tra psicologia analitica e fenomenologia, che resta e rimarrà l’inconscio e la sua considerazione. Con quanto esso con sé trascina: il soggetto, paticamente preso di mira dall’oggettività necessaria, non si fermerà alla contemplazione dell’inderivabile, descrivendo e penetrando l’altro per immedesimazione; il soggetto, colpito, ritrova sé stesso interpretando. Ma forse, proprio su questo punto, Jaspers può aiutarci a non scivolare nel regno delle cose abbandonando, come spesso ha purtroppo fatto la psicoanalisi, lo psichico. Ciò può avvenire se interpretare non diventa uno spiegare, misconoscendo il valore del fenomeno così come appare e sostituendolo con quello della causa da disoccultare; ma, solo, se interpretare diventa un aprire all’altro oltre-coscienziale, disvelando significati nuovi i quali, come Jung ha indicato, si mostrano sempre nella veste di immagini anche se, primariamente, immagini non sono.

Rimanere nello psichico, fare cioè dell’autentica psico-logia, comporta allora almeno due rinunce. La prima è la rinuncia ad una teoria definita dell’inconscio, che apra ad una visione (l’originario della theorìa) finalmente s-pregiudicata dell’inconscio stesso. Cioè ad una visione senza pre-giudizi, senza assunti teorici anticipati che sigillano l’esperienza senza lasciarla essere.

La seconda rinuncia, molto dolorosa per tutti gli junghiani, chi più chi meno affascinati dalle descrizioni dell’inconscio fatte dal maestro, chi più chi meno stupefatti di fronte alla totalità resa figura, è la rinuncia ad un inconscio collettivo popolato da contenuti nominabili e da immagini raffigurabili.

Forse qui è possibile un avvicinamento alla fenomenologia anche sul tema dell’inconscio (termine infelice, ma storicamente complicato da riformulare). Perché ciò che l’esperienza nella sua immediatezza avverte e mostra, là dove la coscienza si oscura ma non si assenta, non è la presenza di immagini (queste, soggettivamente, nascono dopo) ma di affetti che non si vedono ma si sentono. Soprattutto, di affetti legati al corpo secondo l’accezione junghiana.

Su questo terreno ci sembra potersi effettuare una saldatura tra esperienza psichica tout court e spirito del tempo, anche perché non può darsi esperienza psichica che non sia culturalmente mediata. Intendiamo dire che, nell’epoca della morte di dio, il rivestimento degli affetti inconsci da parte dei contenuti è sempre meno scontata. La psicopatologia che affolla le stanze d’analisi porta molto frequentemente a contatto con inconsapevoli ondate affettive che, non accompagnate da contenuti ombra, disorientano la coscienza e impediscono una loro attribuzione di significato. L’esempio paradigmatico è fornito dall’esperienza del panico: l’inconscio che irrompe nelle maglie di una coscienza, generalmente ben adattata ma altrettanto poco incline alla rimozione di contenuti disdicevoli (dio è morto…), è l’inconscio degli affetti più arcaici. In primis, l’angoscia che disarciona la coscienza e trascina con essa la convinzione della sua irrimediabile precarietà. E l’angoscia è un affetto nudo, privo di immagini fruibili, che alla memoria della coscienza consegna solo vortici di smarrimento. Come ci ha ricordato Heidegger, a starle di fronte c’è il «nulla di nessun luogo» (Heidegger M., 1927, p. 228). Non paesaggi contrastanti con la coscienza. Solo, il precipizio di un oltretomba disabitato.

Forse l’inconscio, in particolare l’inconscio collettivo, è proprio questo. E gli archetipi, affetti. Stati psichici primari (fondamentali), la cui esistenza viene segnalata quando si esperisce il buio, l’amore, la morte, l’altro. Per reggerne la presenza, la soggettività dà loro forma di immagini e fornisce nomi. Oggi, che dio è morto, questo è sempre più difficile, anche se per molti, proprio per questo, sarebbe ancor più auspicabile. Ma, comunque, si tratterebbe di nomi…


 Bibliografia

  • Binswanger L.(1952), Il caso Suzanne Urban, Marsilio, Venezia 1994.
  • Heidegger M. (1927), Essere e tempo, Longanesi, Milano 2005.
  • Jaspers K. (1913), Psicopatologia generale, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma 1988
  • Jaspers K. (1919), Psicologia delle visioni del mondo, Astrolabio, Roma 1950
  • Jung C.G. (1907), Psicologia della dementia praecox, in «Opere», vol III, Boringhieri, Torino 1971
  • Jung C.G. (1912), Simboli della trasformazione, in «Opere», vol V, Boringhieri, Torino 1970
  • Jung C.G. (1930), Alcuni aspetti della psicoterapia moderna, in «Opere», vol XVI, Boringhieri, Torino 1981
  • Jung C.G. (1931), Il problema fondamentale della psicologia contemporanea, in «Opere», vol VIII, Boringhieri, Torino 1976
  • Jung C.G. (1934/1954), Gli archetipi dell’inconscio collettivo, in «Opere», vol IX*, Boringhieri, Torino 1980
  • Jung C.G. (1938/1954), Gli aspetti psicologici dell’archetipo della Madre, in «Opere», vol IX*, Boringhieri, Torino 1980
  • Jung C.G. (1937), Determinanti psicologiche del comportamento umano, in «Opere», vol VIII, Boringhieri, Torino 1976
  • Jung C.G. (1945), Medicina e psicoterapia, in «Opere», vol XVI, Boringhieri, Torino 1981
  • Jung C.G. (1946), La psicologia della traslazione, in «Opere», vol XVI, Boringhieri, Torino 1981
  • Jung C.G. (1947/1954), Riflessioni sull’essenza della psiche, in «Opere», vol VIII, Boringhieri, Torino 1976
  • Jung C.G. (1957), Presente e futuro, in «Opere», vol X**, Boringhieri, Torino 1986
  • Marozza M.I., Jung dopo Jung, Moretti e Vitali, Bergamo, 2012
  • Nietzsche F. (1887), Frammenti postumi, in «Opere» 1882/1895, Newton Compton 1993
  • Trevi M. (1987), Per uno junghismo critico, Giovanni Fioriti Editore, Roma 2000
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