
2014 Numero 3
Dalla teoria alla pratica: la psicoterapia junghiana e la clinica del comprendere
Nell’incipit dell’introduzione dell’ultimo libro di Maria Ilena Marozza, Jung dopo Jung, l’autrice si pone una sfida quanto mai attuale: andare alla ricerca di uno Jung sostenibile. Sottolineo l’importanza di questo termine, sostenibile, perché credo che racchiuda in se tutto ciò che lo junghismo oggi, e nel futuro ancora a venire, ha il compito di individuare.
In questo mio breve scritto vorrei tentare di tracciare un ponte tra il pensiero junghiano, che dallo Jung “classico” é arrivato fino ai giorni nostri con posizioni più o meno critiche, alla possibilità che ci é data di trasformarlo in qualcosa di “spendibile” nella pratica clinica. Non nascondo che io stessa ho faticosamente trovato una posizione che mi permettesse di lavorare in un senso junghiano, senza troppo tradire Jung, ma ugualmente, inevitabilmente, liberandomene un pò, utilizzando spesso e volentieri teorizzazioni che nella clinica possono apparire distanti da ciò che il maestro ci ha insegnato. Eppure il maestro, dal mio punto di vista, ci ha dato forse il più grande degli insegnamenti: e cioè che dai maestri possiamo e dobbiamo prendere il più possibile, ma non rimanere per tutta la vita allievi.
È stato Tobie Nathan, allievo del celebre George Devereux, etnopsichiatra di fama mondiale ad aver ricordato così il proprio maestro: «Ciò che mi è rimasto di lui è un maestro, e cioè si potrebbe dire, qualcuno che mi ha spaccato la testa, mi ha aperto la testa. Ha fatto sì che la mia testa dopo non fosse più quella di prima e che io sia sempre costretto a ricostruirla a partire dalle linee di frattura che lui mi ha provocato. […] Così in quanto maestro, ha messo nella mia testa delle domande, e in questo è stato un maestro. Un maestro è quello che pone le domande, le cui risposte, in fondo, contano poco.» (Beneduce R. 2007)
Diviene qui implicito proporre una riflessione che va a toccare la sfera dell’individuazione, concetto molto caro a Jung, in cui si rintraccia la possibilità che a ciascuno è data del “diventa ciò che sei”, ma sempre nella duplice dimensione, sottolineata da Marozza (2012), dello stretto rapporto tra le forme dell’essere collettivo e lo sviluppo della singola individualità. Il diventa ciò che sei non è un accettare passivamente un mutamento personale, ma piuttosto un viverlo profondamente in tutta la sua paticità. Il senso del patico riguarda una metafora familiare a Jung, che é quella del terapeuta visto come guaritore ferito, e cioè della quasi imprescindibile necessità dell’individuo di attraversare controverse e non conosciute strade per arrivare ad un punto, per altro, mai definitivo. Il dolore e la sofferenza, componenti ineliminabili dell’esperienza umana, sono concetti ricorrenti nel pensiero junghiano, e la prima esperienza di Jung in qualità di psichiatra alle prese con la malattia mentale in clinica, fanno di lui uno dei precursori dello studio “sul campo” del disagio psichico.
La psicoterapia junghiana risente profondamente dei temi che ho appena toccato, che coinvolgono non solo la figura del terapeuta e la sua, se vogliamo, travagliata storia personale, ma anche il modo in cui egli si pone di fronte all’alteritá.
Parlare di alteritá significa parlare dell’importanza del rivolgersi all’altro come al sempre nuovo, al mai conosciuto, al mondo di un altro che va del tutto esplorato (Callieri 1983). Proprio per questo il nostro atteggiamento di analisti è quello di chi é sempre stupito, aperto e privo di assolute certezze, che ad esempio la psicoanalisi ha, nel corso della sua storia, tentato più volte di consegnare. Questo attengiamento dell’analista non presuppone un semplice socratico so di non sapere, perché si é in compagnia delle personali possibili interpretazioni, in un continuo rimando di aperture tra mondo interno personale e mondo dell’altro. Tuttavia non dobbiamo dimenticare a tal proposito l’importanza che riveste per Jung la questione etica del lavoro dell’analista: la responsabilità del processo terapeutico è fortemente asimmetrica. In ambito clinico ci si trova sì uno di fronte all’altro, tuttavia è il terapeuta che si impegna ad aver cura dell’altro mantenendo quella che Marozza (op.cit.) definisce una posizione di «garante della sua libertà».
L’aspetto etico, che è oggi regolamentato da uno statuto ben preciso per la categoria professionale di psicologi e psicoterapeuti, era fortemente rimarcato da Jung, e credo sia sempre importante rinfrescare la memoria in tale senso. L’idea di etica non può prescindere dall’idea di uomo che ogni psicoterapeuta possiede dentro di sè: si tratta di quel presupposto punto di partenza per ogni particolare scelta che il soggetto compie sia verso sé stesso che verso l’altro.
La scelta terapeutica del seguire una “procedura” (ad es. stabilire un particolare setting, proporre un intervento, favorire un’interpretazione piuttosto che un’altra) non è mai quindi puramente tecnica, ma deve necessariamente fare appello a questioni etiche, oltre che di metodo. Il fare in psicoterapia non è soltanto l’agire, più o meno concretamente: il fare può essere rappresentato dall’accogliere con più o meno puntualità un paziente, dimostrare un’attenzione alle sue parole più o meno comprensiva, far trovare nella stanza un arredo più o meno confortevole e così via. Ho portato questi esempi del concreto, perché infondo il nostro lavoro, sebbene ci riempiamo la mente di teorie e di tecniche più o meno diverse per approcciarci allo psichico, va sempre tradotto in un fare, limitato, a volte parziale, a volte approssimativo, purtroppo molte volte dettato dal buon senso, ma nel quale, come ci ricorda Jung, è la personalità del terapeuta che entra in gioco e la sua etica personale e professionale. I concetti di rispetto, di accoglienza della diversità, di apertura all’altro, sono quindi impliciti in questa visione, ma ne fanno anche della psicoterapia una delle discipline se vogliamo più delicate e nella quale va prestata la massima attenzione.
Non è esente da questo discorso il concetto di potere, che implicitamente è assegnato ad ogni psicoterapeuta e che non riguarda solo la relazione paziente-terapeuta, ma anche, come sosteneva Jervis G. (2008) in un suo contributo di qualche anno fa, l’addestramento di medici e psicologi che conducono un iter formativo alla psicoterapia.
Le dinamiche non controllate che possono scaturire nel lavoro di addestramento degli allievi e degli aspiranti pscicoterapeuti vanno tenute in grande considerazione. Da molte parti si è rimproverato alle varie scuole di psicoanalisi, tra le quali quella junghiana, di essere dei sistemi di potere autogenerantesi, e perpetuantesi, organizzazioni rigide e fondate secondo una scala gerarchica al proprio interno. Non credo, personalmente, che queste critiche siano state prive di fondamento, ma che, per ritornare al concetto di uno Jung sostenibile, sono forse oggi più che mai oggetto di una attenzione critica e consapevole.
Per riprendere il discorso sui maestri, credo sia importante affermare che oggi vanno favoriti gli scambi dialogici tra le diverse correnti e posizioni teoriche, e si deve dar spazio all’incontro e al dialogo tra individui differenziati ed unici.
L’impronta lasciata da Jung risente infatti di questo insegnamento: coltivare la propria strada personale, senza la necessità di aderire ad un modello preconfezionato di teorie e di modelli interpretativi, poiché è nello scambio relazionale che si gioca la grande sfida dell’analisi. E’ per questo motivo che oggi le “anime” dello junghismo sono così multiformi e disparate, tuttavia si ritrovano sotto un unico grande denominatore: nel rispetto della diversità (e anche della tipologia psicologica del singolo, direbbe Jung) di cui ciascuno è portatore.
Lo psicoterapeuta junghiano, secondo il modello che fin qui ho tentato di tracciare, è persona responsabile e agente consapevole delle proprie “azioni” o scelte terapeutiche, e non è in balia, di un imprevedibile dio chiamato inconscio o archetipo, o pulsione, che lo afferra e lo determina (La Forgia M. 2008).
Uno dei rischi che si corrono in alcuni casi è che la cultura e il sapere del terapeuta possano opporsi all’autentica conoscenza dell’altro piuttosto che favorirla. A questo punto vorrei introdurre un concetto, citato nel titolo di questo mio lavoro, che è quello del “comprendere”.
In ambito filosofico si definisce la comprensione come l’atto con il quale la mente arriva a formulare un concetto (dal latino: cum capere) come risultato di un procedimento mentale che “prende e mette insieme” (in latino: comprehendĕre) aspetti sensibili particolari che una molteplicità di oggetti hanno in comune. Le derivazioni di questo concetto vanno dall’empatia (pensiamo ai moderni studi di neuropsicologia in tal senso), alla comprensione, all’ermeneutica; ne fanno pertanto un elemento imprescindibile anche della riflessione psicologica e della pratica clinica.
Tra “credere di aver compreso” e “comprendere” vi è una differenza sostanziale e comprendere un comando o la richiesta di un favore non è certamente la stessa cosa che comprendere il pianto di un bambino non ancora in grado di parlare. Queste riflessioni avvicinano il discorso filosofico a quello della clinica.
La comprensione non è un evento puramente mentale ma è piuttosto un fatto. L’esigenza di comprendere si impone tutte le volte che qualcosa si presenta opaco rispetto al suo senso, come accade del resto in psicoterapia, quando ci si trova di fronte all’alterità. A quel punto lo psicoterapeuta può comprendere, piuttosto che esclusivamente interpretare, poiché le due attività sono in relazione tra loro, ma logicamente distinte come sosteneva Wittgenstein (1953).
È implicito che l’operato dello psicoterapeuta è fortemente connesso alla capacità di comprensione che esso sa stabilire: lo Jung più empirico ci dice infatti che la nostra specificità di intervento risiede nel fondare la nostra conoscenza della psiche all’interno dell’incontro clinico (Marozza M. I. 2012, p.192). È a tal proposito che subentra il discorso sulla conoscenza intersoggettiva a partire dalla capacità di sintonizzazione e condivisione di un’esperienza affettiva. Il peso dato da Jung all’affettività è forse ancora quanto di più attuale e spendibile c’è nella pratica clinica. L’ascolto attraverso l’affettività (e dell’affettività) avviene grazie ad una sospensione della coscienza, tendente non tanto a sconfessarla quanto a favorire l’integrazione di nuove prospettive scaturite dall’apertura di nuove domande. L’analista andrà qundi incontro a quello che Freud aveva definito “perturbante”, l’inquietante estraneità che caratterizza l’incontro con l’altro e con il suo universo inconscio e sconosciuto, assumendo un atteggiamento di sempre rinnovato mettersi in ascolto. (op. cit., p.270)
Non dobbiamo dimenticare che il mondo inconscio a cui qui si fa riferimento non è un prederminato a-priori e già dato.
È essenziale intal senso fare un uso critico delle categorie in gioco nella comprensione, cioè un uso alla luce della consapevolezza della genesi storica di quelle categorie e della esigenza di «allargarne e riplasmarne il significato mediante il confronto con altri mondi storico-culturali» (De Martino E. 1952). Alla base di questo discorso vi è la nozione di etnocentrismo critico proposta da Ernesto De Martino, che considera l’incontro “alla frontiera” con un’alterità tutta da decifrare, come l’occasione per conoscere sé stessi e gli altri. L’inconscio in questa visione non appare quindi costellato di forme archetipiche nel senso di categorie già predeterminate e storicamente immutabili, ma piuttosto inserito in un particolare paradigma storico e culturale.
L’osservazione dell’inconscio, che è stato per Jung oggetto di studio e passione, ma anche vissuto durante la propria esperienza personale di “malattia creativa”, rappresenta la dimensione di maggior fascinazione per la clinica che ci ha lasciato.
Una giovane scrittrice, Giulia Carcasi (2007), scriveva in uno dei suoi primi romanzi che prendere decisioni e fare i conti con se stessi é come stare ad una riunione di condominio nella quale si deve cercare sempre un compromesso tra le varie esigenze e le varie posizioni che si trovano anche spesso a confliggere. In psicoterapia alla riunione di condominio si é in molti. Ed é proprio per questo che al terapeuta é richiesto prima di tutto di conoscere i propri condòmini, e metterli d’accordo di volta in volta con gli altri che via via si presentano. Questa metafora molto semplice, e per certi versi riduttiva, ci ricorda che il concetto di inconscio ha sempre a che vedere con una possibilità relazionale, in tal caso di istanze psichiche. O nei casi meno fortunati, di scissione e rottura psichica/psicotica.
Jung ci ha insegnato l’importanza che ha per lo psicoterapeuta il sapere, lo studiare, il conoscere. La preparazione del terapeuta dovrebbe essere quanto più vasta possibile, ed in questo certamente noi ci sentiamo e ci sentiremo sempre delle formichine. Tuttavia, parafrasando Bion, al cui insegnamento molti di noi sono grati, e che é stato anche ferequentatore del pensiero di Jung, il terapeuta dovrebbe essere “senza desiderio e senza memoria”, dovrebbe cioè sapere ma allo stesso tempo non farsi vanto delle proprie conoscenze e lasciare che ciò che accade nel processo analitico sia un qualcosa di assolutamente singolare e nuovo per lui.
Questa ed altre posizioni spesso rinvenibili nel pensiero junghiano, ci collocano come terapeuti in una terra di incertezza, di non già-dato, eppure io credo che questo sia quanto di più ricco ci abbia lasciato l’eredità junghiana, cioè la necessità, oltre che la possibilità, di vivere in un presente mai pre-determinato le manifestazioni della psiche: dal sintomo che la persona mette in scena, al suo universo relazionale, alla capacità di rispondere in maniera più o meno adattiva alle richieste del mondo circostante.
In tal senso possiamo fare omaggio a questo grande pensatore del novecento ed alle sue scoperte: rendere il suo pensiero sostenibile significa per noi “lavoratori della psiche” arricchirlo e mantenerlo attuale, nei suoi spunti di originalità ed avanguardia, ed alimentare la visione di un uomo libero, autentico e in equilibrio dinamico tra il mondo personale e quello delle relazioni.
Bibliografia
- Beneduce R. (2007), Etnopsichiatria. Sofferenza mentale e alterità fra storia, dominio e cultura, Carocci editore, Roma.
- Callieri B. (1983), Antropologia e psichiatria. Dall’oggettività del “caso” all’esperienza di rapporto e di incontro con la persona. Med. e Morale, 180.
- Carcasi G. (2007), Io sono di legno, Feltrinelli, Milano.
- De Martino E. (1962), Magia e civiltà. Un’antologia critica fondamentale per lo studio del concetto di magia nella civiltà occidentale, Garzanti, Milano.
- Desideri F.(2008), “Del comprendere. A partire da Wittgenstein”, in Rivista Atque. Fare e pensare in psicoterapia, Moretti&Vitali, Bergamo.
- Jervis G. (2008), “Naturalità e innaturalità delle psicoterapie”, in Rivista Atque. Fare e pensare in psicoterapia, Moretti&Vitali, Bergamo.
- La Forgia M. (2008), “L’apparente specificità della clinica”, in Rivista Atque. Fare e pensare in psicoterapia, Moretti&Vitali, Bergamo.
- Marozza M.I. (2012), Jung dopo Jung, Moretti&Vitali, Bergamo.
- Stanghellini G. (2008), “Per una psicoterapia fenomenologica”, in Rivista Atque. Fare e pensare in psicoterapia, Moretti&Vitali, Bergamo.
- Wittgenstein L. (1953), Ricerche filosofiche, tr.it. R. Piovesan e M. Trinchero, Torino, Einaudi, varie ristampe.