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Walter Benjamin e la memoria

Rivista annuale a cura del Centro Italiano di Psicologia Analitica Istituto di Roma e dell’Italia centrale

QCJ 2013

2013 Numero 2

Walter Benjamin e la memoria

Nell’affrontare il tema della memoria è difficile nascondere un certo imbarazzo dovuto alla presenza di grandi trattazioni filosofiche, quali quelle di Aristotele, Kant. Hegel e Heidegger.  Per quanto mi riguarda mi concentrerò su un autore particolarmente legato alla contemporaneità e negli ultimi anni significativamente presente nel dibattito culturale: Walter Benjamin. Le motivazioni di questa scelta spero emergeranno da tutto quello che verrò argomentando, ma vorrei comunque immediatamente affermare che quelle di Benjamin sono considerazioni di grande rilievo, nelle quali la memoria è per così dire inserita in un contesto di pensiero interpretabile come post-metafisico e particolarmente vicino alla nostra sensibilità filosofica.

Per orientarci dobbiamo partire dalla diagnosi molto precisa che Benjamin fa della modernità, della società contemporanea, analizzata ricorrendo a una modalità di considerazione definita micrologica, in quanto capace di cogliere nel frammento il senso di un intero mondo storico.

Il giudizio che Benjamin dà della realtà in cui siamo immersi è molto duro: la società attuale sarebbe costituita da una vita immersa nell’inconscio, intendendo per inconscio due cose: il mito e la natura. Siamo in una sorta di preistoria, cioè di dimensione in cui – e questo è un po’ un aspetto specifico di Benjamin che vorrei mettere in evidenza – l’accadere collettivo che trascina con sé i destini individuali è ancora preda di potenze mitiche. Ora, questa articolazione fra l’accadere collettivo, la storia, e il destino di ognuno di noi offre una significativa materia di riflessione, tanto al filosofo quanto allo psicoanalista. Siamo nella preistoria, quindi, siamo in un mondo dal quale dobbiamo tirarci fuori: negli scritti di Benjamin si annida una grande spinta emancipativa, che alimenta ancor oggi la domanda sulla natura ultima del suo pensiero, per cui continuiamo a chiederci se siamo davanti a un filosofo della storia, a un filosofo dell’arte o a un critico letterario. La difficoltà evidente nel racchiudere Benjamin in una definizione è uno degli elementi essenziali del suo fascino.

Uscire dal presente è difficile, il presente è una catastrofe, che cerca di esorcizzare se stessa ricorrendo al mito del progresso, a un’ideologia rassicurante, che non fa che parlarci di un futuro migliore. Benjamin considera il moderno un mondo naturale, in cui dominano potenze mitiche, il cui contrassegno è il sempre uguale, l’assenza radicale di ogni forma di novum. In ciò possiamo trovare i primi spunti di un’apertura alla psicanalisi: l’aspetto più importante di questo giudizio sul carattere mitico del moderno è da ritrovare nel fatto che il mondo in cui viviamo è sottoposto a una sorta di coazione a ripetere, per cui la modernità è una ciclica rigenerazione di forme di potere dalla quale dobbiamo cercare di uscire.

Rispetto a questo compito decisivo, Benjamin ci propone un pensiero critico che, da un lato, si richiama alla visione emancipativa propria di Marx e, dall’altro lato, guarda alla religione, alla teologia ebraica. Questa unità impossibile di messianesimo e materialismo storico è lo strumento attraverso cui viene invocata una «via d’uscita dalle macerie» del presente. Un giudizio sul nostro tempo così fortemente critico-negativo produce una fortissima istanza volta a far saltare la continuità, a cercare delle vie attraverso le quali riuscire ad interrompere l’eterno ritorno dell’uguale, la coazione a ripetere insita nel perpetuarsi delle medesime forme di comportamento e di dominio.

La memoria costituisce la modalità fondamentale attraverso cui Benjamin ritiene possibile uscir fuori dalla dimensione del presente, essa incarna il supporto decisivo della spinta alla trasformazione, all’emancipazione, all’interruzione. Abbiamo quindi una soggettività che non si costruisce tradizionalmente attraverso la volontà di cambiamento o il sapere, ma una soggettività che produce se stessa in quanto capacità di memoria. Il vero pensiero emancipativo, pertanto, non sta – come siamo abituati a ritenere – nel guardare avanti, nel porci un fine, un telos, nel progettare il futuro, ma, al contrario, in un rapporto con il passato, con la storia.

A Benjamin quest’idea viene fondamentalmente dall’ebraismo, dalla religione ebraica, così da sottolineare: « “è noto che agli ebrei era vietato investigare il futuro. La Torah e la preghiera li istruiscono invece nella rammemorazione”».(Benjamin W. 1997, p. 57)

Un aspetto importante della ricezione dall’ebraismo lo possiamo vedere nell’idea di affidabilità, di fedeltà a un patto che va ricordato, che va conservato e al quale bisogna restare fedeli attraverso un atteggiamento di gratitudine, per cui la memoria si carica di risonanze emotive rispetto a un passato immemoriale, a un patto originario che l’uomo ha contratto per uscire dalla violenza, dallo stato di natura. La memoria è la chiave della redenzione, della salvezza, della speranza: sono queste le categorie che Benjamin mette in campo. Nonostante queste radici ebraiche molto forti, Benjamin non consegna, però, la sua idea di memoria ad una forma teologica e supera una impostazione strettamente religiosa.

La concezione della memoria che viene a delinearsi ci interessa in quanto riesce a coniugare, da un lato, il soggetto psicologico e, dall’altro, una sorta di “soggettività storica”, cioè un soggetto volto a modificare il corso degli eventi. Vedremo che la memoria è la chiave di qualcosa che Benjamin chiama l’esperienza, in un senso che inizialmente si ispira a Kant, ma che successivamente si amplia a dismisura, diventando da strumento di conoscenza a modalità fondamentale di una forma di vita irrimediabilmente perduta nel presente. L’accostamento fra storia e memoria potrebbe apparire tradizionale e scontato, ma non lo è per via della forte originalità della visione benjaminiana.

Il primo punto che vorrei sottolineare è che per Benjamin la memoria non è un organo di registrazione passiva o di conservazione di segni di ciò che è stato, bensì,  – e questo potrebbe aprire al pensiero junghiano – la memoria è una decifrazione di simboli e di allegorie. Quindi, l’effetto liberatorio della memoria sta in questo svelamento, in un suo darsi come prassi ermeneutica, capace di instaurare quell’«attimo della conoscibilità», che costituisce una illuminazione inedita del passato.

Il saggio di Benjamin più pertinente sulla questione si trova in Angelus Novus, ed è dedicato a Baudelaire.(1) In questo testo si prende in considerazione il principio della memoria come costitutivo di un processo di soggettivazione, come un nuovo modo di pensare la soggettività. Benjamin parla di due modi diversi e opposti di intendere la memoria, entrambi di grande portata. Da un lato la modalità di Proust e dall’altro quella di Bergson. Proust viene presentato come chi ci propone una memoria come emergenza spontanea, quello che Benjamin chiamerà «memoria involontaria», mentre Bergson ci presenta invece la memoria come esercizio attivo, cioè come «memoria volontaria».

Benjamin interpreta questo dualismo fra memoria volontaria e involontaria, sottolineando come nel momento in cui la memoria si dà come volontaria, si costituisce come Erlebnis, esperienza vissuta, producendo un distacco di tale vissuto soggettivo dal corso storico, che dà luogo a una sorta di dissociazione fra tempo interiore e tempo esteriore. Benjamin ricorda come «Proust accusa l’insufficienza e la mancanza di profondità delle immagini che la mémoire volontaire gli offre di Venezia». (Benjamin W. 1981, p.124) Abbiamo così un’operazione dell’io che conserva qualcosa in se stesso, si dà quella che è la forma di memoria propria del mondo di oggi, qualcosa che fa sì che Benjamin possa dire che la società contemporanea si configura come una società della perdita dell’esperienza.

Se dunque la memoria dà vita esclusivamente all’ Erlebnis, quel che accade è il comparire di un genere di uomo «derubato della propria esperienza», cioè di «un moderno». (Ivi, p.115) Benjamin ci comincia a dire che l’esperienza, questo qualcosa che noi abbiamo perso, è, nel senso proprio del termine, il fatto che i contenuti del nostro passato individuale entrano in congiunzione, nella memoria, con il passato collettivo. La perdita dell’esperienza è nella società contemporanea il venir meno della possibilità di congiungere il passato del singolo individuo con il corso storico. Siamo, con tutta evidenza, davanti a un aspetto la cui portata per la psicoanalisi è molto difficile da sottovalutare.

La memoria che salva non è quindi quella che restituisce il vissuto – l’Erlebnis alla Dilthey – e non è neppure quella che ci consegna un ordinamento oggettivo del passato. La memoria emancipativa è una forma di esperienza, qualcosa che permette la connessione fra l’esteriore e l’interiore, ricoprendo quindi una funzione primaria nella formazione del Sé.

A questo punto Benjamin, sempre nel saggio su Baudelaire, cerca un sostegno teorico nella psicoanalisi per rafforzare la propria concezione della memoria come principio costitutivo della soggettività e il riferimento che gli interessa lo trova nell’interpretazione della teoria freudiana dei ricordi di copertura. Secondo questa teoria ciò che la coscienza naturale conserva dell’esperienza più antica non è l’essenziale di essa, rivelandosi non in grado di fare i conti con la struttura, coincidente con la costellazione edipica. La coscienza, piuttosto, conserva un mosaico di frammenti che hanno un rapporto insieme di contiguità e di occultamento con la struttura profonda.  Benjamin si mostra così in sintonia con l’enunciato teorico generale di Freud che afferma che la coscienza sorge al posto di un’impronta mnestica.

Abbiamo allora la seguente interpretazione di questa tesi freudiana: la coscienza di un’Erlebnis, di un vissuto, funge da barriera antistimolo, che impedisce il fissarsi dell’esperienza stessa sotto forma di traccia mnestica, e quindi di conservare il senso autentico dell’esperienza. Coscienza di un vissuto e traccia mnestica sono fra sé incompatibili, così che possiamo considerare come proprio dei residui mnestici la forza e la tenacia di “sopportare” i conflitti, in modo tale da configurarsi come tracce che non sono pervenute alla coscienza. Questo è un primo riferimento importante che Benjamin fa a Freud, il secondo, ugualmente decisivo, riguarda il problema della nevrosi traumatica. È noto che per Freud la nevrosi traumatica smentisce, con il sogno di angoscia ricorrente, il principio dell’appagamento del desiderio, come base dinamica del sintomo e del sogno, permettendo così una teorizzazione al di là del principio del piacere.

Riferendosi a questa tesi di Freud, per cui il senso dell’incubo ricorrente sarebbe quello di realizzare a posteriori il controllo dello stimolo sviluppando l’angoscia, la cui omissione è stata causa della nevrosi traumatica, Benjamin avanza una teoria generale della memoria come lavoro psichico supplementare che ha lo scopo di sopperire alle insufficienze della coscienza di fronte al trauma. Questo lavoro psichico supplementare, proprio dalla memoria, riorganizza la ricezione dello stimolo che la coscienza deve avere. In questo senso la memoria diventa l’organo di elaborazione e strutturazione dell’esperienza e ha un effetto trasformativo molto forte. In questo modo il passato non è «morto possesso», e neppure una «reliquia secolarizzata» – la scrittura di Benjamin è qui estremamente efficace – al contrario, il passato, rielaborato attraverso la memoria, viene assunto in una modalità che possiamo caratterizzare come una forma di riconoscimento, di non appropriazione, un tipo di relazione capace di lasciare ciò a cui si rivolge nella sua alterità e ricchezza di senso. In questo modo l’esperienza traumatica può diventare parte integrante di una soggettività, che proprio in questo lavoro si modifica e si amplia.

Questi due riferimenti a Freud sono molti importanti, ma Benjamin è ricco anche di altri spunti estremamente significativi, che riguardano sempre il nostro tema della contemporaneità, quale, ad esempio, la citazione del Dialogo fra la moda e la morte contenuto nelle Operette morali di Leopardi.(2)  Qui la moda civetta con la morte, in quanto si presenta come un rinnovamento continuo, un rito di rigenerazione, che in realtà non riscatta il passato, in quanto privo di autentica memoria, diventando un altro esempio di ripetizione ciclica, che mantiene intatta la carica mortifera propria della coazione a ripetere.

A questo punto vorrei fare due piccoli passaggi ulteriori. Se la memoria ha il compito di assicurare un lavoro psichico supplementare, occorre chiedersi quale sia il suo specifico modo di funzionare. Questo è un altro grande apporto teorico di Benjamin. La memoria funziona attraverso le immagini. Il ricordo involontario ci fornisce delle immagini che Benjamin chiama «dialettiche». In proposito è indispensabile riferirsi alla XVII delle Tesi di filosofia della storia che rappresenta quello che potremmo definire il testamento spirituale di Benjamin: «”Il pensiero si arresta di colpo in una costellazione satura di tensioni, le impartisce un urto per cui esso si cristallizza in  una monade”».(Op.cit., p.85) La memoria funziona in una sorta di conversione del pensiero in immagine. L’immagine – in ciò Benjamin dichiara esplicitamente il suo debito verso Hölderlin –  rispetto al pensiero si presenta come una pausa, una interruzione, una cesura, mentre il pensiero tende alla concatenazione, alla successione, l’immagine è un arresto, un «prender fiato».

L’immagine è un rapporto col passato, un volgersi al passato che crea una nuova costellazione di senso e questo effetto è strettamente collegato al suo scaturire dal modo di funzionare della memoria involontaria, la quale può offrirci un tessuto di immagini dialettiche, che sono forme di un rapporto col passato basato sul principio della citazione.  In questo modo si estrapola da un contesto e si riutilizza qualcosa, con un atto – quello della citazione appunto – caratterizzato insieme da mitezza e decisionismo. Citare è un passivo riprendere qualcosa ma, nello stesso tempo, un attivo estrarre dal suo contesto un elemento, ridandogli nuova vita in un’inedita costellazione di senso. Benjamin cita Aby Warburg: l’immagine è monadica perché è una forma di contrazione inattesa e balenante, ha un effetto di intensificazione e in questo senso costituisce la modalità fondamentale attraverso cui possiamo riferirci al passato.(3) È la memoria involontaria a fornirci le immagini intese in questo modo, riferendosi a Proust, Benjamin afferma: «l’odore è il rifugio inaccessibile della mèmoire involontarie» e aggiunge: «se al riconoscimento di un odore spetta più che a ogni altro ricordo, il privilegio di consolare, ciò è forse perché esso stordisce profondamente la coscienza del tempo. Un profumo fa tramontare anni interi nel profumo che ricorda». (Ivi,p.120)

Quel che ci viene proposto da Benjamin è dunque un modo di rivolgersi al passato attraverso immagini monadiche che concentrano, intensificano, cristallizzano delle tensioni, delle emozioni. Siamo davanti a un’impostazione capace di dare molto da pensare a chi si occupa di psicoanalisi: il passato riattivato attraverso l’immagine dialettica è, al contempo, distrutto e liberato. È distrutto nel senso che si toglie al passato la sua condizione di irreversibilità, di qualcosa di inesorabilmente compiuto, di necessario, di continuo. Si distrugge il passato come ciò che è stato: già Nietzsche lottava contro l’idea del passato come qualcosa di assolutamente necessario e quindi di ostacolo alla creatività e all’azione. Da un lato, dunque, il passato viene distrutto per il suo aspetto di necessità, di inesorabilità, ma dall’altro lato esso viene liberato e restituito alla sua unicità e alle sue possibilità inespresse. Questo ritorno attraverso l’immagine al passato, non è la semplice rivisitazione del già stato, ma è il rimando alle possibilità dell’accaduto, cioè alle potenzialità inespresse in esso contenute. Nella II delle Tesi di filosofia della storia, Benjamin precisa: «felicità (…) è solo nell’aria che abbiamo respirato» – quindi nel passato – «fra persone a cui avremmo potuto rivolgerci, con donne che avrebbero potuto farci dono di sé. Nell’idea di felicità, in altre parole, vibra indissolubilmente l’idea di redenzione». (Ivi, pp.75-76) Quindi, in questi termini il rinvio al passato significa trasformare la sua necessità in possibilità, far diventare il passato qualcosa di non accaduto: un “non ancora” carico di ulteriorità, di eccedenza.

Quel che Benjamin chiama esperienza, Erfahrung coincide, allora, con il dispiegarsi attraverso l’immagine della memoria involontaria; si tratta di un’esperienza costitutiva del soggetto, che però in questo modo non è più da intendere come “soggetto” in senso tradizionale. Benjamin arriva a dire che l’individuo diventa «il teatro di un processo oggettivo», qualcosa che è esterno e interno nello stesso tempo.

Mi interessa mettere in luce come questo incontro con il passato sia una costellazione dove entrambi i termini della relazione subiscono una sollecitazione estrema che li mette in tensione con sé stessi,  facendo saltare le determinazioni consuete di soggetto e oggetto. Questo rapporto, che costituisce l’Erfahrung, è un rivolgersi al passato, in cui il soggetto della memoria involontaria non è più tale, perché dispiega una modalità di rapporto che non essendo appropriante, oggettivante, mette fuori gioco gli atti tipici della soggettività. Benjamin lo caratterizza come uno sguardo che non si può mai saziare o esaurire, perché ciò a cui si rivolge è lasciato essere se stesso, diventando non più un oggetto costituito da un soggetto, ma un fenomeno in grado di automanifestarsi.

Si sovrappongono in Benjamin, allora, la considerazione del passato e quella dell’opera d’arte: è come se noi lasciassimo al passato la sua aura, in una modalità di relazione che si dà come un’esperienza dell’altro, cui è concesso di restare nella sua lontananza e inaccessibilità. Si salva l’unicità e l’irrepetibilità del passato, in una prossimità che è anche distanziamento:  lasciar manifestare il passato significa permettergli di parlare da sé stesso, senza imporgli, in nessun modo, il nostro linguaggio.

Se noi pensiamo alle Pathosformeln di Aby Warburg, che costituiscono fondamentalmente il tessuto della memoria, confermandoci che la memoria è impossibile senza le immagini, capiamo che per Benjamin i mutamenti più grandi sono connessi all’eredità del passato. Warburg indagava una eredità decisiva, il permanere del paganensimo nella civiltà cristiana del Rinascimento. (4) L’innovazione del Rinascimento è inconcepibile senza questa eredità pagana, che rompe il cosmos medievale; si tratta di un lascito fatto di immagini che sono delle sopravvivenze, delle Nachleben, dotate di una vita postuma.  Ci deve allora apparire chiaro un punto fondamentale riguardante il nesso fra la memoria e le immagini, quest’ultime possono essere stereotipate, ripetitive, sempre uguali o possono al contrario essere creative, produrre un nuovo avvento di senso. Quel che è dirimente rispetto all’ambiguità costitutiva delle immagini è la modalità della loro sopravvivenza-riconfigurazione: se si producono in un atto che ha il carattere della memoria involontaria e dell’esperienza, esse diventano capaci di interrompere una tradizione, di fuoriuscire dal circoscritto perimetro di un orizzonte dato. Non si tratta allora di abbandonarsi a un unilaterale elogio delle immagini, contrapponendole unilateralmente ai concetti, ma di cogliere, di volta in volta, la loro scaturigine, valorizzandone così la capacità di indurre un riorientamento del nostro sguardo sul mondo.


Note

  • 1 – Benjamin W., Di alcuni motivi di Baudelaire,in Angelus Novus,trad.it., Einaudi, Torino,1981, p.130
  • 2 – Benjamin W.,Parigi.La capitale del XIX secolo, in Angelus Novus,p.152
  • 3 – Sulla connessione fra Benjamin e Warburg si veda Agamben G.,Nymphae,in “aut aut” n 321-322, 2004.
  • 4 – Su questo tema si veda: Agamben G.,Aby Warburg e la scienza senza nome in Id.,La potenza del pensiero,Neri Pozza, Vicenza, 2005.

Bibliografia

  • Agamben G., Nymphae, aut aut n. 321-322, 2004.
  • Agamben G., Aby Warburg e la scienza senza nome in Id., La potenza del pensiero, Neri Pozza, Vicenza, 2005.
  • Benjamin W., Sul concetto di storia, trad. it., Einaudi, Torino, 1997.
  • Benjamin W., Angelus Novus, trad. it., Einaudi, Torino, 1981.

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