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Sogno, trasformazione in allucinosi e introiezione

Rivista annuale a cura del Centro Italiano di Psicologia Analitica Istituto di Roma e dell’Italia centrale

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2022 Nuova Serie Numero 3 Incontri al CIPA

A CURA DELLA REDAZIONE La rubrica intende attingere ai vari momenti di confronto, di riflessione e di ricerca che hanno avuto luogo nel nostro Istituto. La possibilità di ritornarvi, dunque, grazie alla pagina scritta e di farsi traccia e testimonianza, nel tempo, di percorsi e dei fermenti della nostra Associazione.

Sogno, trasformazione in allucinosi e introiezione

Il sonno [il sogno1] riavvia la matassa scompigliata dell’affanno.
(W. Shakespeare, Macbeth, atto II, scena II)

Dubito molto che si possa pensare il sogno come qualcosa di diverso da quello che appare. Mi sento piuttosto incline a citare un’alta autorità ebraica, il Talmud, ove è detto che ‘il sogno è la sua propria interpretazione’. In altre parole io prendo il sogno per quello che è […] Il sogno è un fenomeno naturale. E non v’è ragione di credere che sia un abile artificio inventato allo scopo di trarci in errore. Il sogno sopravviene quando coscienza e volontà sono spente […] Senza contare che, data la nostra quasi completa ignoranza della psicologia del processo onirico, dobbiamo usare moltissima prudenza nell’introdurre nella spiegazione elementi estranei al sogno stesso.
(C.G. Jung, Psicologia e religione, p. 36)

Io intendo […] che il materiale conscio deve venire sottoposto al lavoro-del-sogno per renderlo idoneo all’immagazzinamento ed alla selezione e idoneo alla trasformazione dalla posizione schizoparanoide a quella depressiva […] Freud dice che Aristotele afferma che il sogno è ‘il modo in cui la nostra psiche lavora durante lo stato di stato di sonno’: io dico che è il modo in cui in cui funziona quando è sveglia.
(W.R. Bion, Cogitations. Pensieri, p. 62)

Sognare è la forma più libera, più inclusiva e più profondamente penetrante di lavoro psicologico di cui sono capaci gli esseri umani, realizzato attraverso una conversazione tra diversi aspetti della personalità.
(T.H. Ogden, Riscoprire la psicoanalisi, p. 123)

Premessa

Nel settimo capitolo de L’interpretazione dei sogni Freud (1899) intuisce e sottolinea un limite nella tecnica (e nella teoria) della psicoanalisi quando, di fronte ai possibili fallimenti dei processi di simbolizzazione tanto nel sogno quanto nella veglia, si viene a trovare confrontata con gli aspetti a-simbolici o non-ancora-simbolizzabili del funzionamento mentale primitivo (protomentale).

Sinora ci siamo preoccupati soprattutto di sapere in che cosa consista il senso segreto dei sogni, per quale via lo si rintracci e di quali mezzi si sia servito il lavoro onirico per celarlo. Sinora al centro dei nostri interessi stavano i compiti dell’interpretazione […] Soltanto dopo aver messo da parte ogni riferimento al lavoro di interpretazione [2], possiamo accorgerci quanto sia rimasta incompleta la nostra psicologia del sogno […] Finora, tutte le strade che abbiamo percorso portavano, se non mi sbaglio di molto, alla luce, alla spiegazione e alla comprensione piena. Ma d’ora in avanti, dal momento in cui decidiamo di penetrare più a fondo nei processi psichici del sogno, tutti i sentieri sfoceranno nel buio (pp. 466-467).

E il ‘buio’ a cui allude Freud sembra costituirsi come una memoria del futuro: anticipa e fonda le premesse per la ricerca psicoanalitica successiva. Quella di Bion, per esempio, quando viene a integrare al modello pulsionale freudiano la teoria kleiniana delle relazioni d’oggetto, nel tentativo di esplorare quel ‘buio’ attraverso la formulazione di una concezione intersoggettiva della mente. In questo senso, la mente non solo verrebbe concepita come un teatro di relazioni tra oggetti (parziali o totali) e parti del Sé, ma sarebbe anche una struttura essenzialmente duale, che ha bisogno di un’altra mente per potersi sviluppare, come se fosse una sonda capace di espandere il campo che esplora.

Bion, in sostanza, sembra ampliare l’ambito delle ricerche freudiane e offrire ulteriori chiavi per la comprensione dei disturbi primitivi del pensiero, aprendo nuove prospettive per la teoria e per la tecnica psicoanalitica.

In realtà, la ricerca bioniana si spinge oltre, ponendosi (e ponendoci) il problema di come raggiungere anche quelle condizioni della clinica in cui il paziente non sia neppure in grado di compiere un lavoro associativo o addirittura un lavoro verbale.

Così, accanto all’inconscio illuminato dalla fiamma simbolica della rimozione, Bion (1977) sembra pensare anche a un inconscio inconoscibile o, almeno, non-ancora-conosciuto perché non ancora generato dall’incontro dell’esperienza protomentale del bambino con quella dell’inconscio materno. Accanto all’inconscio pre-dato della filogenesi, potrebbe esistere allora un inconscio ontologico, che non è dato e che si crea nell’hic et nunc della relazione tra ambiente e bambino, allo stesso modo in cui può crearsi nella relazione tra paziente e analista.

Al limite, relativamente alla psicopatologia a esordio più primitivo e precoce, potremmo dire che tutto ciò che non può diventare inconscio rischia di rimanere sepolto – o addirittura di non poter nascere alla vita mentale – restando in attesa di essere recuperato, come una sedimentazione fossile o come un residuo paleontologico, in una matrice indifferenziata della mente.

Già Freud (1899), in un primo tempo, in una nota in margine all’interpretazione del celebre sogno dell’iniezione a Irma aveva fatto riferimento a qualcosa di ‘inconoscibile’ quando aveva osservato:

Sento che l’interpretazione di questo punto non si è spinta fino a raggiungere ogni significato celato […] Ogni sogno ha per lo meno un punto in cui esso è insondabile, quasi un ombelico attraverso il quale esso è congiunto all’ignoto [3] (p. 111, n. 2).

E ancora, nel settimo capitolo della Traumdeutung, aveva ribadito:

Anche nei sogni meglio interpretati è spesso necessario lasciare un punto all’oscuro, perché nel corso dell’interpretazione si nota che in quel punto ha inizio un groviglio di pensieri onirici che non si lascia sbrogliare, ma che non ha nemmeno fornito altri contributi al contenuto del sogno. Questo è allora l’ombelico del sogno [4], il punto in cui esso affonda nell’ignoto (pp. 479-480).

Nonostante queste profonde intuizioni, però, nell’opera di Freud, la teoria del sogno è rimasta sostanzialmente invariata.

Tuttavia Melanie Klein (1932), in un’epoca ancora contemporanea al maestro, per quanto ritenesse che occorreva analizzare il gioco infantile «nel modo in cui Freud ci ha insegnato a trattare il linguaggio dei sogni», aveva inaugurato anche un nuovo modello metapsicologico che avrebbe progressivamente cambiato le modalità di accostarsi al testo onirico, ricorrendo a interpretazioni sempre più sature e codificate, a detrimento di quegli aspetti di «narrazione imprevedibile» (Bezoari, Ferro 1997) e ‘necessaria’, costitutivi del pensiero freudiano.

Successivamente, con Bion (1962), il sogno prenderà un nuovo respiro creativo all’interno della coppia psicoanalitica, nella specifica «funzione di trasformare le esperienze (emotive e sensomotorie) della veglia in pensiero del sogno e di dare continuità alla vita mentale» (Mancia 1994).

Così, come osserva Mangini (2000), il sogno, da materiale ad alto tasso rappresentativo e a basso tasso di comunicazione (Freud 1899), è diventato una «modalità particolare della comunicazione tra paziente e analista» (Bezoari, Ferro 1997). Forse, potremmo dire, non la sola (unica) modalità della comunicazione psicoanalitica, ma il pattern o il framework di qualsiasi comunicazione tra paziente e analista che possa comprendere anche i sogni-interrotti o i sogni-non-sognati di Ogden (2005), oppure i non-sogni, i sogni-evacuativi (i sogni-scarica) e i sogni-crudi di cui parla Enrico Mangini [5].

In questo senso il sogno conserva il ruolo di materiale ‘speciale’ nel processo psicoanalitico, costituendosi da una parte come l’oggetto di un lavoro interpretativo aperto e insaturo (livello ermeneutico) e dall’altra parte come l’epifenomeno del funzionamento psichico del sognatore (livello epistemologico).

Non esiste però soltanto il livello intrapsichico: il sogno ‘fotografa’ accanto all’apparato psichico del sognatore anche il funzionamento della relazione analitica, è inserito cioè «in una logica relazionale» (Giaconia 1993), e sono noti i legami che il sogno instaura a livello interpersonale, o transgenerazionale, come nel caso, ad esempio, dei discendenti di persone sopravvissute all’olocausto che sognano al posto dei loro genitori le persecuzioni naziste (Barocas, Barocas 1979).

Queste considerazioni rimandano alla funzione che il sogno può arrivare a svolgere nel processo di cura e che Didier Anzieu ha metaforizzato nel concetto di involucro psichico, una struttura che verrebbe a comprendere «sia gli aspetti di funzionamento del paziente, sia del setting analitico, sia gli aspetti del controtransfert» (Anzieu et al. 1987). Il sogno può dunque essere il risultato di un processo di simbolizzazione che nasce dall’incontro paziente-analista (Nissim, Robutti 1992) e che consente un tentativo di elaborazione della relazione oggettuale (primaria) e delle angosce (perdita, separazione) che l’hanno accompagnata.

Il non-sogno, il sogno-non-sognato rimanda invece a una situazione più indifferenziata e fusionale di relazione con la madre, la cui assenza coincide con lo smarrirsi dell’Io del soggetto (la stessa assenza del sogno è indicativa della scomparsa di un contenitore-madre). Attraverso il filtro (estetico e semiologico) bioniano, l’attenzione agli stati primitivi e più indifferenziati della mente ha condotto la psicoanalisi a transitare verso una diversa concezione del sogno e del sognare. Così, siamo arrivati a considerare come il sogno non possa più essere inteso solamente nella versione riduttiva di ‘via regia’ per accostare l’inconscio nelle nevrosi (Lucas 2003), ma abbiamo imparato a pensare che sia il sogno stesso a creare l’inconscio. Per lo meno, nel senso in cui sono le rêverie e la funzione α della madre a generare l’inconscio del bambino. Il modello è quello di una relazione ♀↔♂, in cui tanto quanto il sogno sviluppa l’inconscio altrettanto l’inconscio sviluppa il sogno (inconscio↔sogno).

Inevitabilmente, l’inconscio post-bioniano è una rivisitazione dell’inconscio di Freud:

Bion – scrive il Grotstein più onirico e geniale (2009) – rivisita la concezione di Freud dell’inconscio assumendo che le ‘evoluzioni di O’ [6] […] costituiscano la principale forza interna all’inconscio, e non le pulsioni libidiche o di morte o aggressive. ‘O’ è ineffabile. Esso rappresenta l’Assoluta Verità sulla Realtà Ultima, l’infinito, i sistemi infiniti, il caos, i noumeni, le cose-in-sé, le preconcezioni innate (‘i pensieri senza un pensatore’, i ‘ricordi del futuro’), la circostanza pura, o la vita come è prima di codificarla. ‘Evoluzione’ significa che accade sempre dentro di noi e fuori di noi e che è inesorabilmente e inevitabilmente con noi (p. 25).

Nella diversa prospettiva di una ‘psicoanalisi neuroevolutiva’, anche Schore (2011) propone una ulteriore versione dell’inconscio: «piuttosto che essere un calderone in ebollizione di pulsioni non addomesticate – dice – è un coerente, implicito Sé che è la sede degli affetti e il generatore del significato emozionale».

Diviene allora evidente come le condizioni di non sogno e di sogno-non-sognato richiedano che al lavoro sul contenuto (l’interpretazione sistematica del transfert e dell’inconscio) venga anteposta l’attenzione allo sviluppo dei contenitori. La regolazione di questo Sé implicito, generatore di significati emozionali, si pone così al centro della psicoanalisi attuale (Schore 2011), poiché l’assenza di un sogno che funzioni da ‘involucro psichico’ richiede che la ricostruzione dell’identità del paziente avvenga attraverso esperienze affettivo-sensoriali che appartengono a un’area di ‘non-pensabilità’ (Racalbuto 1994) e che troveranno poi nelle tracce mnestiche un primo abbozzo di rappresentazione e di pensiero.

Quando non c’è sogno, e non c’è rimozione, dobbiamo pensare che vi sia un’attività psichica elementare, non rappresentativa, improntata alla scarica, composta dagli elementi β di Bion o, a un livello più evoluto, dai ‘significanti formali’ di Anzieu (1987) che sono presenti, per esempio, nei pazienti psicosomatici rappresentandone ‘la lotta per la sopravvivenza psichica’. Si tratta presumibilmente di immagini propriocettive, tattili, d’equilibrio, che hanno a che fare con una rappresentazione del Sé legata all’integrità narcisistica, difficilmente esprimibile se non in uno spazio bidimensionale.

«Forse questo – osserva ancora Grotstein (2009) – è l’ultimo scopo del sogno, la promessa di un pit-stop nell’eternità in modo che possiamo ritornare alle pene e alle gioie delle nostre avventure simmetriche con speranza» (p. 30). Il riferimento è chiaramente alla ‘bi-logica’ di Matte Blanco (1975): dobbiamo ritornare alla ‘simmetria’, alla ‘natura infinita’ dell’inconscio per poter tollerare l’asimmetria e il finito traumatico del Reale.

Così, i sogni ‘traumatici’ – forse i sogni sullo stato del sé, di Kohut (1971) – più che rappresentare, ri-presentano la scena del trauma, a testimonianza di un bisogno dell’apparato mentale di evacuare (scaricare) degli tsunami psichici (Bromberg 2011) non elaborabili con meccanismi di difesa e processi di pensiero più evoluti. Come ha osservato Missenard (1987), spesso,

il sogno ripete non l’incidente in sé stesso, ma gli istanti che l’hanno preceduto, ed è un tentativo per collegare i due tempi: quello del prima e del sentimento di invulnerabilità, e quello del dopo o la realtà della morte […] il sogno è un tentativo di riparare la breccia, non solo una prova di dominio dell’afflusso di eccitazione, prospettiva economica da sola insufficiente (p. 121).

Quindi il sogno traumatico funziona in parte come ‘scarica’ (e ciò si vede dal prevalere degli elementi percettivi), ma anche come ‘barriera di contatto’ (Bion 1962), quale tentativo di riparare la lacerazione narcisistica prodotta dal trauma e di sviluppare dei contenitori che siano in grado di trasformarla.

Come ci ha mostrato Bion, è l’attività creativa della funzione α che produce gli elementi α, unità (pittogrammi) che vanno a comporsi per creare la ‘barriera di contatto’, quella pellicola semi-permeabile che separa l’inconscio dal conscio e in ogni prodotto psichico ne regola momento per momento l’espressione relativa.

Se un’eccessiva pressione da uno dei due lati della barriera di contatto (lo slash della formula Inc/C), proveniente sia dal mondo interno sia dalla realtà fattuale, assume una qualità traumatica, impedisce il funzionamento adeguato della funzione α e del pensiero/sogno. Alla barriera di contatto si sostituisce allora lo schermo β, una membrana non permeabile di elementi β che separa in modo chirurgico l’inconscio dal conscio. Avremo così diversi tipi di sofferenza psichica, dal tutto-inconscio della psicosi e dell’allucinazione al tutto-realtà delle persone che sono tagliate via dalla propria interiorità e dalla linfa vitale delle proprie emozioni, dopotutto una forma più egosintonica ma non meno maligna di ‘psicosi’. I sogni che non suscitano associazioni e realtà essiccate dai sogni si equivalgono, «sono tutt’e due simili alle proliferazioni allucinatorie» (Bion 1992, pp. 123-124).

Lo psicotico, mancando della funzione di filtro della barriera di contatto, non può né sognare né essere sveglio. Il suo universo è strutturato più dall’equazione simbolica che dalla simbolizzazione (Segal 1957). Le parole sono trattate come cose. Il simbolo, invece, presuppone una distanza delle parole dalle cose, una pausa che equivale al vuoto puntiforme ma sostenibile dell’assenza dell’oggetto, alla percezione della presenza di un non-seno o di una non-cosa.

L’incapacità di sognare dello psicotico non vuol dire che non sogna la notte ma che non si sveglia (del tutto) dal sogno. Non riesce ad abitare contemporaneamente i due mondi del sonno e della veglia. Non distingue l’allucinazione dalla percezione, perché una veglia senza sogno è uno stato di allucinosi, mentre un sogno senza veglia è uno stato di allucinazione. La cosiddetta ‘normalità’ è la misura della capacità di oscillare tra veglia e sogno.

E se esistono sogni traumatici – forse, quelli che Kohut (1971) aveva definito ‘sogni sullo stato del Sé’ – esistono anche perché, con ragionevole certezza, è insita nel sogno la capacità di intercettare il traumatico e, attraverso il sogno, l’inconscio(-infinito) riesce a rivelarsi nella sua disposizione a trasformare gli sviluppi traumatici in progressioni oniriche (Manica 2014). Scrive Gaetano Benedetti (2011):

Il sogno sembra […] indicare esistenza di una dimensione trascendente, che va al di là della creatività stessa. Tuttavia mentre il sogno terapeutico è una singolarità, in quanto rara evenienza che consente l’accesso onirico al mondo segreto del paziente, la fantasia, molto più ubiquitaria, ci mostra come anche ai margini del sogno terapeutico si manifesti la qualità fondamentale dell’inconscio collettivo: il suo essere essenzialmente terapeutico! (p. 76).

Fantasia, inconscio collettivo: le suggestioni sono rispettivamente kleiniane e junghiane, ma le ho evidenziate semplicemente per attirare l’attenzione sulla possibilità di sostituire al termine di ‘fantasia’ quello bioniano di sogno-α-della-veglia, e al concetto di ‘inconscio collettivo’ quello di comunicazione inconscia o di inconscio condiviso (un’estensione delle searlesiane identificazioni inconsce), per fare della proposta di Benedetti una premessa ideale al mio discorso: il sognare come forma privilegiata di pensiero inconscio e la vita onirica, del sonno e della veglia, come luogo generativo del significato che può venire ad assumere ogni nostra esperienza emotiva.

Sogno e trasformazione in allucinosi

Se la psicoanalisi è nata con l’allucinazione, o meglio, attorno alla concezione del sogno come soddisfacimento allucinatorio di un desiderio inconscio, Bion (1965) ha portato alle estreme conseguenze la relazione tra onirico e allucinazione, formulando il concetto di trasformazione in allucinosi come concetto al limite tra il ‘fisiologico’ e il ‘patologico’ [7].

Così potrebbe darsi una possibilità di trasformazione in allucinosi (TA) che riporta, come sostiene Riolo (2001), al meccanismo psichico del diniego, della Verwerfung, di quella ‘forclusione’, intesa come rifiuto della realtà8, che Lacan (1955-56) ha posto nel cuore delle esperienze psicotiche.

E ancora, potrebbe esistere una forma di TA che diviene espressione della parte psicotica della personalità, impegnata nel tentativo di evitare il panico organismico attraverso l’evacuazione delle funzioni capaci di registrarlo e di percepirlo (Grinberg et al. 1972).

Si dà, però, anche l’eventualità che esista un versante della trasformazione in allucinosi che sia dotato di funzioni ‘fisiologiche’. E qui dobbiamo assumere, al di là del paradigma pulsionale (idraulico) o al di là del paradigma indiziario dell’analista detective dell’inconscio, un modello psicoanalitico intersoggettivo che si apra alla mesomeria9 (Manica 2013) con la relazione tra la madre e il suo bambino. Qui l’intuizione winnicottiana, secondo cui non esiste qualcosa come un bambino senza una madre (e viceversa), fonda la struttura della mente come relazionale e metasoggettiva. Qui, ancora, non esiste una dialettica del desiderio che prescinda dalla necessità del bisogno: e allora non possiamo non pensare che, ancor prima di intendere il sogno come un appagamento allucinatorio di desiderio, sia necessario ‘inconsciare’ (Bion 1992) il bisogno, rendere cioè sognabili agonie che concernono il vivere e il morire piuttosto che i conflitti attraverso cui si articola la dialettica tra piacere e dispiacere.

Winnicott (1955) ci ha portato a considerare come il differimento di un desiderio generi solamente frustrazione (un’esperienza emotiva tollerabile e che non costituisce alcuna minaccia per la sopravvivenza psichica) e come, al contrario, la mancata risposta a un bisogno sia in grado di precipitare un’angoscia di frammentazione. E Bion (1965) ci ha indicato una via per intercettare e trasformare l’O di questa angoscia: l’analista deve diventare l’esperienza emotiva che permea la seduta analitica, qualunque essa sia. E se l’esperienza del paziente è il non-pensiero dell’allucinazione, l’analista deve essere in grado di regredire (in senso formale piuttosto che temporale) all’allucinatorio del suo funzionamento psichico, per arrivare a depotenziare la fattualità traumatica che si è messa infaticabilmente in opera per svuotare la mente del paziente di ogni contenuto (♂).

Se, invece, l’esperienza psicopatologica è l’allucinosi, il pensiero non sognato, una forma di psicosi clinicamente sfuggente (ad esempio, un allucinare normotico in condizioni di buon adattamento), allora l’analista deve attivare la propria capacità di trasformazione in sogno (Ferro 2009)10 e di rêverie per rendere possibile al paziente l’esperienza di avere a disposizione un contenitore (♀) che sia in grado di accoglierne e trasformarne le angosce.

Dobbiamo a César e Sara Botella (1989) l’ampliamento della nozione di allucinazione, grazie allo studio di quello che hanno definito con il termine di allucinatorio. Secondo i due autori, l’allucinatorio non apparterrebbe al campo della patologia: si tratterebbe piuttosto di una modalità di funzionamento psichico virtualmente presente in ciascuno di noi, e che potrebbe essere attivata da un movimento di regressione formale del pensiero.

Così, quando l’allucinazione fa il suo ingresso nel campo analitico, può comparire tanto nel paziente quanto nell’analista, inducendo un movimento regressivo che, stante la messa in comune delle menti presenti (e delle loro parti psicotiche), è prodotto nel terapeuta dal contatto con il suo interlocutore.

Sembra proprio che sia il movimento di regressione a dare luogo a un lavoro di figurazione, di messa in immagini, di creazione di ‘personaggi’ ai quali il soggetto (paziente/analista) aderirà in misura diversa: durante il sonno, l’allucinatorio parteciperà alla formazione del sogno; nello stato di veglia, prenderà parte ai processi psichici quotidiani, coinvolgendosi nella vivacità dei ricordi così come contribuisce a risvegliare il sentimento di evidenza, di convinzione e di meità.

I fenomeni ‘quasi allucinatori’, l’‘allucinazione accidentale delle persone sane’, l’‘allucinazione isterica’, così come il sogno e l’allucinazione propriamente detta, fanno parte dell’onirico condiviso tra paziente e analista. E in questa prospettiva dobbiamo considerare come il sogno espanda le proprie funzioni e la propria essenza di contenitore (♀), diventando parte di uno spettro diffuso dell’onirico. Uno spettro che si vitalizza attraverso la possibilità di oscillare tra diverse ‘posizioni’: tra l’allucinazione (A) e le trasformazioni in allucinosi (TA), tra le trasformazioni in allucinosi e quelle in sogno (TS) e tra la rêverie (R) e il sogno (S): A↔TA↔TS↔R↔S.

Così, se la TA richiede di ‘svegliarsi’ (Civitarese 2014) dall’allucinosi, dalla Bugia del sintomo, la TS pretende invece di trattare intenzionalmente qualsiasi esperienza del paziente come se fosse un sogno; mentre la rêverie, R, reclama da parte dell’analista la consapevolezza che si stia sognando da svegli.

Rispetto al modello freudiano del sogno il cambiamento è radicale e implica la necessità di identificare nell’inconscio una funzione progressiva e non più solamente regressiva (Civitarese 2008; Jung 1936-41) [11].

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Sogno e introiezione

Sebbene dobbiamo all’intuito di Sandor Ferenczi (1909) l’arruolamento del concetto di introiezione al corpus teorico della psicoanalisi, sin dalle prime definizioni della propria scienza Freud aveva fondato il funzionamento della mente su di una dinamica prevalentemente introiettiva. In effetti, il modello proposto nella Traumdeutung (1899) presupponeva che l’analista intervenisse con le sue interpretazioni sull’intrapsichico del paziente, sulla sua organizzazione pulsionale, permettendogli di incorporare nuove conoscenze sulla propria vita inconscia e di sviluppare un diverso sapere sulle vicissitudini dei suoi desideri infantili. In appoggio al transfert, l’interpretazione consentirebbe così il transito, sul piano economico, dalle modalità del processo primario a quelle del processo secondario, mentre nel campo della rappresentazione porterebbe alla modificazione delle ‘identità di percezione’ in ‘identità di pensiero’ [12].

Il rilievo dato da Freud all’interpretazione sembrava presupporre una disposizione incorporativo-introiettiva (recettiva) della mente, e in particolare della mente adulta e nevrotica. E Ferenczi (1909) aveva, in effetti, operato una distinzione tra nevrosi e psicosi ritenendo che i problemi nevrotici fossero basati su un’introiezione eccessiva, mentre specularmente, quelli psicotici si sarebbero incentrati su un eccesso di proiezione. Così, l’ampliamento dell’applicazione della psicoanalisi alla psicologia infantile (ai bambini) e alle patologie più severe, ha portato Melanie Klein a focalizzare la ricerca sui meccanismi più precoci della formazione del sintomo e a integrare le dimensioni di un modello proiettivo della mente.

Nella prospettiva kleiniana (Klein 1946) hanno allora assunto un profilo rivoluzionario i processi di scissione e idealizzazione primaria, e l’invenzione geniale del concetto di identificazione proiettiva. Da quel momento, seppure in una prospettiva unipersonale, la libido, invece di ricercare il piacere, stava incominciando a ricercare l’oggetto (Fairbairn 1952).

E in questo slittamento di vertice – da un’idraulica della libido verso una centralità dei legami – veniva anche integrata una funzione relazionale delle proiezioni accanto a quella meramente difensiva. Così, a partire dal contributo kleiniano l’attenzione della ricerca psicoanalitica si è maggiormente incentrata sul ruolo svolto dai meccanismi proiettivi piuttosto che su quello realizzato dai movimenti introiettivi.

L’irripetibile intuizione kleiniana dell’idea di identificazione proiettiva aveva permesso di comprendere in una nuova chiave il fenomeno dell’empatia e di definire l’effetto terapeutico della psicoanalisi come capacità da parte dell’analista di ricevere le identificazioni proiettive del paziente, di modificarle dentro di sé e poi di ri-proiettarle sul paziente, consentendogli di introiettare non solo la parte di sé che aveva collocato dentro l’analista, ma anche quella parte della mente dell’analista che aveva compreso la proiezione ricevuta (Money-Kyrle 1956). Nella prospettiva bioniana, però, questa ‘comprensione’ non era sufficiente per realizzare autentiche trasformazioni e per affrontare la catastrofe implicata da ogni vero e proprio cambiamento. La cura analitica doveva posizionare il proprio vertice in O: nel nuovo, nello sconosciuto, nell’inconoscibile di qualsiasi realtà traumatica. E l’analista doveva diventare l’esperienza emotiva del paziente, la verità assoluta sulla sua realtà ultima, il suo O, spaventandosi senza disorganizzarsi, spaventandosi nell’attraversare aree poco conosciute della propria esperienza emotiva, ma senza troppa persecuzione. Prima di interpretare è allora necessario mesomerizzare, riuscire a essere in unisono (at-one-ment) con l’esperienza emotiva del paziente; è necessario sognare, nel sonno e nella veglia della seduta analitica, quei sogni-non-sognati o interrotti (Ogden 2005) che solo un terzo analitico intersoggettivo, nella sua qualità di nuovo soggetto creato dall’analisi, può sognare.

Laura e i ballerini

Laura, una paziente ormai alle soglie della conclusione della sua analisi, porta in seduta un sogno che sembra riassumere le progressioni del processo analitico. La scenografia onirica ha come location un congresso scientifico, in cui sogna di incontrare una coppia di ballerini. Laura sa che la ‘lei’ della coppia è incinta, mentre il ‘lui’, dopo una iniziale riluttanza, riesce ad accettare la presenza di questa nuova vita. Si trova allora a chiedere al ballerino che cosa lo abbia indotto a cambiare idea. E l’uomo, che ‘non è molto alto’ (l’analista) ma ha il fisico di un danzatore, senza parlare, le mima con il corpo tutto quanto ha provato: la sorpresa, lo spavento, il dubbio, il sorriso, la gioia e, poi, un’infinita tenerezza. È così che Laura capisce che cosa significhi sentirsi veramente amati, ancor prima di nascere, per il fatto semplicemente di esistere e di essere ciò che si è.

E in una seconda scena del sogno, si trova sempre al convegno, e incontra un ‘anziano e saggio professore’. Si accorge che con lui può discutere del senso e del mistero della vita: ascolta ‘cose’ che sente che la possono aiutare a dare più senso alla propria esistenza; non solo le condivide, ma percepisce di poterle fare sue in un senso che le rende personali e soggettive.

Forse è davvero così, è necessario un primo tempo del lavoro analitico, quello dell’unisono, quello delle mesomerie oniriche (Manica 2013), quello della rêverie e della funzione α, quello dello sviluppo dei contenitori (♀) o, addirittura, quello della trasformazione in allucinosi, affinché si possa accedere al secondo tempo, al livello dell’interpretazione dei contenuti (♂). Ci vuole l’area della terzeità intersoggettiva, della transizionalità, del gioco, del sogno perché, secondo l’adagio di Cristoforo Colombo, «il mare conceda a ogni uomo nuove speranze, come il sonno porta i sogni».

Senza un contenitore (♀), senza un apparato per introiettare, anche le interpretazioni più raffinate e meglio ‘cucinate’ (Ferro 2007) – sia che si tratti di caïlles en sarcophage o di tournedos alla Rossini – sono irricevibili e indigeribili per la mente infantile e, comunque, per una mente per nulla o poco differenziata.

Ma ascoltiamo direttamente Bion (1967):

La coscienza, intesa nel senso ristretto datole da Freud e nella quale si designa […] la rudimentale coscienza del neonato, non ha ancora il suo complemento inconscio; vale a dire che tutte le impressioni sensoriali riferite al Sé rientrano nella stessa categoria: tutte sono coscienti. L’organo recettore di questa massa di dati sensoriali sul Sé raccolti dal neonato per mezzo del suo conscio è costituito dalla facoltà di ‘reverie’ della madre (pp. 177-178).

Bion ci suggerisce così che il conscio protomentale deve potersi inconsciare, trasformare in sogno affinché una coscienza embrionaria incominci a esistere. E questo processo è strettamente collegato alla presenza di un’altra mente: originariamente, alla presenza della capacità di reverie della madre, associata all’amore per il bambino. Perché senza reverie o senza una reverie associata all’amore (L), si genera una mancanza che, sebbene per lui incomprensibile, viene comunicata al bambino.

E in questo senso la reverie costituisce un fattore della funzione α della madre, che le permette una totale apertura ricettiva a qualsivoglia identificazione proiettiva proveniente dal bambino e, non solo consente la trasformazione delle sue emozioni intollerabili, ma gli trasmette anche il ‘metodo’ per trasformarle: cioè, dota il piccolo d’uomo della sua funzione α, e dunque della possibilità sia di sognare sia di essere cosciente.

Nel suo essere un ‘organo’ dipendente dalla funzione α che trasforma le informazioni sensoriali in elementi α e provvede la psiche di materiale per la formazione di pensieri onirici, così come la capacità di dormire o destarsi, di essere conscio o non conscio di una cosa e di avere coscienza di se stessi in base all’esperienza del proprio Sé, la coscienza – raggiunta mediante l’esperienza relazionale della reverie materna – diventa a tutti gli effetti co-scienza onirica. Bion non ha avuto esitazioni nel ribaltare il paradigma psicoanalitico relativo alle interazioni tra conscio e inconscio e nello stabilire quindi una diversa relazione tra il sognare e i processi introiettivi, quei processi cioè attraverso i quali diventiamo consapevoli del mondo della vita e di noi stessi.

Penso – scriveva in Cogitations (1992) – che la paura dei sogni debba aver parte nel rendere il paziente ansioso di evitare il lavoro-del-sogno dello stato conscio. Dovrebbe essere semplicemente l’introiezione che viene evitata? No: perché, secondo me, il paziente pone in essere il processo di introiezione ‘sognando’ gli eventi mentre essi accadono. La formula sarebbe Introiezione ─ ) ─ Sognare (p. 62).

E Bion specifica anche come a rendere ‘preciso’ e ‘concreto’ questo processo di implicazione ─ ) ─ sia proprio il lavoro-del-sogno α, del sogno notturno, ma soprattutto del sogno della veglia. È questo lavoro che permette ai sentimenti di essere ‘ideogrammaticizzati’ e quindi verbalizzati, pensati e resi autenticamente coscienti.

Come si interiorizza allora un oggetto che sia personale e creativo?

Beatrice e lo Spirito Santo

Beatrice, giunta a uno stadio evoluto della sua analisi, sogna di trovarsi in montagna. E la ‘montagna’, nelle geografie analitiche, si è costituita sempre più come un luogo delle origini, delle possibilità di una nuova nascita e di un nuovo inizio (di un new beginning, nel senso di Balint). La ‘montagna’ era, via via, diventata il luogo in cui sentirsi ospitata dentro la mente dell’analista; in cui sentire di poter ospitare (introiettare) un nuovo oggetto interno ispirato e creativo; in cui dar vita a un’inedita soggettività transizionale (e ogdenianamente ‘terza’), composta dallo sviluppo delle comunicazioni inconsce tra paziente e analista.

Così, nello scorrere delle sequenze oniriche Beatrice sogna una ‘arrampicata verso la vetta’. Ma, invece di arrancare si sente ‘leggera’, è come se si sentisse ‘sostenuta’: vede stambecchi e camosci che scalano irte pietraie senza fatica, e anche la montagna sembra facilitarne la corsa, senza creare ostacoli o opporre resistenza; anche lei si sente un camoscio o uno stambecco che ‘danza con le rocce’.

D’emblé commenta: ‘Lei mi ha trasmesso il suo spirito…’. E le sue prime associazioni rimandano a quel passo del Vangelo di Giovanni in cui Gesù, il Cristo, (o più laicamente) il Nazareno, comunica ai discepoli rattristati che deve lasciare questa terra:

Ora io vi dico la verità: è bene per voi che io me ne vada, perché se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore; ma quando me ne sarò andato, ve lo manderò (Giovanni 16,7).

 Il ‘Consolatore’, lo Spirito Santo, sembra diventare qui l’oggetto di un’introiezione, l’oggetto di una holding che sostiene (Winnicott 1989). E l’esperienza di essere ‘sostenuti’ non è semplicemente riconducibile al fatto di trovarsi tra le braccia di un oggetto primario. Qui la ‘montagna’ si trasforma e si fa partecipe dell’esperienza di diventare un ambiente facilitante: di essere, nei termini di Balint (1968) quella ‘terra’ che regge chi cammina o l’‘acqua’ che sostiene il nuotatore. Ma ancora di più, la ‘montagna’ che ‘trasmette il suo spirito’, va oltre le definizioni classiche dell’interpretazione e va oltre le ‘parole che toccano’ (Quinodoz 2002). Perché è necessario che il paziente riesca a sentire di averci ‘toccati’ per poter ricevere qualcosa che dia senso, verità e credenza alla sua esperienza emotiva: anche a quelle esperienze protoemotive e protosensoriali, più anomiche, più afasiche, e più traumatizzate per il fatto di non essere mai state ospitate dall’inconscio dell’oggetto. O meglio, dall’inconscio di un ambiente materno/paterno in cui i germogli di una vita mentale dovrebbero potersi radicare, per stabilire una connessione con quelle matrici simboliche originarie a cui è stato ontogenicamente affidato il compito di sognare e di comprendere il sogno (Grotstein 2000).

 

Note

  • [1 ]L’inciso è una mia libera e ‘abusiva’ estensione del testo originale.
  • [2] Il corsivo è mio
  • [3] I corsivi sono miei.
  • [4] Il corsivo è mio.
  • [5] I sogni-scarica di Mangini (2000) sono accostabili, in senso metaforico, ai sogni ‘evacuativi’ descritti, ad esempio, da Bion, dalla Segal (1991) e da Mancia (1987), così come ai sogni ‘crudi’ individuati da Marty (1984) all’interno del suo discorso sul pensiero operatorio e sui disturbi psicosomatici come espressione di una fondamentale alessitimia.
  • [6] Per una concettualizzazione di ‘O’ si veda anche la nota 3.
  • [7] In effetti, l’idea di Freud (1899) che l’allucinazione primitiva potesse generare un’identità di percezione, per cui il bambino sarebbe stato in grado di ‘allucinare’, di collegare a una scarica eminentemente soddisfacente la rappresentazione della mancanza di un oggetto elettivo (il ‘seno’), sembrava presupporre un funzionamento della mente infantile troppo sofisticato dal punto di vista delle sue competenze simboliche.
  • [8] Per quanto nei testi freudiani diversi termini – come Ablehnen (ricusare), Aufheben (abolire, sopprimere), Verleugnen (rinnegare, denegare) – vengano usati in senso affine a quello Verwerfen (rifiutare), la definizione di forclusione adottata da Lacan sembra porre l’accento non tanto sulla mancanza di un contenuto (il pene nella bambina) quanto sulla mancanza di un contenitore (la castrazione invece del sostegno). Allora dovremmo pensare alla Verleugnung come al diniego dell’assenza di un contenuto (♂) e alla Verwerfung come al rifiuto dell’assenza di un contenitore (♀): perversa la prima, indubbiamente psicotica la seconda.
  • [9] Nel campo della chimica per mesomeria si intende una risonanza dal punto di vista formale della struttura molecolare di un composto, tra due o più formule limite che ne rappresentano gli isomeri.
  • [10] Seguendo le indicazioni di Ferro (2009), la trasformazione in sogno consiste nell’anticipare a qualsiasi comunicazione del paziente la formula ‘magica’: ‘Ho sognato che…’. La conversazione onirica (ogdeniana) tra paziente e analista può allora essere considerata come la continua monitorizzazione della trama di identificazioni proiettive che tessono il campo analitico.
  • [11] In fondo Jung (1936-41), in Seminari. I sogni dei bambini, aveva anticipato le più attuali concezioni sul sogno (Ogden 2005, 2009; Grotstein 2000, 2007; Ferro 2009; Civitarese 2013; Manica 2021, 2022) sostenendo come l’analista piuttosto che interpretare le libere associazioni del paziente dovesse sognarle, amplificandone (amplificatio) il significato attraverso l’attività del proprio inconscio, invece di ridurlo secondo il procedimento logico della ‘riduzione alla prima figura’ (reductio in primam figuram) suggerito dal modello di interpretazione freudiana. «Se […] tramite le libere associazioni – scrive Jung – vi imbattete in un complesso, ciò non significa che esso sia presente anche nelle immagini del sogno. Ne ho concluso che questo metodo non è applicabile, perché il fatto che ci si imbatta infallibilmente nei complessi non vuol dire che quegli stessi complessi siano contenuti nei sogni. Potrebbe essere perfino che l’inconscio si debba liberare proprio di quei complessi al fine di potervi entrare in contatto! Forse è proprio questo il lavoro dell’inconscio! I complessi sono dei veri guastafeste, ed è possibile che l’inconscio stesso sottolinei il funzionamento naturale e cerchi di guidarci fuori da quella trappola per topi che sono i complessi […] I complessi bloccano l’individuo, lo rendono sterile e monomaniacale. Non ci vuol molto a supporre che la natura stessa cerchi di tirar fuori la persona da quel circolo vizioso» (ivi, p. 23).
  • [12] La mente alle sue origini, in assenza dell’oggetto, allucinerebbe il seno (la madre) per ritrovare una percezione identica all’immagine dell’oggetto risultante dall’esperienza di soddisfacimento; mentre nelle stesse condizioni, una mente più evoluta cercherebbe nell’identità tra i pensieri il riferimento a quelli riconducibili alla rappresentazione di una presenza dell’oggetto assente o perduto. In fondo, il lavoro dell’interpretazione dovrebbe tradurre in ‘rappresentazioni di parola’ consce/preconsce le ‘rappresentazioni di cosa’ che abitano l’inconscio (Freud 1915).

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