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Sincronicità del futuro

Rivista annuale a cura del Centro Italiano di Psicologia Analitica Istituto di Roma e dell’Italia centrale

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2023 Nuova Serie Numero 4 Ricerche Teorico Cliniche

A CURA DELLA REDAZIONE Ricerca e terapia costituiscono un binomio inscindibile nel pensiero junghiano, tutto spostato sul momento centrale dell’esperienza. La rubrica ospita note, sintesi, riflessioni e quant’altro delle attività svolte dai gruppi di lavoro presenti all’interno del nostro Istituto.

Sincronicità del futuro

Ho presentato questo scritto il 7 maggio 2023 presso il Centro Italiano di Psicologia Analitica (CIPA) di Roma, in occasione dell’ultimo incontro del Laboratorio di storia della psicologia dinamica e indirizzi teorici della psicoterapia. L’articolo è la mia personale rielaborazione di un’intervista che ha come protagonisti due figure storiche della psicologia del profondo: Wilfred Bion e Carl Jung. Il loro è un dialogo postumo, per bocca di chi ha raccolto l’eredità che ci hanno lasciato. Eppure, nell’ottica della formazione di giovani psicologi analisti, è anche un dialogo prospettico, poiché offre nuovi stimoli per il futuro. Ringrazio per la pazienza le classi del primo biennio 2023 e il dottor Stefano Cecchini per la fiducia accordatami.

Nella storica intervista Between Bion and Jung: A Talk with James Grotstein (Culbert-Koehn 1997), lo psicoanalista californiano dialoga con la storica presidente del C.G. Jung Institute of Los Angeles, JoAnn Culbert-Koehn, da sempre interessata all’integrazione della psicologia analitica con le altre psicoanalisi, in particolare quelle kleiniana e bioniana. E proprio di quest’ultima corrente si fa portavoce James Grotstein, prima in supervisione e poi in analisi con Wilfred Bion in persona.

L’intervista è un concentrato di stimoli suggestivi, oltre che una testimonianza del fatto che, spesso, pensatori che vivono all’insaputa l’uno dell’altro, possono diventare i protagonisti di un dialogo fecondo. Anche se, a volte, ricade sui posteri il compito di dare voce a tali autori, che, nel caso specifico, si sono perfino incontrati in una conferenza alla Tavistock di circa novant’anni fa (Jung 1935)…

Non è mia intenzione offrire una sintesi lineare di una conversazione ormai storica, poiché ne verrebbe soltanto una versione diminuita dell’originale. Preferisco, invece, presentare in modo trasversale i nuclei che hanno stimolato maggiormente la mia fantasia. In questo modo, spero di aprire nuove finestre di dialogo sull’intreccio di due prospettive che, seppure dotate di una propria identità ben definita, possono – e devono! – coesistere in nome del principio di complementarità.

Inconsci più ampi

Un punto fondamentale dell’asse Bion-Jung è la rivoluzione del concetto di inconscio. Nella prospettiva classica, sebbene Grotstein ammetta che Freud avesse implicato un rapporto circolare tra coscienza e inconscio (Culbert-Koehn 1997, p. 16), ciò non è mai stato espresso chiaramente. Al contrario, ‘dov’era l’Es, deve diventare Io’ è un modo molto eloquente di dire che le ‘due forme del pensare’ sono destinate all’antitesi. Questa visione conflittuale ha impedito per lungo tempo di riconoscere gli aspetti creativi dell’inconscio, che invece sono stati ampiamente valorizzati sia nella psicologia analitica sia nella psicoanalisi di matrice bioniana.

Un esempio sono la Griglia di Bion e la funzione trascendente di Jung, due modi diversi di affermare che non esiste nulla di inconscio che non sia conscio e viceversa. E se i due linguaggi sembrano incompatibili non c’è da temere: come riporta Grotstein, «[Bion] afferma che i miti sono sistemi scientifici; sono congiunzioni costanti di esperienze anteriori»[1] (ibidem). Del resto, l’indeterminatezza della realtà fu intuita dai saggi di ogni tempo – induismo, buddismo zen, taoismo – per poi essere addirittura teorizzata dai fisici quantistici nella prima metà del secolo scorso.

Quest’apertura a orizzonti lontani, se da un lato offre una visione dell’inconscio più ampia rispetto alla sua variante ortodossa, dall’altro rischia di creare una gran confusione. Non a caso, Bion e Jung hanno la nomea di mistici in senso spregiativo, ovvero di autori pieni di contraddizioni e oscurità. E lo saranno pure, ma come ricorda Grotstein non si tratta necessariamente di un aspetto negativo, quanto di un atteggiamento coerente con la consapevolezza che la realtà «che vediamo e conosciamo è limitata dai nostri stessi sensi» (ivi, p. 18).

Sebbene il primato di autore analitico mistico sia di Jung – Grotstein lo considera tale insieme a Bion, Lacan e Winnicott (ivi, p. 30) –, l’analista di origini indiane non è da meno quanto all’aver ampliato il raggio d’azione della psicoanalisi classica. Infatti, dopo la dolorosa rottura con la sua maestra, Melanie Klein, Bion ha considerato l’angoscia dell’ineffabile come la paura fondamentale degli stati psichici che travalicano i ristretti confini della nevrosi, una paura che va «ben al di là delle angosce paranoidee, schizoidee e depressive» (ivi, p. 21).

Sollevare il velo di Maya sulla realtà ultima è un’operazione rischiosa, perché significa mettere da parte una visione del mondo rassicurante, fatta di modelli che non coincidono mai con la realtà stessa. Come gli archetipi junghiani non sono altro che forme vuote, le preconcezioni di Bion – i ‘segni d’immortalità’ ripresi da Wordsworth – sono qualcosa di perennemente al di qua della cosa in sé: impossibili oggetti di conoscenza perché eternamente soggettivi (ivi, p. 29).

Questo sguardo sull’ignoto non può che dare le vertigini. Del resto, neanche il linguaggio mitico e quello matematico possono rendere conto dell’ineffabile. Ma è importante che entrambi gli autori diano così tanto peso al terzo occhio/orecchio, che dir si voglia, ovvero all’intuizione come atteggiamento di indagine interiore. Perché, se la realtà esterna è un velo di Maya, non resta che rivolgere lo sguardo all’interno, accecare volontariamente i sensi per vedere oltre l’inganno, ‘senza desiderio e senza memoria’ – altra celebre espressione bioniana di T.S. Eliot.

Nel gergo di Bion, vagare per i nuovi paesaggi dell’inconscio, limitando gli autoinganni di ricordi e desideri, significa avere Fede. Ma non in senso religioso, poiché, proprio come in Jung, il numinoso non è appannaggio di una determinata confessione, ma è parte integrante dell’esperienza umana: qualcosa che la precede, la permea e la trascende.

Come racconta James Grotstein a Culbert-Koehn, «la fede era nella coerenza» (ivi, p. 21), ovvero nell’idea di Bion che è possibile sostare nell’ignoto senza perdersi – e senza l’aiuto dei falsi dèi di modelli preconcetti. Parafrasando il leitmotiv del lungometraggio Tenet, di Christopher Nolan (2020), significa avere fede nella realtà stessa delle cose. Poiché persino l’inconscio, per quanto misterioso e insondabile, ha una sua coerenza. Il fatto che ci sfugga non vuol dire che non esist

Supremazia empirica

Bion e Jung, nonostante il rimando a sistemi di riferimento che non possono essere più distanti da quelli dell’uomo della strada – mitologia, alchimia, spiritismo, matematica –, sono due esploratori dell’inconscio con i piedi ben piantati a terra. La materia psichica, in apparenza così astratta, viene approcciata prima di tutto attraverso l’esperienza. Non è l’oggetto di studio che va assimilato alla propria teoria di riferimento, ma la ‘religione del terapeuta’ a doversi accomodare ai dati che la realtà stessa gli fornisce.

In Jung, l’empiria è la stella polare che guida il ricercatore in ogni suo passo. Una cornice entro cui è possibile approcciare qualsiasi precipitato dell’attività mentale, perfino l’ineffabile del sentire religioso. Infatti, anziché selezionare i fenomeni umani analizzabili secondo un criterio di maggiore parsimonia – operazione che costringerebbe a ignorare qualsiasi aspetto indigesto alla teoria di riferimento –, lo psichiatra svizzero fece di tutta l’esperienza umana la sua fucina. Una visione sintetizzata nel suo ‘Psiche = Mondo’ come manifesto di una conoscenza che non vuole dare nulla per scontato – nemmeno i testi alchemici del rinascimento tedesco.

Per quanto riguarda Bion, invece? Apprendere dall’esperienza (Bion 1962) è una delle sue opere più significative: e il titolo dice già molto. Ma un aneddoto – che spesso vale più di un intero saggio – testimonia l’immenso valore che l’esperienza diretta aveva per lui. Grotstein ricorda come il suo primo incontro non fu col Bion analista, ma supervisore:

Non gli piaceva nemmeno il termine. A causa della sua esperienza nella Prima Guerra Mondiale, pensava che i supervisori al quartier generale sapessero cosa stava accadendo meno degli uomini in trincea, a prescindere dalla loro esperienza (Culbert-Koehn 1997, p. 18).

Insomma, stare su una torre d’avorio non era proprio l’atteggiamento preferito di chi aveva conosciuto gli orrori dei campi di battaglia. Così, come clinico, Bion era scettico rispetto al lavoro con esperienze di seconda mano, dove il rischio di ergersi a giudice di qualcosa che non si conosce è ancora più alto di quanto non sia già normalmente. Al contrario, come analista si conferma una figura estremamente coinvolta nella relazione terapeutica, tanto che Grotstein lo reputa un «comandante sul campo dell’inconscio» (ivi, p. 19), molto interpretativo e disciplinato, «come in una campagna militare, ma per la Croce Rossa» (ivi, p. 20).

E, a proposito di interpretazione, l’autore californiano ci tiene a sottolineare come gli interventi del maestro fossero sempre precisi, finalizzati a mettere in luce non tanto le angosce più primitive – più distanti dall’esperienza immediata e, quindi, più a rischio di speculazioni – quanto quelle più evidenti. Un elogio della tecnica interpretativa nel qui e ora della stanza di analisi, vicina alla realtà del paziente e, per quanto possibile, esente dalle preconcezioni del terapeuta. Lo afferma Culbert-Koehn quando cita le Brazilian Lectures: «Di teorie si legge e si parla facilmente. La pratica della psicoanalisi è tutt’altra storia» (ibidem).

Scienziati dell’Oltre

Stare sui fatti significa integrare clinica e teoria: Carl Gustav e Wilfred Ruprecht lo sapevano bene. E come promotori dell’integrazione a tutti i livelli, non hanno potuto esimersi dal lavorare nelle terre di confine, tra l’immaginario di Oriente e Occidente. Allargare l’orizzonte psichico, infatti, significa uscire da una logica europocentrica – e poi americocentrica – di matrice positivista, per ricercare le somiglianze a partire dalle differenze.

Come ha ricordato James Grotstein (Culbert-Koehn 1997, p. 22), Bion e Jung erano individui ingombranti, dalla personalità così prorompente da suscitare una sorta di timore reverenziale perfino nei propri analizzandi. Ma la loro erudizione non era messa al servizio del regno limitato della coscienza: hanno mirato più in alto e più in profondità. La ricerca di una verità che trascende sé stessa, in effetti, fa dei due analisti qualcosa di simile a una guida religiosa, oltre che a degli scienziati. Non per niente, Grotstein stesso confessa: «A volte avevo l’impressione di essere in presenza del Dalai Lama» (ivi, p. 23).

Sopra ho detto del misticismo come approccio alla realtà che avvicina i due autori, ma c’è un elemento ancora più fondante che li accomuna: la sofferenza. Per chi si forma in un istituto junghiano, è abbastanza noto che la vita dello psichiatra svizzero fu tutt’altro che spensierata. Si cita spesso Il libro rosso (Jung 2009) come esito di un crollo psicotico creativo, un’esperienza di morte e rinascita paragonabile a quella che, dagli albori dell’umanità, caratterizza gli individui particolarmente sensibili a ciò che trascende la realtà dei sensi – sciamani, guru, monaci, eremiti.

Anche Bion, che ha nella trilogia Memoria del futuro (Bion 1975, 1977, 1979) il suo Liber novus, subì la sua buona dose di sofferenza: le atrocità della Grande Guerra, ma anche il rapporto conflittuale con Melanie Klein. Grotstein ricorda come fece pagare mesi di terapia a Bion, nonostante l’epatite virale gli avesse impedito di presentarsi ai colloqui… per poi non farsi trovare quando egli si ripresentò dopo la guarigione – per non parlare dei feroci attacchi alle idee sulle dinamiche di gruppo (Culbert-Koehn 1997, p. 23).

Due guaritori feriti, in altre parole. E se l’essere terapeuta dipende prima di tutto dalla propria equazione personale, non c’è da sorprendersi se questi mentori di discepoli indesiderati – ebbene sì: per loro, non sarebbero dovuti esistere né junghiani né bioniani – hanno dedicato la propria esistenza a inseguire orizzonti ben al di là di quelli delle altre psicoanalisi. In riferimento a Bion, Grotstein scrive:

Ha fatto buon viso a cattiva sorte e ha utilizzato il suo sé nudo e crudo come uno strumento curativo. Questo era il suo genio o, dovrei dire, la sua trascendenza e la sua iniziazione, credo, allo spirituale, all’ineffabile, non in modo sentimentale: non è mai stato sentimentale al riguardo (ivi, p. 24).

È la ricerca di una via d’uscita dal «campo di concentramento virtuale» che ci rende soli davanti alla sofferenza e alla morte (ibidem). Un modo di combattere l’inermità che si prova dinnanzi al Reale, mettendo la propria sofferenza in comunione con quella altrui: l’at-one-ment, l’unisono. Tanto che Grotstein parla di una posizione ulteriore rispetto a quelle teorizzate da Klein e riprese da Bion: «Nella misura in cui possiamo amare ed essere amati e farlo in sicurezza, possiamo avventurarci o trascenderci in quella che chiamo la posizione trascendente» (ibidem).

Di certo non è un compito facile integrare l’essere scienziati con l’essere visionari. Come sottolinea Culbert-Koehn, «sia Jung sia Bion hanno davvero combattuto» (ivi, p. 28). Con sé stessi, prima di tutto, poiché conciliare due aspetti della personalità apparentemente incompatibili – la parte dell’osservazione scientifica e quella dell’intuizione visionaria – comporta un conflitto di non facile risoluzione. Forse è proprio grazie al profondo rispetto delle due polarità che entrambi gli analisti hanno potuto dare nuova voce alla scienza del profondo. Dice Grotstein:

Entrambi gli uomini erano visionari e scienziati che credevano, al tempo stesso, nel metodo scientifico e nella realtà visibile o sensuale, per metterla in secondo piano quando hanno intuito che c’era qualcosa di più vasto. Questa è una delle ragioni per cui Jung si è interessato ai miti e Bion all’estetica ed entrambi al religioso che permeava l’intero pattern, un pattern di cui si può cogliere solo uno scorcio (ibidem).

Todo y nada

 Uno dei capisaldi del tardo Bion e dei post-bioniani in generale, strettamente legato alla trascendenza di cui parla Grotstein, è O. Una rivoluzione in campo analitico almeno quanto lo «zero, una delle grandi scoperte della civiltà occidentale» (Culbert-Koehn 1997, p. 24), lo è stato in quello matematico. Questo perché lo zero indica la presenza di una non-cosa, ovvero un’assenza.

L’analista californiano vede nella teorizzazione di O il precipitato della madre cattiva di kleiniana memoria, con la differenza che «Bion ha matematizzato Klein, affermando che il neonato vede l’assenza del seno come una non-cosa positiva, O, ovvero un seno cattivo» (ivi, p. 25). Tollerare l’assenza, ovvero il seno cattivo e i pensieri negativi su di esso, è l’anticamera della posizione depressiva: il simbolo dell’assenza stessa. Quando la non-cosa diventa nulla (ibidem).

Non è un passaggio semplice, ma è fondamentale per comprendere il valore clinico dell’insaturità del terapeuta, un atteggiamento che sembra di casa anche nella psicologia analitica, da sempre considerata scienza debole, se paragonata alle altre psicoanalisi. Eppure, essere capaci di tollerare il vuoto che O simbolizza, sviluppare le ‘capacità negative’ – stavolta è a John Keats che Bion è debitore – vuol dire «confrontarsi con lo spazio dove prima c’era un seno, dove ora dovrebbe esserci ma non c’è, e dove si spera che potrà tornare ancora» (ibidem).

Questo transitare dalla non-cosa, al nulla, alla sua rappresentazione (O), sembra paragonabile all’elaborazione del lutto alla base del processo terapeutico. L’approdo finale è sintetizzato da Bion con una parola: fede. Una fede laica, è bene ribadirlo, che dà la misura di quanto l’analista mistico-matematico reputi cruciale l’ambito spirituale, dell’invisibile e dell’ineffabile, per la cura dell’anima.

Colui che si lascia saturare dai preconcetti, tutte le non-cose che crede di conoscere, è un clinico che abdica alla fede e scambia il Dio del possibile con l’idolo del già noto. Accecato da una falsa conoscenza, il terapeuta non è più identificabile col seno che fu e che forse sarà, ma con l’oggetto persecutorio la cui presenza negativa fallisce nel diventare assenza: «La madre buona assente diventa la madre cattiva presente» (ibidem).

In altre parole, ‘esperire essere O’ significa porre il vertice psicoanalitico nell’ignoto, non nella conoscenza. Nell’incertezza, non nella certezza. Nell’insaturo, non nel saturo. L’O/zero è un vertice matematico/algebrico a tutti gli effetti per Bion, il punto d’intersezione degli assi della sua Griglia – una sorta di matematizzazione dell’esperienza mentale –, dove il piano orizzontale rappresenta i pensieri e il loro sviluppo (♂) e quello verticale il dispiegarsi della «mente che pensa i pensieri» (♀). Come punto di partenza e di arrivo dell’esperienza psichica, O si fa prerequisito e mèta ideale di ogni trasformazione. È la possibilità stessa della trasformazione che, ricorda Grotstein, «rappresenta tutto e niente» (ibidem).

Todo y nada (tutto e niente), non a caso, è l’espressione con cui Juan de la Cruz, mistico spagnolo del ’500 e autore de La notte oscura dell’anima, si pronuncia rispetto al segreto della divinità. Un segreto appunto, cui ci si può approcciare soltanto con la ‘fiduciosa speranza’ della sua inconoscibilità. Proprio come al Sé junghiano, centro sfuggente di ogni individuazione che, al pari di O, simbolizza «un punto infinitesimale che rappresenta l’infinito matematico» (ibidem).

Fede nell’integrazione

Il Daiji, sintesi di yin e yang, è il simbolo dell’unità suprema nella cultura cinese. È un esempio di coesione intesa, non tanto come blocco indivisibile, ma come coniunctio, congiunzione di princìpi complementari. Jung, nella sua continua ricerca di rappresentazioni sufficientemente adeguate della psiche, approda all’idea dell’integrazione dei contrari come equilibrio dinamico.

Questo pensiero, del resto, era già ‘in cerca di pensatore’ sei secoli prima di Cristo in quel di Efeso, antica Grecia, fra Oriente e Occidente. Allora, il filosofo presocratico Eraclito parlava di enantiodromia, la ‘corsa degli opposti’, e intuiva gli equilibri della materia che poi Jung avrebbe ipotizzato anche per il funzionamento mentale – per esempio, ispirando il suo principio di complementarità all’entanglement quantistico cui Wolfgang Pauli lo aveva iniziato.

La totalità della psiche, in quest’ottica, non è altro che una tensione fra polarità in costante opposizione, dove l’inabissarsi dell’una significa l’innalzarsi dell’altra e viceversa, in un perpetuo gioco di trasformazioni. E di trasformazioni, non a caso, parla proprio Bion, quando considera i fenomeni psichici come entità astratte al pari di funzioni matematiche e configurazioni geometriche. Cambiare le variabili in un’equazione, alterare il piano dove si proietta un solido, non muta l’oggetto di analisi: variano i rapporti, ma la cosa-in-sé resta la medesima.

Il modello bioniano viene considerato da molti analisti come una vera rivoluzione dell’ontologia psicoanalitica. Al contrario, invece, la rarefazione della psicologia complessa di Jung sembra farsi portavoce di una anti-ontologia analitica: il metodo è una forma vuota, non c’è posto per verità metafisiche incontestabili. Eppure, credo che questa antinomia sia solo apparente. In nome della complementarità, le visioni di due giganti della psicologia del profondo potrebbero essere considerate le facce di una stessa medaglia.

Quando James Grotstein, in un passaggio cruciale dell’intervista, parla di serenità, uno dei rari termini non mutuati dal gergo bioniano, intende un atteggiamento di pacifica non-conoscenza: «Rinunciando al nostro desiderio di conoscere, siamo a nostro agio rispetto al non conoscere, all’avere pazienza» (Culbert-Koehn 1997, p. 26). Ma è solo «per l’Io trascendente che può accettarla, che la non-conoscenza è serena» (ibidem).

Al contrario, il suo fu supervisore e analista definiva la non-conoscenza come la quint’essenza del terrore, un’angoscia tanto annichilente da non poter essere neppure pensabile e la cui espulsione è nientemeno che un attacco alla mente stessa: l’attacco al legame. Ecco perché, continua Grotstein, «tutto ciò che facciamo nella storia della cultura occidentale ha a che fare con oggetti transizionali che ci rassicurano […] tutto è una finzione che chiamiamo realtà» (ibidem).

La contrapposizione di serenità e terrore sembra essere senza scampo, proprio quanto il confronto tra ontologia e anti-ontologia. Senonché il symbolon (legame) fra i contrari può essere rappresentato dalla realtà stessa, la quale continua a esistere – al di là della nostra capacità di conoscerla – come unità indifferenziata che precede l’esperienza e la rende possibile: ciò che nella dottrina kantiana è detto trascendentale (Grotstein 2007, p. 150).

In altre parole, la certezza metafisica di O, dell’ignoto, di questa ‘nube della non-conoscenza’, esiste solo in sé stessa. C’è, ma non ci è dato conoscerla. Ecco allora che il senso ultimo del metodo analitico, sia in Bion sia in Jung, non è più sollevare il velo di Maya, drenare le paludi dell’inconscio finché non resti soltanto il regno di un Io pacificato. Non è curare, nel senso di svelare la mente a sé stessa: lo scopo dell’analisi è integrare.

I conflitti, del resto, sono propulsori psichici, possono portare lontano. Mettere insieme i pezzi, avvicinare parti che mai si sarebbero ritenute compatibili, allarga gli orizzonti, consci e inconsci insieme. E il paradosso è che ciò avviene con un progressivo indebolimento dell’Io: le certezze ontologiche lasciano il posto alle realtà possibili, così che «la porzione di ignoto sarà molto più chiara» (Culbert-Koehn 1997, p. 27)… ma pur sempre ignota!

Sincronicità del futuro

Vorrei concludere questo scritto con l’ennesima ibridazione, stavolta partendo da un concetto a me caro della teoresi junghiana: la sincronicità. Comunque la si intenda – occorrenza di coincidenze significative, emergenza di nessi acausali, esperienza di fenomeni extrasensoriali – la sincronicità è un fatto empirico per Jung (1951). Non tornerò su quanto l’autore ha scritto al riguardo, ma metterò in evidenza un aspetto a monte. Quando si parla di eventi sincronistici, ‘inconscio’ non è più sinonimo di primitivo, ma di creativo.

Un esempio tratto dalla ‘psicofisiologia della vita quotidiana’ è il sogno. Nella sua accezione prospettica, lungi dall’essere ‘il guardiano del sonno’, il fenomeno onirico ha il valore di spostare il vertice inconscio nell’area del possibile, del non-ancora-realizzato. Proprio ciò che intende Bion quando parla di ‘linguaggio dell’effettività’ (Culbert-Koehn 1997, p. 28).

Una comunicazione inconscia di questo tipo, volta non a mascherare, ma a creare, invita un atteggiamento di attesa ed è caratteristico «della persona che può tollerare il dubbio […] che può aspettare, senza cercare rassicurazione nelle preinterpretazioni […] aspettando l’ignoto» (ibidem). Questa pazienza bioniana ha molto in comune con la succitata valenza profetica dei sogni, poiché, nelle parole di JoAnn Culbert-Koehn, permette di sintonizzare l’inconscio su «un potenziale che si sviluppa, come un’energia che si muove in avanti» (ibidem).

Grotstein parla di trend, tendenza, sottolineando come l’essere senza tempo dell’inconscio permetta una visione intuitiva della realtà, dove gli eventi hanno uno sviluppo in una dimensione parallela al continuum spaziotemporale ordinario: «Puoi sentire una forza che si sta sviluppando o che si è sviluppata e che ha un futuro» (ibidem). Un futuro che è già passato, dal vertice dell’eternità – di O, di Dio, dell’inconscio.

Torna di nuovo utile il parallelismo tra archetipi e preconcezioni evidenziato dalla psicologa analista e riconosciuto da Grotstein, che nell’intervista afferma:

Le preconcezioni, come gli archetipi, intuiscono, anticipano il proprio futuro. Bion parla delle preconcezioni in Memoria del futuro come di pensieri senza un pensatore in cerca della propria controparte nella realtà (ivi, p. 29).

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aperture

Ancora una volta mi viene in soccorso il Paese di Mezzo, stavolta con un classico ben più antico della filosofia presocratica. Sto parlando del testo oracolare che anticipa di circa dieci secoli l’avvento del cristianesimo e fonda i princìpi di confucianesimo e daoismo: l’Yijing. Il gua 24, spesso tradotto con Fu, il ritorno, esprime un’idea di realtà ciclica, ovvero la natura stessa del cambiamento:

Quando le cose procedono fino al loro eccesso si alternano nel loro opposto. Così, dopo la caduta viene il ritorno. La luce che fu bandita ritorna. Il cambiamento non viene prodotto con la forza – si accorda con le leggi di natura. Il ritorno emerge spontaneamente, come una primavera luminosa segue un rigido inverno (Huang 2010, p. 215).

E, qualche secolo dopo, l’idea del ritorno… ritorna nelle parole di Laozi, nel capitolo 16 del Daodejing:

 

Porta il vuoto al limite;

Trattieni la tranquillità nel centro.

Così le diecimila cose – fianco a fianco emergeranno;

E da questo io vedo il loro ritorno.

Le cose avanzano in gran numero;

Ciascuna ritorna alla sua radice.

Questa si chiama tranquillità.

‘Tranquillità’ – Ciò significa ritornare al proprio destino
– (Henricks 2010, p. 68).

 

Tranquillità e terrore. Avanzare nel futuro. Ritornare al passato. La visione mistica laica, quella dei saggi di una cultura millenaria e di alcuni scienziati del profondo, si regge sulla dialettica, è di natura ondulatoria, ma è anche corpuscolare, poiché non predica un relativismo assoluto. La realtà ultima è il processo stesso, che, lo ricorda JoAnn Culbert-Koehn, «è al di là della nostra portata» (Culbert-Koehn 1997, p. 30).

Al che James Grotstein risponde: «Sì, ma ciò non significa che non ci sia una verità. C’è una verità, e la verità conosce sé stessa. Siamo noi che non potremo mai conoscerla» (ibidem). Trascendersi, quindi, non è altro che tollerare questa impossibilità, nonostante ciò implichi una perdita, un rassegnarsi alla realtà mancante che è l’essenza stessa della posizione depressiva kleiniana.

Invece, l’analista californiano aggiunge la sua di posizione, dove l’impossibile, l’antinomico, il paradossale, non solo viene accettato nella sua duplice natura: all’accettazione dell’ignoto si aggiunge la serenità, quell’essere «in pace con esso – che per me è al di là della posizione depressiva, ed è il motivo per cui ritengo che esista una posizione trascendente [corsivo mio]» (ivi, p. 29).

In principio

Quando l’evolversi degli eventi porta alla fine di un ciclo, Già realizzato, allora un nuovo ciclo, Non ancora realizzato, inizia. In questo modo i cicli di cambiamento ed evoluzione si ripetono senza fine.

È la lezione finale dell’Yijing (Huang 2010, p. 496), che sottolinea ancora una volta la natura paradossale della realtà. Ed è proprio con i paradossi che vorrei terminare la mia personale elaborazione del dialogo tra un post-bioniano e una post-junghiana. Dialogo in cui viene ripreso, verso la fine, il contributo dell’analista che ha reso celebri i paradossi nella nostra disciplina: Donald Woods Winnicott.

Il concetto di paradosso era già ben noto agli antichi maestri zen, ai mistici medievali, ai matematici, poi ai fisici e, infine, anche agli analisti. E per fortuna, perché è nella possibilità di pervenire a una soluzione creativa, una nuova entità generata dall’antinomia di partenza, che si può trovare la verità – quella con la minuscola, che poi verrà soppiantata da un’altra e da un’altra ancora: meglio scordarci la Verità – capace di sanare le ferite dell’animo.

Viceversa, restare intrappolati nel paradosso, nella tensione di un dilemma irrisolvibile, ricorda Grotstein, è «la fonte di ogni invidia, l’esistenza di una verità enigmatica, paradossale e che non può esserci rivelata» (Culbert-Koehn 1997, p. 30). Ed è un’invidia che si nutre della presunzione dell’Io quando si autoproclama detentore della Verità.

Forse è questo il peccato originale della psicoanalisi. L’affermarsi di una nuova scienza, le cui radici fossero ben definite e rintracciabili nella Genesi scritta e prescritta dal suo fondatore, ha avuto come esito la frammentazione della psicoanalisi stessa. La gelosia delle proprie idee, la volontà di potenza dei fondatori, il desiderio di una progenie per autofecondazione: tutto questo è invidia – il narcisismo della psicoanalisi, direbbe Grotstein (ivi, p. 32).

Per allargare l’orizzonte non è possibile chiudersi in sé stessi, dialogare con chi è ‘con noi’ per isolare chi è ‘contro di noi’, «perché le idee non appartengono a chi le formula», l’analista ricorda la lezione bioniana (ibidem). L’aveva capito anche Jung, che non fu geloso della psicologia complessa, né si curò dell’allevamento e della proliferazione dei cosiddetti junghiani.

Credere che le idee ci appartengano o che noi, come analisti, apparteniamo ai nostri padri e madri putativi, è parte di quel gioco di finzione che ci permette di tollerare la non definizione, di ricacciare indietro il terrore senza nome del vuoto che avanza. Eppure, le differenze – tra visioni del mondo, approcci analitici, fra analisti stessi – ci sono e ci saranno sempre. Sono inevitabili e anche auspicabili. Ciò che possiamo fare è ricercare l’armonia proprio in virtù di queste differenze. Alimentare il dialogo come un fuoco sacro, nella speranza di raggiungere quelle altezze abissali dentro di noi e sopra di noi.


Bibliografia

  • Bion W.R. 1962, trad. it. Apprendere dall’esperienza, Armando Editore, Roma 2009.
  • Bion W.R. 1975, trad. it. Memoria del futuro. Il sogno, Raffaello Cortina Editore, Milano 1993.
  • Bion W.R. 1977, trad. it. Memoria del futuro. Presentare il passato, Raffaello Cortina Editore, Milano 1998.
  • Bion W.R. 1979, trad. it. Memoria del futuro. L’alba dell’oblio, Raffaello Cortina Editore, Milano 2007.
  • Culbert-Koehn J. 1997, Between Bion and Jung. A Talk with James Grotstein, in «The San Francisco Jung Institute Library Journal», vol. 15, fasc. 4.
  • Grotstein J.S. 2007, trad. it. Un raggio di intensa oscurità. L’eredità di Wilfred Bion, Raffaello Cortina Editore, Milano 2009.
  • Henricks R.G. 2010, Lao-Tzu. Te-Tao Ching. A new translation based on the recently discovered Ma-Wang-Tui texts, Ballantine Books, New York.
  • Huang A. 2010, The complete I Ching. 10th anniversary edition. The definitive translation by Taoist master Alfred Huang, Inner Traditions, Rochester.
  • Jung C.G. 1935/1991, Fondamenti della psicologia analitica, in OCGJ, vol. 15, Bollati Boringhieri, Torino.
  • Jung C.G. 1951, La sincronicità come principio di nessi acausali, in OCGJ, vol. 8, Bollati Boringhieri, Torino 1976.
  • Jung C.G. 2009, trad. it. Il libro rosso. Liber novus, Bollati Boringhieri, Torino 2010.
  • [1] La traduzione di questa e delle successive citazioni è del sottoscritto.

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