
2013 Numero 2 Invito alla Lettura
A CURA DI FRANCESCO DI NUOVO E ROBERTO MANCIOCCHI La rubrica Invito alla lettura propone indicazioni in merito ai contributi più attuali e significativi della psicoterapia con uno sguardo attento agli attuali sviluppi del pensiero teorico; sarà ovviamente presente una forma di dialogo con la letteratura, la filosofia, le neuroscienze e le arti. La rubrica sarà, a seconda dei numeri, completata da una sezione di recensioni, nella quale alcuni psicoterapeuti commenteranno le più interessanti novità del panorama italiano e internazionale.
Possessione e conoscenza. Recensione a: Roberto Calasso, La follia che viene dalle Ninfe
Roberto Calasso, La follia che viene dalle Ninfe
Milano: Adelphi, 2005 (5° ed., 2010), pp. 136, € 9,00
C’è un quadro dell’artista vittoriano John Waterhouse del 1896 intitolato Hylas and the Nymphs, conservato al Manchester Art Gallery in cui è raffigurato Hylas, eroe della spedizione degli Argonauti, nell’atto di attingere acqua da un fiume mentre delle Ninfe, emerse dall’acqua, lo seducono, poco prima di “affondare in mezzo al gorgo” preso dal loro “desiderio violento”. La storia, narrata da Catullo, Apollonio, Teocrito e contemplata in un dipinto di Ercolano, viene descritta da Roberto Calasso nel testo dedicato alle Ninfe per sottolinearne l’aspetto “delirante e senza ritorno” della possessione. Una possessione, ci avvisa Calasso, da intendere alla maniera dei Greci, proprio per descrivere una realtà del tutto diversa da quella dei moderni; la possessione di cui si parla nel testo cerca di riprendersi il posto di definizione che le spetta di diritto: “una forma primaria della conoscenza”.
L’analisi di Calasso parte da un elemento fondativo importante: la “possessione è in primo luogo il riconoscimento che la nostra vita mentale è abitata da potenze che la sovrastano e sfuggono a ogni controllo, ma possono avere forme, nomi e profili. Con queste potenze abbiamo a che fare in ogni istante, sono esse che ci trasformano e in cui noi ci trasformiamo”. La possessione, così intesa, non ha direttamente a che fare con un fenomeno estremo, esotico o torbido ma, piuttosto, mostra un legame stretto coi processi mentali di cui non si ha consapevolezza e dai quali, improvvisamente, emerge un “simulacro” che ha il potere di soggiogare la mente a sé e di possederla. Questo, ci dice Calasso, è il luogo delle Ninfe; loro presiedono alla possessione, meglio, sono esse stesse la possessione. Sono “fanciulle pronte alle nozze” e “sorgenti” (dal lessico greco). La conoscenza, la ragione, è subordinata alla possessione, a questa “divina follia” dalla quale pure derivano “il pensiero, la poesia, la divinazione”. Essere còlti, rapiti, sedotti, “posseduti”, prima ancora di godere di una connotazione di senso esclusivamente erotico, esprime il fondamento vitale dell’esistente.
Le Ninfe, questi esseri “delicatissimi e oscuri, fascinosi e terribili” sintetizzano questo processo per cui, da dimensioni psichiche indifferenziate, emerge, come “sorgente”, una Ninfa che afferra la coscienza dell’Io – potremmo dire – e la possiede, la trascina a sé, prima ancora che questo “eccesso” si conceda alla conoscenza di sé: “così come l’immagine mentale affiora dal continuo della coscienza”. È quella sapienza che parla per “gesti e per immagini”. Il gesto è terribile, il desiderio è violento, ambiguo, la possessione in sé è inespressiva, senza qualità, distante – come lo sguardo delle Ninfe nel quadro di Waterhouse: vellutate, candide, senza memoria. La vertigine estetica delle Ninfe appartiene alla “percezione sensoriale”, alla bellezza della “creazione”: il semplice fatto che esse si mostrano diviene atto creativo direttamente legato alla conoscenza. Qui, allora, il processo creativo, disvela il proprio essere, attraverso il “delirio”. Calasso ci parla di una conoscenza che si compie per il tramite della possessione, una scoperta verso la quale convergono sia Dioniso, sia Apollo: “se la si accetta, essa scardina dall’interno ogni ordine pre-esistente”.
La possessione delle Ninfe può essere allora, sia salvatrice, sia devastatrice. Apollo, il misuratore, ha un debito nei confronti delle Ninfe: queste gli fecero il dono delle “acque mentali” – ci dice Porfirio. “Ninfa è dunque la materia mentale che fa agire e che subisce l’incantamento, qualcosa di molto affine a ciò che gli alchimisti chiamavano prima materia”. Aby Warburg ne rintraccia il nesso, come una brise imaginaire, nel “gesto vivo” dell’antichità pagana che si manifesta nel tardo quattrocento fiorentino. Il rapimento del gesto vivo emergente Warburg lo scorge nei dipinti del Botticelli o ancora, nella “fanciulla di grande bellezza, dalle vesti ondeggianti e dal passo lieve, fluente e fremente” sullo sfondo dell’affresco del Ghirlandaio in Santa Maria Novella a Firenze. Questa “pagana procellaria”, aliena e pervasiva è sentita da Warburg come proveniente da un altro piano della realtà, un altrove rapinante, che raggiunge la sensibilità minacciosa della “cacciatrice di teste”, Giuditta, Salomè, Menade. Warburg troverà nella follia e nella clinica di Biswanger il suo epilogo, mediato attraverso il resoconto del rituale del serpente osservato nel suo viaggio del 1895-96 presso gli indiani del Nordamerica: la perdita di sé stessi, nella trasformazione. “Dopo aver sperimentato per anni la potenza dei simulacri sulla vita mentale, Warburg volle dedicare quella conferenza al serpente, il simbolo che più di ogni altro serve, secondo la formula di Saxl, a circoscrivere un terrore informe. Così la Ninfa e il serpente, Telfusa e Pitone, ancora una volta agirono insieme, l’una sigillando l’inizio, l’altro la fine della ricerca di Warburg”. Il serpente – ci dice Calasso – diviene il salvatore.
Così Socrate rapito dalle Ninfe aveva parlato a Fedro di quel “giusto delirare” per raggiungere la “liberazione” dai mali. Poiché la “mania è più bella della sophrosyne” di quel sapiente controllo di sé, “perché la mania nasce dal dio” mentre la sophrosyne “nasce presso gli uomini”.
Il testo di Roberto Calasso, nella sua essenzialità, raccoglie interventi scritti e letti dal 1977 al 2002, il cui fil rouge che attraversa i diversi capitoli è il momento istantaneo della perdita di sé, dall’essere “presi” e tratti altrove, posseduti, attraverso un gesto mentale che ha a che fare col delirio: con un gesto che trascina nell’altrove. Sono le Ninfe che Calasso, dal mito, rintraccia nell’opera critica di Aby Warburg, nelle “ninfette” di Nabokov, nei film di Hitchcock, in John Cage, Chatwin, nel delirio naturistico di Kafka presso Jungborn o, anche, nelle bibliografie di Canetti e nella “mano” dell’editore.
Una “manualità estetica”, potremmo dire, che sembra evocare un sussulto genuino, molto simile a quella “sincerità che scaturisce dalla foga momentanea” di cui parla Jaspers studiando l’intreccio genio e follia in Strindberg e Van Gogh.
La follia che viene dalle Ninfe è un testo che, se còlto profondamente, produce una riflessione essenziale su quell’agire salutare della possessione, da quel darsi con dovizia centellina al delirio benevolo di sé, a raggiungere un punto di familiarità con la curvatura mentale della conoscenza che sa pronunciare, coi marinari sull’Argo diretti alla Colchide, questa frase: “Lasciate le vele, c’è un colpo di vento”.