Stai leggendo
Philip K. Dick fantapsicologo Lezioni di antipsichiatria di uno scrittore speculativo

Rivista annuale a cura del Centro Italiano di Psicologia Analitica Istituto di Roma e dell’Italia centrale

La follia: modelli della psiche e approcci terapeutici La psicologia analitica a 100 anni dalla nascita di Franco Basaglia

2024 Nuova Serie Numero 5 Monografia Franco Basaglia

Philip K. Dick fantapsicologo Lezioni di antipsichiatria di uno scrittore speculativo

«Non le è venuto in mente, dottoressa, che nell’ultimo decennio potremmo aver superato i nostri problemi iniziali di adattamento di gruppo ed essere diventati…» fece un gesto «adattati? O qualunque altro termine preferisce… In ogni caso, capaci di intrattenere rapporti interpersonali adeguati, come quelli che lei vede svolgersi qui, in questa sala del consiglio. Certamente se possiamo lavorare insieme non siamo malati. Non c’è prova di buona salute mentale più valida della capacità di lavorare in gruppo».
Gabriel Baines a Mary Rittersdorf
Ph. K. Dick, Follia per sette clan

Un matto al parco

 

Una mattina di agosto, in un’area verde sul lungotevere che frequento abitualmente, un uomo mi saluta mentre mi vede andar via. Ricambio il cenno ma capisce che non lo riconosco:

«Ci siamo allenati insieme l’altra volta».

Vedendo il mio smarrimento, con aria delusa mi fa:

«Non ti ricordi…» e riprende i suoi esercizi.

La settimana successiva ricapita più o meno la stessa scena. Stavolta l’uomo aggiunge qualche dettaglio per aiutarmi a rievocare l’incontro. Al che gli rispondo che deve avermi scambiato con un’altra persona.

Già dopo il primo episodio ripenso all’accaduto. Magari c’è davvero qualcuno che mi somiglia con cui l’uomo fa due chiacchiere tra una serie e l’altra; oppure si è sentito un po’ solo e avrà voluto attaccare bottone. Tuttavia, il giudizio che permea entrambe le ipotesi è che questo qua sia un tipo strano: e non tanto per il malinteso, ma per la sua sicurezza nel sapere che io fossi chi dovevo essere – e che magari stessi fingendo di non ricordarmi di lui per chissà quale ragione…

Al secondo incidente, però, penso anche a qualcos’altro. Io do per scontato che lui si sia sbagliato perché io non so di cosa stia parlando. Insomma, la mia realtà non coincide con la sua; o in termini presocratici, il nostro koinos kosmos (l’universo condiviso) è sfasato. Ma dal suo punto di vista? Magari sono io il matto del parco, quello che “o ci fa o ci è”. Allora mi torna in mente una parabola taoista: quella di Chuang-tzu che sogna di essere una farfalla; ma al risveglio si domanda se in realtà non sia la farfalla a sognare di essere Chuang-tzu. E dal ricordo di questa storia segue una serie di considerazioni: se perfino l’incontro con uno sconosciuto può confondere la mia realtà, quanto può farlo la relazione con i pazienti? Potrei credere di aver comunicato qualcosa (un’interpretazione, un cambio di orario, una domanda) e invece l’altro cade dalle nuvole o viceversa:

«Ah, non gliel’avevo detto?».

Chi fa ricerca può contare su un sistema di riferimento esterno: una registrazione, un testimone dietro lo specchio oscurato, l’analisi del trascritto con l’intelligenza artificiale e via dicendo. Ciò implicherebbe che “l’oscuro scrutare” della tecnologia possa essere un auspicabile rimedio alla fallacia della soggettività umana. Allora perché non sostituire il “terzo analitico” con un più attendibile “terzo elettronico”? Una risposta potrebbe essere che raramente somministrare una dose di obiettività si rivela terapeutico. Sarebbe un po’ come se, rincontrando quell’uomo al parco, cercassi in tutti i modi di provare che il mio idios kosmos (l’universo soggettivo) è corretto, mentre il suo è illusione. Ma quante volte, anche di fronte all’evidenza, non è possibile rinunciare alla propria visione del mondo? Atto di violenza più che terapeutico, sopraffare l’altro con una presunta obiettività – che comunque non può essere accolta da chi soffre – sembra il goffo tentativo di negare l’“ontologia incerta” di un mondo che ancora non comprendiamo fino in fondo: quello della psiche.

Forse, solo seguendo una logica dell’entrare nella mente altrui, superando il paradigma della segregazione fra sanità e malattia, e abbracciando una concezione della vita psicologica come continuum, più che come una sfilza di categorie, solo così, forse, sarà possibile approcciarsi all’anima che soffre con solidarietà più che diffidenza. D’altra parte, senza riconoscere il terreno comune della psiche, sano e malato non potrebbero mai comprendersi.

Dunque la “storia della follia”, oltre l’età classica e nella postmodernità, è all’insegna della somiglianza e delle differenze. È la storia di chi vede nel rapporto il fulcro di una qualunque prassi terapeutica. E come testimoniano sia la produzione letteraria sia la vita di Philip Dick, l’idea che gli alienati non siano poi così alieni non è più appannaggio esclusivo degli specialisti del settore. Dai tempi della psichiatria interpersonale agli anni dell’antipsichiatria e fino alla “svolta relazionale”, l’idea di una psiche complessa è filtrata nella società fino a coagularsi in un milieu. Follia per sette clan traduce quel milieu nel linguaggio della fantascienza, raccontando la storia dei matti, non al parco, ma sulla luna.

 

Stultifera luna

 

In Storia della follia nell’età classica, Michel Foucault (2012) inizia la sua narrazione sul viaggio degli insensati con l’immagine di un dipinto: Nave dei folli di Hieronymus Bosch. Come spesso accade, le immagini sanno descrivere un’epoca meglio delle parole; e la comparsa dello «strano battello ubriaco che fila» (ivi, p. 53) sospinto dalle correnti del Rinascimento non fa eccezione. Ma come ricorda un musicologo tedesco in Europe central, di William T. Vollmann (2005, posiz. 1762-1764) «Quando cambia il mondo, cambia pure l’uomo, così il compositore e pure l’arte».

Infatti, circa 470 anni dopo che Bosch “farà salpare” la nave dei folli, uno scrittore di fantascienza altrettanto visionario spedirà i matti ancora più al largo: su una delle lune del sistema di Alfa Centauri. Sto parlando di Philip K. Dick e del suo Follia per sette clan; un’opera non tra le più note dello scrittore americano, ma cionondimeno ben quotata dal suo maggiore biografo: «Follia è romanzo diseguale, ma non assomiglia a nessuno altro» (Sutin 2018, posiz. 7677). Il romanzo è stato argomento di uno dei seminari del Laboratorio di Psicoanalisi, Ermeneutica, Fenomenologia (LAPEF 2023) e ha permesso l’incrocio fra i punti di vista sci-fi e analitico. Un matrimonio quantomai felice, poiché sia la biografia romanzata (Carrère 2016) sia quella storiografica (Sutin 2018) raccontano le numerose frequentazioni “psi” dell’autore californiano, e come paziente e come studioso – soprattutto nell’ambito della psicologia analitica.

Ma veniamo ai folli argonauti spaziali. Nel romanzo, i malati si trovano sul satellite Alfa III L2, un corpo celeste del sistema Alfa Centauri che l’umanità ha adibito a colonia sanitaria. Sfortunatamente, la guerra con i vicini alfani ha tagliato fuori l’Istituto Harry Stack Sullivan per venticinque anni; al punto che i residenti hanno perso qualunque contatto umano con la propria terra natìa; concretizzazione, questa, della peggiore forma di angoscia secondo il padre della psichiatria interpersonale: restare tagliati fuori da tutti gli altri. Eppure, sebbene la nave dei folli sia andata alla deriva, al momento dei fatti narrati l’ex comunità psichiatrica appare del tutto indipendente; una collettività che, in sole due generazioni, si è riorganizzata in una vera e propria società democratica divisa in caste: i clan, per l’appunto.

La classe dirigente è quella dei Para, schizofrenici paranoidi di Adolfville rappresentati da Gabriel Baines – che non si unisce mai agli altri delegati se prima il suo sosia androide non gli dà il via libera. Poi c’è la casta guerriera in stile samurai, composta dai bipolari di primo tipo (qualche DSM fa, i maniaco depressivi) noti come Mani: più violenti dei Para ma meno calcolatori, sono sempre occupati a sviluppare nuove armi in cima alle Colline Da Vinci. Non può mancare una casta religiosa, anzi due: quella degli asceti mistici relegati ai lavori più umili, gli intoccabili ebefrenici Eb di Gandhitown; e i dogmatisti visionari, schizofrenici Schizo di Giovanna d’Arco. Poi ci sono i Poli, artisti di Hamlet Hamlet, il clan creativo composto dagli schizofrenici polimorfi – rappresentati dall’infantile e prosperosa Annette Golding, amore impossibile di Baines. E la creatività Poli è bilanciata dalla fazione ossessivo-compulsiva dei funzionari e impiegati Os-Com (di cui l’autore non specifica l’insediamento). Infine, c’è la classe più detestata da tutti gli altri clan: i Dep, depressi fino al midollo e condannati a piangersi addosso nelle Colonie Cotton Mather.

 

Un piccolo inciso

 

Trovo interessante che l’apice e il fondo della piramide sociale immaginata da Dick siano rispettivamente i paranoici e i depressi. Se la follia è «il tentativo (a volte patologico, ma sempre in azione, nel sano come nel malato) di non vedere il vuoto» (Vadalà 2019, p. 25), allora i clan sembrano godere di prestigio in modo direttamente proporzionale al loro riuscire a non vedere il vuoto. I depressi sarebbero paria proprio perché hanno abdicato all’“illusione necessaria” a vivere: il Reale si profila all’orizzonte e impedisce qualsiasi possibilità di immaginare le cose “altro da come sono”. E se l’alternativa è un mondo piatto e morto, allora tanto meglio seguire un leader Para che vive di dietrologie e si nutre di complotti; qualcuno che vede la realtà come un pieno più che un vuoto: un mondo dove tutto ha senso.

In effetti, anche nella clinica a volte è più facile entrare in sintonia con chi si racconta qualunque cosa pur di scappare dal dolore – salti mortali logici che sottolineano la drammatica ricerca di senso del paziente. Al contrario, l’estrema vicinanza dell’abisso con cui ci confronta chi ha perso ogni prospettiva può stimolare rabbia o commiserazione. Restando nella metafora buddhista di Vadalà, è come se i depressi ci sbattessero in faccia che nulla ha senso, che la vita è una finzione e loro sono gli unici ad averlo capito: ecco perché hanno smesso di provare.

Tuttavia, questo sarebbe un fantasma del terapeuta che non sa stare nel vuoto del paziente. Lo ricorda il bioniano Grotstein quando parla dell’Io trascendente: «Potremmo dire che se uno non può sopportare di non sapere, allora è perseguitato da quel che proietta in ciò che non conosce» (Culbert-Koehn 1997, p. 26, tda). Rifiutare la voragine di senso del depresso, allora, comporterebbe un allontanamento difensivo; un atto di violenza più che di compassione. Emozione, questa, inaccettabile perché metterebbe in crisi le proprie di illusioni. Finché non si realizza che qualsiasi illusione non è meno reale di tutte le altre: è il nostro Io che sceglie (seppure in modo temporaneo e insoddisfacente) quale e quanto aderirvi.

 

Favole dell’antipsichiatria

 

Al di là delle vicende narrate, il romanzo dickiano può essere considerato una variante sul tema dei matti che dirigono il manicomio (Sutin 2018); ma anche una satira grottesca della paranoica organizzazione sociale statunitense in piena Guerra fredda (Pagetti 2022). A differenza della Stultifera navis foucaultiana, Alfa III L2 è un vascello autosufficiente che naviga indisturbato nel vuoto siderale. La sua autonomia deriva dall’ipotetico equilibrio psicopatologico delle caste che ne compongono il corpo sociale.

È un’opera di finzione, ma che tra gli esegeti italiani di Phil Dick è giustamente ritenuta una «favola antipsichiatrica» (Pagetti 2022, p. 164); come riconoscerà anche Cristian Muscelli, dell’Istituto di Ricerca di Psicoanalisi Applicata, sottolineando la contrapposizione fra «psicoterapia buona e psichiatria cattiva» (LAPEF 2023). Ma la suggestione dell’analista IRPA non si limita all’ambito psichiatrico: Follia ha qualcosa da dire sulla società umana anche al di là della contrapposizione fra sani e malati. A tal proposito, Muscelli ricorda Il disagio della civiltà (Freud 1929/2013) e la relazione fra paranoia – core patogeno della classe dirigente sul satellite alfano – e cultura.

L’idea è che la violenza innata dell’uomo necessiti di una qualche forma di contenimento che solo la collettività, con la forza delle istituzioni, può garantire. La “scimmia nuda” sarebbe così addomesticata, finalmente libera dal conflitto fra pulsioni e realtà. Tutto al modico prezzo della felicità individuale. E infatti nel romanzo ho rintracciato un passaggio in cui i cosiddetti sani[1] descrivono il compromesso della società lunare:

 

[…] con i paranoici che stabiliscono l’ideologia, il tema emozionale dominante sarebbe l’odio. O meglio l’odio che va in due direzioni: la leadership odierebbe chiunque fosse al di fuori della sua cerchia e, inoltre, darebbe per scontato che tutti ricambino il suo odio. Pertanto, l’intera cosiddetta politica estera consisterebbe nello stabilire dei meccanismi tramite i quali si potrebbe combattere questo presunto odio diretto contro la classe dirigente. Il che coinvolgerebbe l’intera società in una battaglia illusoria; una battaglia contro nemici che non esistono per una vittoria sul niente (Dick 2012, p. 84).

 

Ma la visione terrestre non è sostanziata da un clima di guerra costante: è vero che tra i Para e i Mani non corre buon sangue, ma sulla luna l’equilibrio regge da quasi tre decadi. Non siamo di fronte alla guerra artificiale che trasforma l’odio in ordine, come nell’incubo orwelliano di 1984, dove la paura è un dio più potente dell’amore. In effetti, ricorda Muscelli (LAPEF 2023), nemmeno Freud cede del tutto all’idea hobbesiana dell’homo homini lupus: nel carteggio Perché la guerra? (Einstein, Freud 1932/2013) vede nell’amore un possibile aggregante sociale che la psicoanalisi potrebbe promuovere per evitare il passaggio all’atto dell’umanità.

A tal proposito, è degno di nota che l’unico personaggio che potrebbe incarnare l’auspicio freudiano in Follia sia un alieno telepate ed ermafrodita che Muscelli assimila a un iperbolico terapeuta: «Lord Running Clam, forma bavosa ganimediana che sostiene, d’accordo con San Paolo, che la caritas è la virtù più grande» (Sutin 2018, posiz. 7676-7677). Eppure, continua Muscelli, il neurologo austriaco sottopone un’altra soluzione al padre della relatività: l’identificazione col capo, un leader a cui rimettere la propria violenza in cambio della rinuncia al libero arbitrio.

Come ha dimostrato il Secolo breve, né la prima né la seconda delle soluzioni di Freud si sono dimostrate efficaci. Con la caduta degli ideali della modernità sono venuti meno sia l’ipotesi di un amore universale – laico o religioso – sia quella di un’identificazione col capo che non sfoci in un acting su scala globale. Purtroppo per noi, le “epidemie psichiche” paventate da Jung ne Il divenire della personalità (1934/2015a) hanno tolto e continuano a togliere ogni dubbio al riguardo. Ma allora anche i folli avranno infettato la luna con la violenza innata dell’Homo sapiens? E quella stessa violenza sarebbe l’unico collante sociale a consentire ai matti una qualche forma di autonomia?

Un’ipotesi che va in questa direzione è sempre di Muscelli, che afferma lacanianamente che il sistema dei clan è sì pacificato, ma infelice; ovvero che la separazione fra caste equivale alla «forclusione del rapporto sessuale» (LAPEF 2023). Nonostante il loro isolamento, però, i folli si sono organizzati, raggiungendo perfino una sorta di coscienza di malattia: tutti temono gli scoppi emotivi dei Mani e detestano l’inconsolabile tristezza dei Dep; così come riconoscono la visionarietà degli Eb e lo zelo degli Os-Com. Magari questo riconoscimento dell’altrui stranezza può essere un primo passo verso una differenziazione che prelude all’autocoscienza. Del resto, i clan si sono costituiti proprio per contrapposizione; e anche se i nomi degli insediamenti possono essere solo un artificio letterario – «nominare la propria patologia crea un problema strutturale» dichiara Muscelli (ibidem) –, si può immaginare che siano frutto di un processo di mutua accettazione (e sopportazione) che sposta la coscienza di malattia fra la mente propria e quella dell’altro: nell’universo condiviso dei clan.

 

La difesa perfetta

 

Lo ribadisco: Follia per sette clan è fantascienza. Cionondimeno è un mito sulla vita psicologica come prerogativa non della psiche sana, ma della psiche in generale; anche nevrotica e psicotica. Ma c’è di più: con la sua stoccata alla rappresentazione della società americana degli anni Sessanta, il romanzo sottolinea un’importante lezione dell’antipsichiatria, ovvero che «la “normalità” – come dicevano Laing e i suoi colleghi – non esiste oppure è il prodotto di una follia ancora più devastante e maligna» (Pagetti 2022, p. 165). Anche la psicologia analitica ne sa qualcosa, visto che il modello complessuale è uno dei più attuali della teoresi junghiana. Una prospettiva in cui la mente non è un blocco monolitico, ma un insieme di «scintillae» (Jung 1954/2015, posiz. 70283), di “frammenti di psiche” che si organizzano attorno all’Io e che questi si illude di dominare.

Dunque, l’autonomia delle isole complessuali implica che la salute dell’anima non sia prodotta dall’espulsione dei nuclei psicopatologici: è un problema di integrazione. Nelle parole di Jung (1929/2015, posiz. 145331-145332) si tratta di «produrre uno stato psichico nel quale il paziente cominci a sperimentare con la sua natura uno stato di fluidità, mutamento e divenire, in cui nulla è eternamente fissato e pietrificato senza speranza». Un elogio del cambiamento come principio vitale per eccellenza che risuona con l’I Ching cui lo stesso Jung si è dedicato[2]; e più in generale con la filosofia taoista, la quale concepisce il Tao (la Via) come guida invisibile del proprio viaggio su questa terra: «La strada che si cela dentro di noi è come un elemento vivente della psiche, che la filosofia classica cinese chiama “Tao” e paragona a un corso d’acqua che inesorabilmente scorre verso la propria meta. Essere nel Tao significa compimento, integrità, vocazione pienamente realizzata, principio e fine, e completa realizzazione del significato dell’esistenza intrinseco a tutte le cose. La personalità è il Tao» Jung (1934/2015a, posiz. 153177-153180).

Se rovesciamo questo passo di Jung, di una psiche-mondo informata da un principio armonico, otteniamo che la malattia è il progressivo allontanamento da questa spinta verso la coerenza; ovvero cedere alle forze disgreganti dell’entropia e permettere al conflitto di compiersi fino alla dissoluzione totale di qualunque possibilità di ordine.

Ma vorrei concludere questo “allunaggio” tornando ancora una volta su Follia per sette clan. Nella parte finale della sua analisi, Muscelli (LAPEF 2023) riprende Freud e l’impasto fra pulsioni di vita e pulsioni di morte come possibile soluzione al conflitto originario dell’essere umano. Tuttavia concentra la sua riflessione sui protagonisti del romanzo, Mary e Chuck Rittersdorf, che nella transizione dalla Terra dei “sani” alla luna dei “folli” scivolano in direzioni opposte sullo spettro della normalità; ennesimo esempio di come il sistema di riferimento sia fondamentale nella taratura dei concetti di salute e malattia. Io però vorrei sottolineare come in realtà i preesistenti sette clan non siano meno normali; che la loro società non sia un compromesso di serie B dove la pacificazione comporta la rinuncia alla felicità – che è ciò che vuole far credere loro la CIA con l’aiuto del potere psichiatrico.

Un esempio significativo è l’impensabile atto d’amore di Gabriel Baines, che in qualità di leader Para potrebbe essere il più paranoico dei paranoici su tutta Alfa III L2. Verso la fine dell’intreccio, quando il conflitto tra le fazioni in lotta è allo zenit – clan vs CIA, alfani vs terrestri, moglie vs marito –, il delegato di Adolfville penserà per la prima volta a salvare un’altra vita invece che sé stesso; sentendo «che all’improvviso il peso di essere un Para, di doversi difendere contro qualunque pericolo, gli fosse stato tolto» (Dick 2012, p. 176). Un gesto più in linea con la virtù paolina ricordata dal mollusco ganimediano (la succitata caritas che oggi chiameremmo empatia), che non con l’atteggiamento di chiusura totale che distingue la paranoia.

Leggi anche
La follia: modelli della psiche e approcci terapeutici La psicologia analitica a 100 anni dalla nascita di Franco Basaglia

Insomma, un germe di cambiamento è penetrato anche nella fortezza patologica per eccellenza, nella follia lucida che concretizza l’homo homini lupus per non lasciare alcuno spazio all’incertezza. E questo barlume di fiducia nel prossimo forse è il risultato di quella coesistenza forzata e faticosa fra clan, unica strategia di sopravvivenza contro una Madre Terra opprimente (con le sue “istituzioni totali”) e abbandonica (troppo presa dalla guerra); o comunque invischiata in un rapporto di potere più che di cura. Una lettura, questa, che è ancora più significativa nell’ottica di una relazionalità in grado di curare, dove invece l’isolamento è la fonte di ogni alienazione.

Perché nella comune paura dell’ineffabile, solo l’altro è una possibile fonte di rassicurazione; qualcuno che ci faccia sentire meno soli davanti a una terribile verità: «Non esiste una difesa perfetta. Non c’è alcuna protezione. Essere vivi significa essere esposti ai pericoli; correre dei rischi fa parte della vita… la vita è fatta così» (ivi, p. 199). Ma la vita è anche conflitto, ragion per cui l’epifania di Annette è solo metà della storia, un’emi-fania: quel pizzico di paranoia, quel frammento psicotico che ci fa temere l’oscurità, è anch’esso “parte della vita”. Infatti Gabriel completa l’agnizione della donna amata dicendole che anche difendersi è una necessità: «Provare non costava nulla. Anche quello faceva parte della vita e ogni creatura vivente era costantemente impegnata nel tentativo» (ivi, p. 200).

 

Questione di gradi

 

Come ogni romanzo dickiano che si rispetti, la molteplicità dei punti di vista e l’intreccio di più storie fanno di Follia per sette clan un’opera prismatica[3]: prende la luce di una riflessione e la rifrange in svariati colori. Quello dell’antipsichiatria è il colore di una critica alla reificazione della psicopatologia e del conseguente isolamento di chi ne soffre. Certo, possiamo continuare a immaginare dei tipi sani/malati per orientarci, ma è un espediente che nasconde sempre il rischio di scambiare il dito con la luna. Quando l’errore si fa madornale, allora i ghetti psichici diventano prigioni effettive come quelle che si sono avvicendate nella “storia della follia”. Con la chiusura dei manicomi, la minaccia sembra debellata; senonché il progresso della cultura non sempre basta a esorcizzare i vecchi fantasmi: nuove forme di segregazione possono materializzarsi ogniqualvolta l’inuguaglianza porta a giustificare un atto di violenza – come quello dei terrestri contro gli ex pazienti della luna alfana (Rossi 2011).

D’altra parte, per usare un’inquietante ma felice metafora di Grotstein in riferimento al suo ex analista, Wilfred Bion, ogni essere umano che soffre è già di per sé recluso in un «“campo di concentramento” virtuale» (Culbert-Koehn 1997, p. 24, tda). Così, se quel gesto di separazione allontana il malato – non in nome di una differenziazione terapeutica, ma della realizzazione del “campo di concentramento virtuale” –, allora siamo di fronte all’ennesimo passaggio all’atto di un essere umano che non può riconoscersi nell’altrui sofferenza. Una sofferenza che fa tanto più paura quanto più è inconscia nella psiche del “tecnico” che dovrebbe curarla; e che invece ne è talmente posseduto da fargli dimenticare che la linea di demarcazione fra me e l’altro è in realtà estremamente labile. La portavoce del potere psichiatrico in Follia, Mary Rittersdorf, ci arriva giusto alla fine. Dopo aver violentato il delegato Para, quasi ucciso suo marito ed essere diagnosticata come depressa, se ne rende conto: «Sai… pensavo di essere del tutto diversa dai miei pazienti. Loro erano malati e io no. Adesso…» (Dick 2012, p. 221).

 

Ritorno al parco

 

Verso la fine di agosto riprendo ad andare al parco. Nessuna traccia della mia “vecchia conoscenza”. C’è però un ragazzo orientale che avrà più o meno quattordici anni e che ogni mattina si fa una videochiamata a pochi passi da me. Ride, ripete a voce alta espressioni in una lingua che non riesco a comprendere. A volte arrivo che è già impegnato nella sua routine, altre invece è lui ad arrivare quando io me ne sto andando. A differenza dello sportivo dell’aneddoto iniziale, fra me e l’adolescente non c’è interazione (io faccio i miei esercizi, lui parla al telefono). Tuttavia, alla terza mattina che lo incontro, mi morde un dubbio: e se quel suo starsene da solo, il tono eccitato e le espressioni ricorrenti fossero dei segni di una qualche stranezza? Oppure ciò che di lui mi appare bizzarro è solo frutto di un bias culturale?

Ecco riaffacciarsi il solito giudizio; anche stavolta pre-giudizio. Del resto, è una vecchia storia quella della differenza fra culture. Ormai ne tengono conto i test e, da un po’ di anni a questa parte, anche la psicodiagnostica. Ciò significa riconoscere che la dimensione personale ha bisogno di un sistema di riferimento più ampio per assumere senso. E bisogna tenere conto che questo sistema può essere diverso per etnia, religione, o qualunque altro aspetto che funga da polo collettivo nel confronto con l’individuo. Il fatto è che, se si stringe a sufficienza il campo d’osservazione, anche la storia personale può rappresentare un sistema di riferimento; così, l’atto conoscitivo non potrà che essere un progressus in infinitum. Questo perché: «Nella nevrosi il medico non si trova di fronte a un campo di patologia ben delimitato, ma a una persona malata, che non si è ammalata in un particolare meccanismo della sua psiche e che non presenta un focolaio isolato di malattia, ma che soffre nell’intera sua personalità. Con questo la “tecnica” non può misurarsi. La personalità del malato richiede l’impiego delle risorse dell’intera personalità del medico e non il ricorso a stratagemmi tecnici» (Jung 1934/2015b, posiz. 93001-93004).

Questa verità clinica di Jung, tuttavia, si scontra con il fatto che l’Homo sapiens, per quanto acculturato, continua a vedere il diverso con gli occhi antichi della specie. Occhi sospettosi che potevano fare la differenza fra la vita e la morte nella savana o nella steppa, come vuole il mito di una società fondata sulla paura – eredità nietzschiana raccolta da Freud, ricorda Muscelli (LAPEF 2023). Invece la parabola dei lunatici alfani propone un mito alternativo: uno di cooperazione, non di competizione. Ma qual è il mito giusto? L’uomo è un “buon selvaggio” o un lupo mascherato da agnello? Siamo tutti fratelli od ognuno per sé?

Forse mi sono allontanato un po’ troppo dal parco, ma sono domande che trovo pertinenti col cambio di paradigma sociale che vede il matto come uno di noi. Anche se – e sta qui la fregatura – alla luce di un retaggio culturale paranoideo, credo ci voglia ben altro che un semplice sforzo cognitivo per rendersene conto. Senza l’esperienza è impossibile sviluppare un senso critico, così che un’affermazione del tipo: «Uno psicoterapeuta nevrotico curerà infallibilmente nel paziente la propria nevrosi» (Jung 1935/2015, posiz. 144867-144868) sarà banalmente tradotta in “ci vuole un matto per capirne un altro”. Al contrario, i matti della vita quotidiana e la metafora fantascientifica possono dare profondità all’affermazione di Jung: certo che ci vuole un matto per capirne un altro; cionondimeno siamo tutti sulla stessa “nave dei folli” e non si può mai sapere se e quando arriverà un’onda in grado di travolgerci.

Follia per sette clan non sembra offrire scampo a un’umanità intrinsecamente folle; ma, informato dall’antipsichiatria, afferma anche che ambire a essere una specie sana sarebbe ancora peggio, poiché gli “uomini senza inconscio” sono «persone che hanno completamente perso la loro Ombra, che se ne sono sbarazzate. Sono esseri bidimensionali: hanno perso la terza dimensione, e con quella in genere hanno perso anche il corpo» (Jung1935/2013, p. 36). Un’immagine che trovo ben più inquietante degli omini verdi con gli occhi da insetto su cui gli esseri umani proiettano la loro alienità

 

Poscritto tecnologico

 

All’inizio del lavoro ho liquidato l’idea di un possibile “terzo elettronico” come rimedio a un’umanità non poi così obiettiva. D’altra parte, per quanto sarebbe bello credere che il lavoro analitico non sarà mai alterato dalla tecnologia, nei fatti è già dimostrato che non è così – scrivo “COVID” e non aggiungo altro. Ciò significa che, per quanto resti vera la precedente affermazione sulla nevrosi come ponte fra le menti di guaritore e malato (Jung 1935/2015), gli “stratagemmi tecnici” di cui ci serviamo sono determinanti (nel bene e nel male) per garantire la solidità del ponte stesso. Sul fatto che per risanare una psiche ce ne voglia un’altra non ho nulla da ridire, ma vista l’enorme velocità con cui la cultura cambia non c’è da sorprendersi che l’Homo sapiens fatichi a stare al passo. Lo dice bene un altro scrittore di fantascienza, più materialista di Philip Dick ma altrettanto visionario; quel “Lucrezio di Leopoli” che si è formato in medicina, filosofia e cibernetica dall’altra parte della cortina di ferro; e ha guardato al futuro con gli occhi di un «pessimismo scettico» e ateo (Marinelli 2023, p. 28). Nelle parole di Stanisław Lem: «La tecnologia è più aggressiva di quanto noi solitamente crediamo. Le sue ingerenze nella vita psichica, i problemi connessi con la sintesi e la metamorfosi della nostra personalità, […] costituiscono attualmente solo una classe vuota di fenomeni. A riempirla sarà il progresso futuro. Molti imperativi morali oggi considerati incrollabili, allora periranno, mentre emergeranno nuove problematiche e nuovi dilemmi etici» (2023, p. 89).

Noi “sani” del pianeta azzurro non possiamo che rassegnarci a una realtà sempre più relativa e sempre più virtuale; e se non vogliamo impazzire come i personaggi dei “romanzi ontologicamente incerti” di Philip K. Dick (Rossi 2011), dovremo imparare a convivere con l’idea che una “mente divisa” non è sinonimo di follia. Sette clan offre una visione sociale della psicopatologia secondo cui «comunità e salvezza vanno di pari passo» (ivi, posiz. 1867, tda). In altre parole, finché è preservata la capacità di fare fronte comune contro le forze del caos, allora perfino la psicosi può diventare una forma di adattamento. Magari quella del futuro, di un’umanità lontana da casa e strappata a sé stessa; scagliata in un mondo che la sua anima primordiale stenta a riconoscere.

Certo, se quello di Phil Dick è l’ennesimo tentativo di uno scrittore speculativo di azzeccare il futuro, allora non è proprio rosea la realtà che ci aspetta. Anche se, a dirla tutta, per quanto una colonia di ex pazienti psichiatrici non rappresenti un’utopia, fintanto che esisterà una forma di società fondata su relazioni reciproche, saremo ben lontani dal realizzare una vera follia; per esempio, quella della Terra in preda alla paranoia, non di un’ennesima Guerra mondiale, ma di un “mondo in guerra”. Un mondo «dominato dalla competizione, dall’intrigo, dalla lotta di potere, dalle cospirazioni» (ivi, posiz. 1798, tda). Un mondo dove la follia dei normali non lascia scampo a quel vuoto dell’anima che la psicosi tenta disperatamente di colmare.

Chissà però se per i lunatici ha fatto la differenza essere figli di una struttura che ha preso il nome di un pioniere della “svolta relazionale”. All’epoca in cui Dick scrive il romanzo, la psichiatria interpersonale è ancora agli albori; e l’ortopedia psichica è la normalità. Dunque è possibile immaginare che un approccio antipsichiatrico – alieno nella storia e negli anni in cui è stata scritta – possa aver preparato il terreno a un’umanità sì bizzarra, ma quantomeno ancora capace di “amare e lavorare”. Un adattamento, questo, che non sarà in linea con gli ideali del tempo, ma che sa preservare quella natura umana che si aliena così facilmente quando perdiamo il contatto con gli altri.


Note

  • [1] La CIA, che si serve del potere medico-legale per riprendere il controllo dell’ex colonia sanitaria e avere così un avamposto terrestre per meglio spiare i vicini alfani.
  • [2] E che Phil Dick ha scoperto proprio grazie a Jung negli anni Sessanta. Se ne servirà per creare «il primo libro assolutamente dickiano della sua carriera» (Carrère 2022, p. 13): L’uomo nell’alto castello.
  • [3] Una metafora per cui mi sento debitore all’I Ching di Sabbadini e Ritsema (2017, p. 31), dove scrivono che «i caratteri cinesi sono un po’ come quelle gemme iridescenti che assumono un diverso colore a seconda dell’angolo da cui le si guarda».

Bibliografia

  • Carrère E. 2016, Io sono vivo, voi siete morti, Adelphi, Milano.
  • Carrère E. 2022, Introduzione di Emmanuel Carrère, in Trevi E. (a cura di), L’uomo nell’alto castello, Mondadori, Milano, edizione Kindle.
  • Culbert-Koehn J. 1997, Between Bion and Jung. A talk with James Grotstein, in «The San Francisco Jung Institute Library Journal», vol. XV, fasc. 4.
  • Dick P.K. 2012, Follia per sette clan, Fanucci, Roma.
  • Einstein A., Freud S. 1932/2013, Perché la guerra?, in OSF, vol. XI, Bollati Boringhieri, Torino, edizione Kindle.
  • Foucault M. 2012, Storia della follia nell’età classica, BUR, Milano, edizione Kindle.
  • Freud S. 1929/2013, Il disagio della civiltà, in OSF, vol. X, Bollati Boringhieri, Torino, edizione Kindle.
  • Jung C.G. 1929/2015, Scopi della psicoterapia, in OCGJ, vol. XVI, Bollati Boringhieri, Torino, edizione Kindle.
  • Jung C.G. 1934/2015a, Il divenire della personalità, in OCGJ, vol. XVII, Bollati Boringhieri, Torino, edizione Kindle.
  • Jung C.G. 1934/2015b, Situazione attuale della psicoterapia, in OCGJ, vol. X*, Bollati Boringhieri, Torino, edizione Kindle.
  • Jung C.G. 1935/2013, Introduzione alla psicologia analitica. Cinque conferenze, Bollati Boringhieri, Torino.
  • Jung C.G. 1935/2015, Princìpi di psicoterapia pratica, in OCGJ, vol. XVI, Bollati Boringhieri, Torino, edizione Kindle.
  • Jung C.G. 1954/2015, Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche, in OCGJ, vol. VIII, Bollati Boringhieri, Torino, edizione Kindle.
  • LAPEF 2023, Psicoanalisi e fantascienza. Un confronto, a partire da Ph. K. Dick, https://www.youtube.com/watch?v=n-tgNdVU578&t=5378s
  • Lem S. 2023, Summa technologiae. Scritti sul futuro, Luiss University Press, Roma, edizione Kindle.
  • Marinelli L. 2023, Elementi di lemologia. Lemmi e dilemmi di Lem, in Marinelli L. (a cura di), Summa technologiae. Scritti sul futuro, Luiss University Press, Roma, edizione Kindle.
  • Pagetti C. 2022, Il mondo secondo Philip K. Dick, Mondadori, Milano.
  • Rossi U. 2011, The twisted worlds of Philip K. Dick. A reading of twenty ontologically uncertain novels, McFarland, Jefferson, edizione Kindle.
  • Sabbadini A.S., Ritsema R. 2017 (a cura di), I Ching. Il libro dei mutamenti, Feltrinelli, Milano.
  • Sutin L. 2018, Divine invasioni. La vita di Philip K. Dick, Fanucci, Roma, edizione Kindle.
  • Vadalà G.M. 2019, L’illusione necessaria. Sulla costruzione del significato in analisi, FrancoAngeli, Roma.
  • Vollman W.T. 2005, Europe central, Viking Press, New York, edizione Kindle.

Scarica il PDF

View Comments (0)

Leave a Reply

Your email address will not be published.


Quaderni di Cultura Junghiana © 2022 CIPA - Istituto di Roma e dell'Italia centrale Tutti i diritti riservati
È consentito l'uso di parti degli articoli, purché sia correttamente citata la fonte.
Registrazione del Tribunale di Roma n° 167/2018 con decreto dell’11/10/2018
P.iva 06514141008 | Privacy Policy