
2018 Nuova Serie Numero 0 A Tema
A CURA DELLA REDAZIONE Se si dovesse sintetizzare in cosa si esprime l’essenza e lo specifico dell’attività di cura della psiche, si potrebbe riassumerla nel suo continuo ‘stare tra’: Logos ed Eros, esperienza della relazione e possibilità di riflessione, pratica clinica e teoria. La rubrica a tema si pone come uno spazio di confronto, di espressione ed elaborazione di tutte le tematiche che partendo dalla pratica clinica evolvono in visioni della psiche, favorendo la possibilità di mantenere continuamente viva una sospensione che si interroga.
L’odore del sacro
Se creassimo una tassonomia linguistica dell’inconsistente, il lemma ‘sacro’ si collocherebbe ai vertici di quell’improbabile classifica dell’immateriale. Immaginiamo per un momento di trasportarci ne La Biblioteca di Babele di Jorge Luis Borges (1941) e di dover catalogare tutte le parole astratte che presentino una corrispondenza transculturale, assegnando poi a ciascuna di esse un valore capace di esprimerne il grado di astrazione e il tasso di congruenza tra le diverse lingue del pianeta: il termine ‘sacro’ potrebbe risultare come una delle parole più incorporee e contemporaneamente più diffuse al mondo attraverso i secoli, come un concetto universalmente presente e intrinsecamente assente perché impossibile da afferrare. Alla fine della ricerca, potremmo scoprire paradossalmente che il sacro coincide con la Biblioteca stessa. Esso sembra riferirsi a qualcosa di impalpabile, volatile, aereo, etimologicamente intangibile, eppure imponente. Infatti, nonostante il suo carattere di inconsistenza, il sacro allude a una dimensione che attraversa il tempo e lo spazio[2].
La (in-)consistenza del concetto rivela qualcosa di potente, ma contemporaneamente fragile, delicato, sottile, ineffabile, quasi inesistente – un ‘quasi-niente’, potremmo pensare con Vladimir Jankélévitch (1980). Pertanto si potrebbe meditare sul fatto che il sacro rappresenti un’idea talmente astratta da non esistere. Tuttavia dovremmo nuovamente considerare che se la lingua – o ipoteticamente tutte le lingue del mondo – ci forniscono una parola per designare quel qualcosa di intangibile, evidentemente esso gode di un certo grado di esistenza, per quanto sfuggente, altrimenti perché gli uomini avrebbero dovuto dare un nome a qualcosa che non esiste? Perché avrebbero avvertito l’esigenza di nominare quella cosa? (La necessità delle parole rivela molto della meta-psicologia delle culture e della multidimensionalità del reale, per cui per esempio, osservando le lingue da questa angolazione, potremmo scoprire che ‘drago’ e ‘pane’ oppure ‘silenzio’ e ‘acqua’ godono dello stesso grado di esistenza nella realtà psichica).
La fisionomia della parola ‘sacro’ esprime una geografia liminare che compone il concetto di confine con quello di contaminazione. Il sacro vive negli interstizi, è una congiunzione che da sola non significa niente, ma che contemporaneamente significa tanto. Esso rappresenta una forma di occultamento nello svelamento, un limite e un varco insieme, come il corpo calloso che unisce i due emisferi cerebrali, come l’oggetto transizionale di Donald Winnicott (1971): un orsacchiotto sospeso tra reale e virtuale, presenza e assenza.
Il sacro potrebbe essere pensato anche come una proprietà del simbolo, quella configurazione che secondo Carl Gustav Jung (1921, pp. 525-533), «non dice e non nasconde, ma accenna»[3], proprio come una donna incinta, presagio di una vita che è e non è ancora. Infatti il sanscrito *sak- indica l’aderire che è anche un avvincere e l’aggettivo ‘sacro’ rappresenta originariamente ciò che aderendo separa, opponendo il fanum (la manifestazione, il tempio) al profanum (lo spazio che sta di fronte al tempio). Il limite che sembra connotare il senso profondo del sacro, ne plasma la sua essenza borderline che lo rende un concetto antinomico: esso sta sempre tra due cose, esprime sempre una tensione tra istanze opposte, non risiede in nessun punto, ma si nutre di un movimento osmotico tra interno ed esterno, alto e basso.
Potremmo pensare il sacro come una postura psichica ed esistenziale oppure come una struttura della coscienza – come ci insegna Mircea Eliade (1956) – o ancora come una modulazione del nostro sguardo sul mondo, un atteggiamento interiore; in definitiva potremmo immaginarlo come una dimensione dell’esperienza luminosa e al contempo oscura, affascinante e tremenda (cfr. Otto, 1917). Tuttavia qualsiasi tentativo di definire astrattamente questo concetto risulterebbe come una ricerca impossibile, un’impresa eroica, una farraginosa manovra per schivare un inevitabile fallimento, per sfuggire alla parzialità, alla piccolezza dell’essere umano: come potrebbe un uomo circoscrivere qualcosa di così divino come il sacro? Un’operazione del genere assumerebbe il sapore di un paradosso o potrebbe tingersi di grottesco come se fosse il camouflage del tentativo di sfuggire alla morte stessa, pensandosi davvero talmente immortali, onnipotenti, divini da poter definire l’idea di Dio o qualcosa che abbia a che fare con il divino. Dunque cercare di delimitare aprioristicamente il senso del sacro sembrerebbe una specie di negazione della finitezza umana, dimenticando quanto Giuseppe G. Belli denunciava affermando che «la morte sta anniscosta in ner l’orloggi»[4]. Un esercizio intellettuale del genere, oggi, rientrerebbe nella cultura post-capitalistica dell’affaccendamento e dell’accumulazione – non meno feroce di quella capitalistica, sebbene si tratti di un affaccendamento concettuale e di un’accumulazione immateriale – come un tentativo di archiviarsi senza alcuna possibilità di consistere.
Forse l’opacità del concetto di sacro potrebbe acquisire un certo grado di plasticità solo attraverso un linguaggio più giocoso e patico: quell’inafferrabile probabilmente potrebbe diventare manipolabile, se declinato all’interno di un contesto linguistico – almeno un po’ – sensibile. Il senso del sacro esprimerebbe così non il suo significato intellettuale, ma l’ancoraggio della parola all’esperienza (in questo caso un’esperienza olfattiva); quell’aderenza empirica potrebbe comporre, ossia mettere insieme, la dimensione sensata, sensoriale e sensuale del linguaggio e delle immagini. Da un punto di vista epistemologico, accostarsi al sacro attraverso questa prospettiva potrebbe significare ricercare un metodo sensibile che confidi nella possibilità di accedere a un aspetto più incarnato della conoscenza e pertanto più aderente all’esperienza. (D’altronde, non credo che abbiamo altro modo di rapportarci alla realtà complessa della psiche, se non partendo proprio da una conoscenza sensibile e ineludibilmente empirica).
Dunque ritengo che per riflettere sul sacro sia necessario mettersi dei sassolini nelle tasche per schivare il pericolo di volare via con un discorso letteralmente troppo psichico – volatile, aereo – come quello sull’odore del sacro in chiave psicologica. È noto infatti che l’etimologia stessa della parola psiche allude allo pneuma, al soffio, a una dimensione impalpabile che in questa particolare occasione vogliamo anche immaginare come aromatica, odorosa.
Potremmo inoltre considerare che quando si accosta il lemma ‘sacro’ alla parola ‘psiche’, sia necessario tenere alta la soglia d’attenzione, pena il rischio di diventare come il Cavaliere del secchio di Franz Kafka (1921) che si librava a cavallo di un secchio, implorando una manciata di carbone per scaldarsi le ossa. Il sacro forse rappresenta anche quel carbone perché risponde a un bisogno tipicamente umano: il bisogno di spiritualità; esso descrive in fondo la necessità di dare senso a ciò che, per sua natura, senso non ha, come la vita stessa nell’incontro quotidiano e incomprensibile con la morte. La radice *sak- descrive appunto quel limite che, ridotto ai minimi termini, definisce il confine osmotico tra la vita e la morte.
In definitiva la riflessione intorno al sacro si configura come un vero e proprio campo minato, pieno di insidie, perché rischia di proiettarci nell’illusione di poter circoscrivere o imbrigliare qualcosa che invece eccede la possibilità di vivere nel linguaggio e che reclama la libertà di essere ciò che è, nella realtà viva della praxis.
Pertanto, lontano dalle trappole metafisiche e dai sensazionalismi che potrebbero farci prendere quota, tentiamo ora di operare un passaggio ponderato e sensibile dalla fisica alla metafisica, inteso anche come transito tra la dimensione biologica e quella culturale dell’esistenza. Questi due aspetti – solo concettualmente distinguibili, come frutto di un’astrazione logica, utile ai fini quest’argomentazione – non ammiccano a una dicotomia di memoria cartesiana (cfr. Damasio 1994), bensì descrivono, nei limiti del linguaggio, il carattere antinomico che costituisce la natura stessa della psiche e il carattere liminare del sacro[5].
Seguendo l’insegnamento di Jung, potremmo considerare che l’accesso alla dimensione simbolica dell’esistenza – in cui l’aspetto biologico e quello culturale non vivono d’insanabile opposizione – avviene attraverso l’attivazione della cosiddetta ‘funzione trascendente’. Essa a volte può rappresentare un approdo transitorio, più che una conquista definitiva, un intervallum insaniae, come talvolta accade nell’esperienza del sacro, dell’arte e dell’ironia. Nel glossario presente in calce ai Tipi, Jung (1921, pp. 525-533) precisa che l’aggettivo ‘trascendente’ non abbia niente a che fare con la metafisica, se intendiamo quest’ultimo termine come qualcosa che travalica il piano dell’immanenza psichica. La funzione trascendente indica piuttosto quel particolare dispositivo psichico, frutto dell’insieme delle funzioni psichiche, capace di attivare il transito da una cosa a un’altra cosa, da un atteggiamento a un altro atteggiamento. Potremmo utilizzare una metafora spaziale immaginando che questo movimento non allude a una cinetica verticale – un passaggio tra un sotto e un sopra, come un’ascesi, un’elevazione –, né si riferisce a un’osmosi tra interno ed esterno, come dinamica esoterica-essoterica. La trascendenza per Jung indica piuttosto il passaggio tra i due poli di un’antinomia, intesa appunto come condizione costituiva della psiche; essa riguarda pertanto qualcosa che avviene in un piano immanente, interno, puramente psichico ed esperienziale, che resta comunque saldamente ancorato alla terra.
Il sacro come ‘coerenza delle zanne della tigre’
Finora abbiamo dunque considerato che nella visione junghiana, il sacro costituisce un’esperienza psichica radicata nel bisogno umano di spiritualità. Esso, talvolta, può fungere da catalizzatore della funzione trascendente che permette l’accesso al simbolico, alla dimensione simbolica dell’esistenza; tuttavia, quando la tensione antinomica non viene canalizzata nella costituzione del simbolo, l’esperienza del sacro può anche determinare un’inflazione della componente spirituale dell’uomo, con conseguente perdita del senso di realtà: come a dire che a furia di guardare verso l’alto, perdiamo l’aderenza a ciò che sta in basso, al senso comune. Questo è quanto accade in alcune manifestazioni psicotiche con particolare riferimento ai multiformi fenomeni dissociativi descritti dalla letteratura psicopatologica; da ciò deriva anche uno dei compiti fondamentali della psicoterapia indicato acutamente da Ludwig Binswanger quando afferma che la principale missione dell’analisi è proprio quella di riportare il paziente ‘sulla terra’[6]. Dunque tutto consiste nel saper cogliere la giusta modulazione tra umano e divino, lavorando per Cesare e per Dio, contemporaneamente.
Le antinomie che compongono il sacro sono tante quante quelle che rendono incomprensibile e paradossale l’esistenza. È proprio la coniunctio oppositorum a caratterizzare in ultima analisi l’essenza del sacro nel suo duplice aspetto: Fascinans (luminoso e numinoso) e Tremendum (terrificante e oscuro), come ci ricorda tra gli altri Rudolph Otto (1917). Per cogliere questa peculiare sintesi d’opposti, possiamo riferirci alla matrice cristiano-cattolica di cui è impregnato il nostro substrato culturale. In particolare potremmo pensare all’esperienza dei santi e delle sante di ogni temperamento e latitudine, al loro oscillare tra l’estasi mistica, la bellezza luminosa e la grazia della contemplazione del sacro e, contemporaneamente, la passione e il dolore nella forma estrema della sofferenza fisica, come nel fenomeno delle stigmate.
La dimensione olfattiva rappresenta uno scorcio privilegiato per poter cogliere, nell’immediatezza dell’esperienza, il senso della tensione antinomica del sacro. Per esempio, in alcune narrazioni agiografiche – come quella di San Pio da Pietralcina o di Santa Teresa d’Avila – le stigmate stesse o il corpo in decomposizione subiscono una metamorfosi odorosa, un’enantiodromia (cfr. nota 4) aromatica: l’acredine della putrefazione della carne si trasforma nel suo opposto, nel profumo più soave e delicato, come quello di una rosa. Da qui deriva l’espressione ‘in odore di santità’, utilizzata per sancire la canonizzazione dei santi, la prova della loro sacralità immanente. In quelle esperienze la dimensione olfattiva diventa una specie di setting sperimentale in cui si immagina possibile la verifica ontologica della congiunzione degli opposti nell’esperienza del sacro. L’odore di santità costituisce la prova dell’inatteso nell’ordinario, proprio attraverso la sublimazione della morte in un profumo tanto vitale quanto quello di un fiore. Ritengo che quella trasformazione odorosa rappresenti una metafora potente di tutte le imprese umane che riescano ad aprire una breccia nella miseria naturale dell’uomo, nella sua precarietà costitutiva, nel suo lezzo intrinseco. Ogni volta che uno scrittore scrive veramente, che un compositore compone autenticamente, che un uomo sta ‘vicino al cuore selvaggio della vita’ (Joyce 1916) o che semplicemente riesce ad accedere a una grazia minima, a un ‘non so che, che si trova per caso’ (cfr. Giovanni della Croce) è come se il suo corpo morto emanasse – almeno per una manciata di secondi (che diventano eterni) – un profumo vitale, talmente intenso da infondere in tutti gli altri esseri umani la fiducia in un senso dell’esistenza. Quella trasformazione odorosa così paradossale caratterizza l’essenza intima di ciò che Giorgio Manganelli (1945-1962, p. 32) ha definito come ‘coerenza delle zanne della tigre’. Manganelli descrive così la possibilità di afferrare uno sprazzo incostante di bellezza nella crudeltà costitutiva dell’esistenza, come sentire un odore preciso in un punto esatto:
dove non c’erano parole/ dove non ci sono parole/ nel centro del centro del centro/ delle cose sorde, vitali, sanguinose/ dove si enumerano stomaco/ unghie, genitali/ intestini lunghissimi, zampe/ e le lacrime sono lacrime/ per sangue che esce da carne lacerata/ per l’orrore forte della morte/ dove si redigono cataloghi/ di urli, di minacce, di carne/ del male carnale solamente/ dove non c’è amore né lussuria/ ma la voglia gagliarda della vita/ il centro dell’inguine/ che matura insensato nelle cose (ibidem).
La declinazione immanente del sacro nell’eredità di Mario Trevi
L’odore del sacro rimanda a una dimensione vitale originaria che contemporaneamente ci invita, in questa sede, a lasciare da parte il racconto agiografico per addentrarci invece in una riflessione più ordinaria e soprattutto laica – potremmo dire più umana, meno santa. Per esempio, a proposito di rapporto con il sacro e con la spiritualità, mi piace ricordare una battuta di Mario Trevi, in cui mi riconosco profondamente. Egli soleva dire: «sono ateo, ma prego tre volte al giorno». La sua ironia acuta e raffinata ci permette di introdurre un elemento centrale nell’articolazione della riflessione junghiana sul sacro. Mi riferisco alla declinazione del sacro in una dimensione laica di immanenza che potrebbe essere sintetizzata nella critica ai versetti del Vangelo di Luca «Dio è tra voi» anziché «in voi». Jung, in diversi passaggi della sua opera (e.g. Jung 1944, p. 14) ha sostenuto che la sciagurata traduzione ‘tra noi’, anziché ‘in noi’, abbia sancito l’errore dell’Occidente rispetto alla relazione con il sacro poiché ha suggellato una separazione insanabile: «la perdita del rapporto misterioso con l’uomo interiore» (ibidem). Questa riflessione critica ci introduce pertanto all’interno di una prospettiva non più teologica, ma interamente psicologica. Mario Trevi ha approfondito questa visione in un saggio illuminante intitolato Il modello Io-Sé nell’interpretazione del fenomeno della preghiera (Trevi 1988). In quello scritto si parte dalla constatazione dell’universalità del fenomeno della preghiera come pratica comune agli uomini di ogni tempo e spazio. Il fatto che l’uomo contemporaneo, almeno apparentemente, non preghi non ne inficia l’universalità. Il modello Io-Sé junghiano, ovviamente, non rappresenta una realtà ontologicamente definita, ma uno schema duttile e provvisorio, utile all’interpretazione della vita psichica. Esso costituisce la traduzione psicologica del rapporto tra l’uomo e il sacro o – potremmo riformulare – tra l’immagine più istintuale e quella più divina dell’uomo. Infatti per Jung l’Io rappresenta il centro dei complessi psichici che contiene in sé lo schema corporeo e che permette il radicamento alla realtà e il dialogo con l’esterno, mentre il Sé descrive il corrispondente psicologico del sacro, nella polarità Fascinans-Tremendum.
L’Io è caratterizzato da una logica dirimente, che si articola tra opposti e che risponde ai principi aristotelici di identità, non contraddizione e del tertium non datur, viceversa il Sé segue una logica componente, capace di tenere uniti i contrari «in uno sforzo doloroso e sublime, tuttavia sublimamente irenico e composto» (ivi, p. 111). L’Io ha a disposizione la facoltà del giudizio. È direttivo, lineare, semplice; il Sé ha a che fare con il simbolico ed è invece rizomatico, polidimensionale, complesso. L’Io decide, agisce, opera. Il Sé non discerne, non agisce, non opera.
La dimensione emozionale dell’Io è l’ansia, l’affanno, il fare, la cura, il suono e il finito. La dimensione emozionale del Sé è la pace, l’abbandono, il non fare, la trascuranza, il silenzio, l’infinito. L’Io costituisce la dimensione del ricordo e della memoria; il Sé quella dell’oblio e del silenzio.
Nel fenomeno della preghiera la polarità Io-Sé appare rappresentata in modo trasparente. Infatti se per esempio analizzassimo le preghiere dell’ecumene cristiano-cattolica – come ci invita a fare lo stesso Trevi – potremmo accorgerci di come esse siano strutturate antinomicamente: esiste sempre una parte di richiesta e una di accettazione che corrispondono, specularmente, al bisogno dell’Io – ancorato a una dimensione funzionale – e a quello del Sé che contempla. Pensiamo per esempio al Padre Nostro. Esso è diviso in una prima parte di accettazione/contemplazione: «Padre Nostro che sei nei cieli/ sia santificato il tuo nome/ venga il tuo Regno/sia fatta la tua volontà»; segue la richiesta dell’Io che appare quasi un lamento: «Dacci oggi il nostro pane quotidiano/ rimetti a noi i nostri debiti/ non indurci in tentazione/ liberaci dal male». Secondo Trevi queste due parti di richiesta e accettazione/ contemplazione corrispondono agli atteggiamenti universali della strumentalizzazione e della comunicazione e alle pratiche spirituali della magia e del misticismo. Infatti la magia indica una strumentalizzazione della sfera del sacro per raggiungere un fine, un’utilità personale o collettiva, viceversa il misticismo afferisce a una dimensione non funzionale, come comunicazione o comunione con il divino – come Arte, potremmo pensare in ultima analisi, nell’accezione più nobile del termine. Nel fenomeno della preghiera, come pratica del sacro, esiste un intreccio indissolubile tra la richiesta e l’accettazione: «al limite della richiesta c’è l’accettazione e al limite dell’accettazione c’è la richiesta, se non altro sotto la forma della supplica di renderci capaci di sopportare il dolore inevitabilmente connesso all’esistenza» (ivi, p. 112).
La complessità del modello junghiano Io-Sé attraverso Meister Eckhart e Angelus Silesius
Ciò che è veramente difficile da comprendere nel modello Io-Sé di Jung, come nella relazione tra l’uomo e il sacro, non sono le singole istanze, ma la relazione tra le parti. La paradossalità di queste relazioni si fonda in particolare su tre elementi:
- la reciproca paternità: l’Io nasce dal Sé, come il Sé dall’Io;
- la complementarità: non può esistere un Io senza un Sé e un Sé senza Io;
- la reciproca inclusività: l’Io è dentro il Sé, come il Sé dentro l’Io.
Se il Sé è la totalità della psiche si può comprendere come esso includa l’Io, ma è molto difficile comprendere come esso sia a sua volta incluso nell’Io. Trevi in un passaggio commovente ci ricorda che «tutta la storia dell’uomo è un’illustrazione di questa paradossalità. L’Io produce il Sé in ogni momento del tempo» (ivi, p. 110).
La tradizione mistica ci consegna innumerevoli esempi di questa paradossalità «che viene proiettata sullo schermo fantastico del divino e più propriamente sullo schermo mitico e favoloso del rapporto tra umano e divino» (ibidem).
Pensiamo a Meister Eckhart – peraltro citato dallo stesso Jung – quando, rispondendo alla domanda sul perché preghiamo, afferma: «perché Dio nasca nell’anima e l’anima a sua volta in Dio. L’intima essenza di ogni granello significa frumento, e di ogni metallo oro e di ogni nascita l’uomo!» (Jung 1921, p. 272). Eckhart parla di essenza nel descrivere il rapporto Uomo-Dio che rispecchia la relazione Io-Sé. Potremmo riflettere sul fatto che quando ci si riferisce all’odore si utilizzi proprio questo termine – ‘essenza’ – a indicare il prodotto di una distillazione, come se l’odore rappresentasse di per sé la possibilità di arrivare al cuore di quella paradossalità che, per Trevi, descrive tutta la storia dell’uomo. L’odore costituisce metaforicamente la possibilità irreale di estrarre l’intima essenza di una paradossalità. Esso allude infatti, contemporaneamente, a qualcosa di invisibile e intangibile, ma anche, paradossalmente, a una presenza autoevidente e pervasiva.
Un altro esempio che esprime bene la reciproca l’inclusività dell’Io nel Sé, come dell’uomo in Dio, può essere rintracciato nel pensiero di Angelus Silesius che Jung definisce di una «chiarezza trasparente» (cfr. Jung 1921, p. 277) o per noi ‘aromatica’, lo stesso che ci ammonisce suggerendoci: «Amico, basta oramai. Se vuoi leggere ancora, va e diventa tu stesso la Scrittura e l’Essenza» (Silesio 1992, p. 399). Silesio anticipa la reciproca inclusività dell’Io-Sé di Jung con queste parole: «Io sono creatura e figlio di Dio, egli è a sua volta il mio figliuolo. Come accade allora che entrambi sono entrambe le cose? Io stesso devo essere il sole, io devo con i miei raggi dar colore al mare scialbo della divinità» (cfr. Jung 1921, p. 278).
L’origine è la meta
È importante sottolineare come possano essere individuati due aspetti del Sé: uno originario, il centro propulsore di sviluppo della personalità, e uno che è effetto o conseguenza del processo individuativo, un Sé processuale. Questa duplicità di aspetti, originario- processuale, può essere ritrovata nella fenomenologia dell’odore; esso infatti esprime una sorta di indizio sensoriale che spinge alla ricerca della sostanza che lo emana, come attraverso un metodos indiziario-olfattivo e, d’altra parte, può essere anche immaginato come acmé, ovvero picco esperienziale, poiché l’odore ha la caratteristica di assalirci, di avvolgerci in tutta la nostra fisicità, come in una esperienza immersiva. Così il Sacro può essere immaginato come elemento catalizzatore che induce alla dinamis e, contemporaneamente, come pienezza d’equilibrio, come pace della stasi contemplativa. Questa duplicità, che esprime la complessità del Sé nell’essere origine, fine e processo, può essere rintracciata nel monito che Nietzsche (1888) riprende dall’antica saggezza di Pindaro: «Diventa ciò che sei» e riecheggia anche nelle parole oracolari di Karl Kraus: «Origine è la meta» (1913, p. 74-76)[7].
Potremmo sostenere che mentre Sigmund Freud (1933, p. 191) contempla una parte della reciproca inclusività tra istanze psichiche (‘Dov’era l’Es, ci sarà l’Io’), egli tuttavia non effettua mai, almeno esplicitamente, un rovesciamento della relazione tra le istanze psichiche (‘Dov’è l’Io, deve subentrare l’Es’). Questa operazione rappresenta quello che Jung descrive nel secondo capitolo dei Tipi Psicologici e in particolare costituisce una prerogativa degli uomini che esplorano l’abisso, il territorio dell’infinito e dell’ignoto. Nella vita umana appare necessaria una complementarità e un’alternanza costante tra la dimensione dirimente e logica dell’Io e quella componente e analogica del Sé, allo stesso modo in cui appare indispensabile l’alternanza veglia-sonno come ritmo circadiano, pena l’annoso rischio dell’inflazione e quindi anche della dissociazione. La vitalità consiste proprio nella possibilità che si instauri tra le parti un rapporto enantiodromico, una doppia corsa all’incontrario, in cui una dimensione subentra dove l’altra si esaurisce. Attenzione però: la circolarità Io-Sé non riguarda un rapporto tra due istanze intese come mutualmente escludentisi ossia presenti in modo nettamente disgiunto, come se ci fossero delle fasi in cui Io e Sé si susseguono, prima c’è l’uno e poi l’altro. Nella realtà viva non esistono categorie draconiane come le voci di un oroscopo che descrivono l’esistenza a compartimenti stagni: amore, lavoro, denaro; d’altronde neanche il sonno e la veglia possono essere considerate come dimensioni psichiche rigidamente separate, infatti anche durante la veglia si può attingere a un pensiero non direttivo che ‘compensa’ il pensiero tipicamente direttivo tipico della veglia stessa. Se questo non accadesse non avremmo l’arte, la poesia, la musica[8]. Trevi sostiene in modo perentorio la necessità di comporre continuamente l’Io con il Sé):
Un uomo che pensasse solo con il pensiero del Sé diventerebbe folle e inutile (come Nietzsche nell’ultimo periodo della sua vita), viceversa un uomo esclusivamente calato nella dimensione dell’Io diventerebbe pedante piatto, insopportabile come i funzionari di Cechov o Pirandello. La dimensione del Sé si esprime dunque con il linguaggio dei poeti e con il silenzio. Tuttavia da sola conduce all’inflazione. L’Io ha il preciso compito di lottare, di decidere e di agire anche contro gli assertori della pace e dell’infinito e del Sé. L’Io ha il compito etico dell’aderenza al reale che deve necessariamente e almeno alternativamente entrare nel mondo, penetrarvi, prendere parte, fallire (Trevi 1988, p. 122).
Il sacro, il sogno e il senso
Potremmo immaginare che la declinazione del sacro nell’uomo, il suo bisogno umano troppo umano (cfr. Nietzsche 1878) di spiritualità, possa tradursi nell’esperienza ordinaria delle immagini psichiche e, in particolare, di quelle oniriche. In questa prospettiva, il sogno diverrebbe la manifestazione ordinaria della sacralità immanente dell’uomo, una specie di miracolo quotidiano che permette di connetterci a una dimensione spirituale e simbolica dell’esistenza. La realtà psichica è intessuta di immagini; in particolare le immagini oniriche costituiscono la possibilità di accedere all’imago divina dell’uomo, alla sua parte psichica più profonda. Essa non rappresenta qualcosa di metafisico ovvero di separato, staccato dalla fisica dei sensi, ma al contrario appare inestricabilmente legata al sentire e pertanto all’aisthesis. A questo proposito, mi pare opportuno riferirmi al pensiero di James Hillman, in particolare a un suo scritto minore del 1979, intitolato Image-sense, che propone di approcciarsi alla realtà della psiche proprio attraverso un metodo estetico.
Se da una parte Trevi ci invita a un cauto nominalismo in cui l’Io-Sé non può essere pensato come realtà ontologica, ma come modello duttile e provvisorio che lasci la psiche libera di essere ciò che è, d’altra parte Hillman suggerisce di operare un ulteriore passaggio logico fondato sulla deletteralizzazione del linguaggio dei sensi. Con questo termine, lo psicoanalista americano indica la possibilità di avvicinarsi alle immagini psichiche utilizzando un linguaggio sensibile che, tuttavia, richiede una trascendenza estetica. Infatti, generalmente, le immagini psichiche vengono percepite ovvero afferrate (to grasp) prendendo in prestito il linguaggio delle immagini sensoriali (vedere, sentire, annusare le immagini). La de-letteralizzazione comporta invece l’educazione ad andare oltre il senso letterale, mediante una mentalità sinestetica. Hillman, per esemplificare questo concetto, riporta le immagini di un sogno: un uomo sta in una caverna che all’improvviso inizia a declinare all’indietro e verso il basso.
Nell’afferrare le immagini del sogno, non c’è bisogno secondo Hillman di immaginare la grotta come regressione allo stato uterino riferendosi alla teoria freudiana; né è necessario invocare la nigredo alla maniera alchemico-archetipica junghiana. Potrebbe essere utile, invece, vedere attraverso l’immagine di quella cavità in cui all’improvviso – come nell’eco della grotta stessa – risuonano le parole ‘all’indietro’ e ‘verso il basso’ che ci riportano così a una precisa atmosfera psichica. Quell’immagine sinestetica, visiva e uditiva insieme, secondo Hillman può essere colta solo sviluppando un buon fiuto. È necessario sentire l’odore di quella grotta e per far ciò bisogna restare legati al piano dell’immagine e non cercare il significato dell’immagine di fronte all’immagine stessa (un po’ come diceva Ludwig Wittgenstein a proposito del linguaggio; cfr. Gargani 2008). In questo modo si potrebbe comporre il sense con il second sense che funziona in modo analogo alla percezione olfattiva.
In definitiva Hillman propone una rivoluzione analogica che consiste nel passaggio dalla simbolizzazione che ci insegnano a scuola – intesa come conoscenza circa le immagini, attraverso una logica del ‘come se’ –, all’immaginazione pura che significa stare dentro le immagini. La proposta dello psicoanalista americano consiste in un superamento dell’antinomia senso- fisico (sense) / senso-spirituale (second sense); quest’ultima richiama l’antica scissione senso- intelletto condensata nel motto nihil est in intellectu quod non antea fuerit in sensu. Secondo Hillman in questa visione riecheggia ancora la logica cartesiana di una divisione rigida mente/corpo. Pertanto appare necessario un passaggio all’aisthesis pura, alla realtà estetica come possibilità di comporre le immagini sensoriali – diremmo noi esperite dall’Io – con quelle spirituali del Sé. Attraverso il metodo estetico, le immagini oniriche, riflesso della spiritualità umana, diventerebbero contemporaneamente sensate, sensoriali e sensuali.
Afferrare le immagini psichiche per Hillman sembra assomigliare all’afferrare il mondo con l’orecchio di Wittgenstein; tuttavia, per lo psicoanalista statunitense, questa operazione appare ascrivibile al mondo olfattivo più che a quello uditivo.
Come per Eraclito, anche per Hillman l’olfatto rappresenta il percetto più sottile e il più preciso e, contemporaneamente, quello che ci permette di accedere a una dimensione spirituale e sensoriale insieme. «Dio distingue le cose con le narici» (Eraclito 7, 67, 98; cfr. Hillman 1979, p. 181). Coltivare la spiritualità, il sacro nell’uomo, significa educarsi all’immaginazione che richiede gli strumenti dell’intuizione sensibile e della sensazione intuita. Queste disposizioni percettive funzionano in maniera analoga alla fenomenologia olfattiva. In definitiva potremmo pensare che le immagini del sogno debbano essere ‘annusate’ cioè colte attraverso una modalità estetica che rispecchia metaforicamente il funzionamento della percezione olfattiva. Infatti, per esempio, le immagini oniriche si presentano in una modalità pervasiva che ci investe nella sua totalità: siamo immersi nell’immagine onirica proprio come nell’odore che, a differenza degli altri percetti, ci assale completamente; sentire un odore significa sentire qualcosa con tutto il corpo. Inoltre le immagini oniriche sono parassitarie proprio come l’odore: il loro senso non può essere staccato dall’immagine che lo veicola – attraverso un’interpretazione in cui il significato sia concepito come di fronte all’immagine; al contrario, il senso dell’immagine resta ‘attaccato’ (to stick at) a essa. Allo stesso modo l’odore non può essere separato dalla sostanza che lo emana: il profumo di una rosa è indissolubilmente legato alla rosa, come il senso del sogno richiede un’aderenza all’immagine del sogno. Infine l’odore, in conseguenza del suo carattere parassitario, esige una precisione percettiva: l’odore di una cosa è proprio l’odore di quella cosa e non di un’altra, ciò che i greci chiamavano diakrisis; allo stesso modo potremmo sostenere che cogliere il senso di un’immagine onirica significa avere un buon fiuto, richiede cioè una precisione intuitiva e sensibile, un’esattezza odorosa che non si può descrivere al di fuori della realtà empirica della psiche. Quella precisione, come intuizione sensibile e sensazione intuita, rappresenta in definitiva la possibilità di cogliere il sacro, un’essenza esatta che può essere annusata, ma che non può essere evocata. Richiede presenza e abbandono contemporaneamente, non la possiamo costruire intenzionalmente – (l’odore è qualcosa di diverso dal profumo: gli dei fabbricano odori, gli uomini profumi). L’odore ci accade, proprio come l’immagine onirica. Pertanto, la realtà della psiche reclama la possibilità di essere afferrata, almeno temporaneamente, attraverso un’educazione sensibile che è un po’ come esercitarsi ad affinare il fiuto, come rispondere al bisogno umano di annusare l’infinito nel quale siamo immersi.
Una preghiera per l’analisi
Mario Trevi ha considerato che tutta la storia del pensiero umano possa essere immaginata come una filosofia dei bisogni umani. Egli ritiene che il bisogno che più caratterizza l’uomo contemporaneo sia quello di «dominare l’infinito che ci assedia da tutte le parti, e il conseguente bisogno di dominare il rischio estremo di morte dell’intera umanità con la produzione di una nuova etica e di una nuova bellezza mai viste o sperimentate» (Trevi 1988,109). Trevi aggiunge che il filosofo del futuro «nascerà dal nostro coraggio di vivere nel rischio estremo» (ibidem).
Ritengo che nel tempo della riproducibilità tecnica di qualunque percetto, la quota di coraggio di cui parla Mario Trevi sia da rintracciare nella possibilità di preservare un certo grado di umanità sensibile, non digitalizzabile – quella parte di sacro che è in noi, non tra noi – proteggendola dalla travolgente fenomenologia della smaterializzazione del corpo che stiamo attraversando.
In effetti, riflettendoci, non siamo ancora stati capaci di digitalizzare l’odore. Esso appare come qualcosa che eccede la possibilità di essere tradotto in una sequenza dicotomica di zeri e uno. Non esiste ancora un algoritmo dell’odore. L’olfatto segue le leggi della chimica o – potremmo osare – dell’alchimia. Mi preme precisare che questo non intende configurarsi come un discorso apocalittico (cfr. Eco,1964). Considero la tecnologia un pharmacon, come ci insegna Platone (Fedro, 274c-275b) a proposito dell’invenzione della scrittura – una delle prime forme di tecnologia. Essa può essere una medicina, ma può trasformarsi anche in veleno: tutto dipende dal come venga utilizzata. Qui la quota di sensibilità non digitalizzabile a cui faccio riferimento, non ammicca a una critica alla tecnologia tout court, bensì riguarda la possibilità di mantenere anche una distanza rispetto al nostro bisogno di traduzione algoritmica, di smaterializzazione corporea: la capacità di sapersi anche espellere dallo spettacolo contemporaneo è altrettanto importante della capacità di adattamento che coincide con la partecipazione allo spettacolo. Certe volte sospendere il gioco è essenziale tanto quanto saper giocare. Credo che recuperare una sensibilità olfattiva – deletteralizzandola alla maniera hillmaniana – possa costituire un metodo estetico efficace per preservare la propria quota di umanità nell’incessante, spasmodica corsa dell’uomo contemporaneo verso il suo bisogno di dominare l’infinito: è come esercitarsi a odorare quell’infinito anziché spiegarlo, come immergersi nello stupore dell’immensità invece di ostinarsi ad addomesticarsela in zeri e uno. Il sacro rappresenta per noi quell’infinito, un’oscurità luminosa della quale partecipiamo e che è, contemporaneamente, parte di noi.
La riflessione di Mario Trevi, attraverso l’interpretazione del fenomeno della preghiera, mi spinge a immaginare il filosofo del futuro come un filosofo dell’odore e l’analista del futuro come colui che si esercita nella capacità di sentire ancora l’odore delle parole. D’altra parte, la sensibilità estetica, auspicata da James Hillman, nella talking cure diventa inevitabilmente parola, una parola sensibile e odorosa, capace talvolta di curare. Friedrich Nietzsche ha anticipato questa visione ricordandoci che ogni parola ha il suo odore. Esiste un’armonia e una disarmonia dell’odore e dunque della parola (cfr. Nietzsche 1888) che – probabilmente mai come in questo momento storico – ci sta pregando di affinare il fiuto.
Note
- [1] Psicologa, analista del CIPA.
- [2] In riferimento all’estensione temporale dell’esperienza del sacro, si pensi alle testimonianze pittoriche rupestri della preistoria; a questo proposito mi permetto di rimandare a una mia pubblicazione relativa a ‘Grotta dei Cervi’ conosciuta come il complesso pittorico neolitico più cospicuo d’Europa e considerata come la Cappella Sistina della preistoria (Cristante – Gigante 2017). Per quanto riguarda inoltre l’estensione spaziale della dimensione del sacro e il suo valore transculturale, potremmo riferirci per esempio alla ricerca di Henri Hubert e Marcel Mauss (1899), Émile Durkheim (1912), Rudolf Otto (1917) e Mircea Eliade (1956).
- [3] Jung ha ripreso questa espressione da Eraclito; cfr. Colli G. (a cura di), La Sapienza greca, vol. III, Adelphi, Milano 1980, p. 21; cit. in Aversa L., Interpretazione e individuazione. Progetto ermeneutico per la Psicologia Analitica, Borla, Roma 1987, p. 53; cit. in Gigante E., Del miraggio, della trasparenza. Le immagini sonore tra limite e sacro, in «Atque. Materiali tra filosofia e psicoterapia», n. 14, Moretti&Vitali, Bergamo 2014, pp. 157-185.
- [4] ‘La morte sta nascosta negli orologi’; cfr. G.G. Belli, La golaccia, in Id., Tutti i sonetti romaneschi, Roma, Newton Compton, Roma 1998.
- [5] Carl Gustav Jung ha immaginato tutta la vita psichica come una tensione tra opposti che può sfociare in un conflitto temporaneamente o cronicamente insanabile quando l’energia psichica si arresta su uno dei due poli dell’antinomia. Il blocco dell’energia vitale su una polarità di opposti produce ciò che noi chiamiamo sintomo. Viceversa la tensione antinomica può trasformarsi in un movimento fluido che – nel linguaggio ‘gnostico- barocco’ di Jung (cfr. Trevi 1988) direttamente ripreso da Eraclito – è stato definito come ‘enantiodromia’. Essa rappresenta letteralmente la corsa nell’opposto, un flusso tra tesi e antitesi senza soppressione di alcuna delle due parti. Questa dinamica determinerebbe la composizione (da cum-ponere cioè mettere insieme) dei due poli antinomici in un terzo che chiamiamo simbolo.
- [6] «Ciò che chiamiamo psicoterapia non è altro in fondo che una pratica intesa a far sì che l’ammalato giunga a ‘vedere’ la struttura complessiva dell’esistenza umana, il suo ‘essere-nel-mondo’ e a capire il punto in cui egli si è smarrito […] significa ricuperare l’ammalato dalla situazione […] in cui si trova e riportarlo ‘sulla terra’; soltanto dalla terra è possibile una nuova partenza, una nuova ascesa»; cfr. Binswanger L. 1956, Tre forme di esistenza mancata, SE, Milano, 2011, pp. 23-24.
- [7] La forma originale dell’aforisma è: «Du bleibst am Ursprung. Ursprung ist das Ziel», trad. «Rimani presso l’origine. Origine è la meta»; cit. in I. Fantappiè, Pensieri shakespeariani come leggi dello stato. Letteratura e diritto in Karl Kraus, «Between», II.3, 2012, reperibile online all’indirizzo: http://www.Between-journal.it/, consultato il 26 marzo 2017.
- [8] Anche le neuroscienze sembrano confermare questa ipotesi, si pensi all’analisi in frequenza delle onde cerebrali praticata attraverso l’EEG: le onde beta – che caratterizzano tipicamente la veglia e che hanno frequenze più elevate – possono essere accompagnate da onde con frequenze inferiori come per esempio le onde alfa che indicano una stato di maggior rilassamento, tipico dello stato di veglia a occhi chiusi; tuttavia le onde beta possono anche essere accompagnate da onde a frequenze ancora più basse che ritroviamo tipicamente negli stati di sonno, come le onde delta e theta. È stato dimostrato, per esempio, che le onde theta – tipiche del sonno profondo senza sogni e dell’attività onirica – si ritrovano anche nella veglia creativa, quando l’uomo è impegnato in compiti immaginativi; cfr. Sawyer K., The Cognitive Neuroscience of Creativity: A Critical Review, «Creativity Research Journal», 23(2), 2011, pp. 137-154, https://doi.org/10.1080/10400419.20 11.571191.
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