
2014 Numero 3 Aperture
A CURA DELLA REDAZIONE Cosa ne sarebbe della psicologia analitica, ma anche della psicoterapia più in generale, se essa si chiudesse esclusivamente all’interno della propria stanza? Se è vero che è nell’intimità sacra dello spazio di lavoro che si coagulano i processi di cura, è anche vero che solo nell’apertura all’esterno essi trovano lo spazio per respirare, esistere, radicarsi e restare vitali. In questa rubrica, lo sguardo analitico degli Autori si volgerà verso l’esterno – arte, vita, esperienze… – alla ricerca di connessioni, legami, contaminazioni, affinché il ritmo vitale del dentro/fuori, interno/esterno apra alla possibilità di una riflessione analitica sempre vivace e feconda.
L’ambiguità del logos nell’Agamennone di Eschilo
In un noto articolo apparso nel 1955, Thomas Rosenmeyer avanza la tesi di un’analogia fra la concezione di ‘illusione tragica’ proposta dal sofista/retore Gorgia di Leontini e quella implicita nei drammi di Eschilo, che lo studioso tende a riscattare da una visione didascalica e religiosa. Eschilo è pienamente padrone del mezzo drammaturgico che ha potentemente contribuito a sviluppare e se ne serve con piena coscienza estetica, senza attribuire ad esso lo scopo di trasmettere ammonimenti morali. Questa consapevolezza sembra avvicinarlo alle idee che saranno in seguito sviluppate da Gorgia nell’ambito della sua riflessione sul potere della parola, e, in particolare, della parola poetica. Nel saggio Rosenmeyer incidentalmente annota che i due personaggi potrebbero addirittura essersi incontrati in Sicilia, e più specificamente proprio qui a Siracusa, in occasione della rappresentazione di una delle opere di Eschilo nell’isola (Rosenmeyer T.G. 1955, p. 233).
Molto più recentemente, nel 2012, uno studioso americano, David Sansone, ha pubblicato uno studio dal titolo Greek Drama and the Invention of Tragedy. La tesi del libro è che il luogo d’origine della retorica vada individuato nella tragedia, una tesi peraltro contestata da altri studiosi (Sansone D. 2012, pp. X-XI). In questo quadro Sansone inserisce un’ampia trattazione dei rapporti fra Eschilo e Gorgia, sostenendo una specifica e decisa influenza del drammaturgo sul sofista. Tale influenza è provata da Sansone sulla base di numerose concordanze lessicali, e sostenuta in termini più generali dall’affermazione di Aristotele (Retorica, 1404a 26-36) secondo la quale Gorgia fece tanta impressione al suo arrivo ad Atene, nel 427 a.C., in quanto fu il primo ad applicare alla prosa lo stile poetico. Gorgia, molto più giovane di Eschilo – la sua data di nascita è collocata intorno al 470 a.C., quando il poeta (525-456 a.C.) aveva già vinto una gara nell’agone tragico ateniese –, avrebbe non solo tratto profonda ispirazione nella sua elaborazione della retorica e dell’arte del discorso dalla grande innovazione costituita dalla tragedia, ma avrebbe direttamente riecheggiato nei suoi scritti espressioni presenti nell’opera di Eschilo1.
Non è certo mia intenzione in questa sede affrontare il tema del debito contratto da Gorgia nei confronti della tragedia. Vorrei piuttosto limitarmi ad accogliere la suggestione dei due studiosi, e proporre un’interpretazione dell’Agamennone che muove dall’ipotesi di una vicinanza fra l’universo concettuale di Eschilo e quello di Gorgia, in particolare per quanto concerne la riflessione intorno al linguaggio. In testi quali il trattato Sul non essere o l’Encomio di Elena, Gorgia si distanzia dalla tradizione filosofica di stampo eleatico: con un atteggiamento decisamente antispeculativo, porta all’assurdo l’idea della coincidenza di essere, pensiero e linguaggio. Ricordiamo tutti le tre tesi del trattato: nulla è; se anche qualcosa fosse, non sarebbe conoscibile; se anche qualcosa fosse conoscibile, non sarebbe comunicabile. Il risultato, per quanto concerne il linguaggio, è che per esso si delinea quella che Rosenmeyer nell’articolo citato definisce una decisa autonomia: il linguaggio crea il suo oggetto piuttosto che limitarsi a riprodurlo. L’ambiguità che da sempre la poesia riconosce alla parola è fatta oggetto di una riflessione razionale e il suo uso rivendicato all’arte del discorso (Gorgia 2010).
La valenza poietica del logos – vale a dire la sua capacità di dar vita a una realtà che appartiene all’ordine dell’immaginazione – è posta invece nell’Encomio a fondamento, fra l’altro, della mimesis poetica e dell’uso terapeutico delle parole, nell’ambito di un’ampia fenomenologia del potere persuasivo e ingannevole del discorso, del suo carattere ambiguo e seduttivo, che il sofista presenta anche in base all’analogia fra potere del discorso e potere dell’eros (Gorgia 2007). È tenendo sullo sfondo questo ambito concettuale che propongo di leggere l’Agamennone come un testo in cui il tema dell’ambiguità proprio della tragedia, sulla base di una pervasiva distinzione fra apparenza e realtà, è considerato con particolare riguardo alla sfera dei segni, dei simboli, delle diverse forme della comunicazione fra gli uomini, e fra gli uomini e gli dèi. Tema che si sdoppia in quello della seduzione e che si disegna sullo sfondo del contrasto fra maschile e femminile.
L’ambiguità dei segni
La prima parte della tragedia prepara l’incontro fra Agamennone di ritorno dalla guerra e Clitennestra, la moglie che lo attende per ucciderlo e che lo intrappolerà con un discorso falso. Ciò avviene costruendo un’atmosfera di forte sospetto, di profonda incertezza riguardo a segnali, oracoli, prodigi, messaggi. Ognuno di questi segni è messo in discussione nella sua pretesa trasparenza, e per ciascuno si profila la possibilità del fraintendimento, dell’ambiguità, dell’inganno, del falso2. Al tempo stesso ogni diffidenza si trova a essere smentita, e ogni fiducia riposta in essi a essere tradita.
Prendiamo il segnale luminoso che deve annunciare la caduta di Troia, la serie di roghi che trasportano la notizia da Ilio fino ad Argo. Clitennestra lo accoglie come conferma dell’imminente ritorno del marito e ordina di procedere ai riti di ringraziamento agli dèi. Il coro degli anziani della città, per contro, mostra estrema cautela:
«Grazie al fuoco che apporta lieta novella / veloce per la città /corre una voce : ma se è vera / chi lo sa, o se è solo una menzogna voluta dagli dèi? / Chi è così ingenuo o così sconvolto nella mente / da infiammarsi nel cuore / per le notizie appena portate da un fuoco, / per poi abbattersi quand’esse cambiano? S’addice a potere di donna / consentire a un ringraziamento / prima che la verità sia apparsa» (vv. 475-484).
«Presto sapremo delle fiaccole luminose, dei segnali e del rincorrersi del fuoco, se sono veritieri o se come un sogno questa luce che è giunta a portarci gioia ci ha ingannato le menti» (vv. 489-492)3.
Il coro reclama prove certe e teme l’inganno, particolarmente alimentato dall’emotività femminile: le donne sono facile preda dei sogni, che offrono alla mente immagini false eppure persuasive, o ascoltano con troppa condiscendenza voci e dicerie che corrono rapide per la città (vv. 272- 276). Piuttosto che nel segnale «senza voce» costituito dalla catena dei roghi, il coro sembra riporre fiducia nelle parole che pronuncerà l’araldo in arrivo, annunciato dalla nube di polvere che si lascia dietro (vv. 494-496), essa stessa segno che insieme svela e nasconde; ma con l’araldo l’ambiguità dei segni si trova semplicemente a essere spostata su un altro terreno. Al tema dell’inganno del dio e a quello dell’ingenuità o della debolezza di mente che non consente di cogliere l’apparenza menzognera dei segnali si aggiunge ora un altro punto di vista, quello della duplicazione di apparire ed essere. La notizia recata dal messaggero può essere vera o falsa, e il suo carattere menzognero può essere attribuito a un calcolo, a un preciso interesse, a una specifica manipolazione. Essa si riverbera in innumerevoli figure della scissione fra ciò che è e ciò che appare. Innanzi tutto Elena, che il nome denuncia per quello che è – distruttrice di navi, secondo l’etimo costruito da Eschilo (vv. 681 ss.) –, in opposizione al fascino irresistibile del suo apparire. Ma nelle parole del coro tale contrasto assume anche la forma dell’ingiustizia in base alla quale i mortali onorano, prima fra tutti, proprio l’apparenza (vv. 788-789), fingendo sentimenti che non provano: «A unirsi al pianto di chi ha avuto sfortuna / tutti sono pronti, ma il morso del dolore / non giunge fino al fegato» (vv. 790-792). Parimenti molti sono pronti a forzare il loro volto al sorriso, «simili nell’aspetto a uomini che condividono una gioia altrui» (vv. 793-794).
Il coro non lo sa, ma noi spettatori – già a conoscenza del mito – siamo invece consapevoli che con queste parole si sta descrivendo l’atteggiamento proprio di Clitennestra, che ostenta gioia per il ritorno del marito (anche se in effetti gioia nel suo cuore può esserci, ma all’idea di avere finalmente fra le mani colui sul quale desidera ardentemente esercitare la sua vendetta). Il coro si affida alle parole dell’araldo, parole che ritiene più affidabili del linguaggio muto del fuoco, ma rimane vittima del contrasto fra apparenza e realtà nel momento stesso in cui lo denuncia: è vero che molti ostentano sentimenti che non provano, dice, «ma a chi è buon giudice del gregge non può sfuggire in un uomo lo sguardo che blandisce con falsa amicizia, fingendo di sorgere da un animo leale» (vv. 795-798). Il riferimento è ad Agamennone, pastore di genti. A differenza del coro, noi sappiamo però che Agamennone soccomberà proprio perché non saprà leggere il tradimento nei discorsi e negli atteggiamenti della moglie: eppure, appena giunto ad Argo, egli stesso si vanta di saper distinguere fra chi finge amicizia e chi ne faccia solo ostentazione – «potrei chiamare immagine d’ombra quelli che volevano apparirmi più fedeli» (vv. 838-840) –, riconoscendo solo Odisseo come compagno leale.
Nella distinzione fra la diffidenza infondata del coro e la sua infondata fiducia, da un lato, e nella nostra consapevolezza come spettatori della falsa apparenza dall’altro, si delinea una dimensione ulteriore, il gioco drammatico per cui il discorso assume un significato distinto per gli interlocutori sulla scena e per noi. In questo caso a venire in primo piano è il linguaggio nella sua funzione mimetica e rappresentativa. L’Agamennone mette in scena il «dramma del logos» (Goldhill S. 2001, p. 3), la sua costitutiva ambiguità, e lo fa attraverso un registro, quello della finzione tragica, che a sua volta si sdoppia nello spettatore fra la partecipazione a ciò che vede e ascolta, e la consapevolezza del carattere finzionale di ciò cui assiste.
Aperto in questo modo lo spazio dell’immaginazione, la possibilità di passare a un livello superiore di inganno torna ad aprirsi: l’illusione teatrale realizza l’apparenza illusoria nel momento in cui la mette a tema. Ma a tratti, oltre l’inganno di cui sono vittime i personaggi sulla scena e oltre la stessa illusione scenica, è la vita stessa a essere inghiottita nella voragine aperta dallo iato fra essere e apparire, nella tentazione che si affaccia di rappresentarla come un sogno (vv. 80-82) o un disegno sulla sabbia destinato ad essere presto cancellato (v. 1329)4. La stessa esistenza, ogni nostro pensiero finiscono per collocarsi nello spazio incerto fra il sogno e la veglia, fra l’esserci e il trascorrere senza lasciar traccia.
Il falso e il suo fantasma
Nel primo confronto fra Clitennestra e il coro degli anziani di Argo troviamo una serie di contrapposizioni fra il segno sicuro (v. 272), sul quale si può fare affidamento come a qualcosa che si è visto con i propri occhi (vv. 988-989), e il segno ingannevole. Come ho già accennato, esso può essere tale in quanto prodotto dall’inganno di un dio, oppure dalla fede nelle «suadenti visioni dei sogni», opinioni illusorie di una mente assonnata, o risultato dell’affidarsi a voci e dicerie prive di fondamento (vv. 273-276).
L’idea soggiacente, già presente nell’epica e che è possibile ritrovare in Gorgia, è che il discorso falso catturi la psiche creando apparenze illusorie. Falso, in altri termini, non è semplicemente ciò che non corrisponde ai fatti, falso è ciò che inganna la mente inducendola a prendere per vero quello che è solo un simulacro: esso opera come una forma di persuasione, determinando una condizione particolare della psiche (doxa, v. 275) assimilabile a una sorta di incantamento. Se la verità è ciò che si coglie con i propri occhi, il segno ingannevole, facendo apparire come vere cose che non hanno consistenza, non solo non restituisce del vero che un’ombra, ma inoltre produce per la mente immagini che acquisiscono per essa una forma peculiare di realtà. Per dirla con Vernant, l’apparenza è qui ancora una sorta di «dimensione del reale», prima di divenire, con Platone, pura apparenza (Vernant J.-P. 2010, p. 47).
Nella prima parte del testo ci siamo imbattuti nelle immagini dei sogni (phasmata) (v. 274), o nei falsi amici come «immagini d’ombra» (eidolon skias) (v. 839). Occorre ora notare che il segno ingannevole agisce sulla psiche in maniera analoga a quanto accade con il desiderio o con la paura. Nell’Agamennone l’ombra (phasma) di Elena continua a governare la casa che la donna ha abbandonato, evocata dalla nostalgia di Menelao. I sogni notturni sembrano riportarla indietro, ma sono evanescenti immagini di sogno (oneirophantoi) che non si possono afferrare, come nei poemi omerici il fantasma (psyché kai eidolon) di Patroclo che Achille invano tenta di abbracciare (Il., 93-104) o quello della madre Anticlea che Odisseo incontra nel suo viaggio nell’Ade, simile all’ombra o al sogno (Od., XI, 207):
«Si può vedere il silenzio disonorato, / privo di rimprovero, incredulo / di chi è stato abbandonato; / per il rimpianto di lei che ha varcato il mare / un fantasma sembrerà regnare sulla casa. / La grazia delle belle statue è odiosa al marito, / e nella privazione degli occhi / se ne va ogni gioia d’amore» (vv. 412-419).
Elena, del resto, è la figura per eccellenza dell’ambiguità e della seduzione (Bettini M., Brillante C. 2002). La grazia dell’immagine – la figura di sogno creata dal rimpianto – si sdoppia fra l’incanto suscitato dalla donna al suo arrivo a Troia e il suo trasformarsi nell’emblema stesso della sventura:
«Potrei dire che in principio venne alla città d’Ilio / una sensazione di sereno senza vento, / un gentile ornamento di ricchezza, / un dolce dardo degli occhi, / un fiore d’amore che pungeva il cuore. / Ma poi, cambiando all’improvviso, portò a termine / un amaro compimento delle nozze, / avventandosi contro i Priamidi,/ funesta compagna e funesta abitante / inviata da Zeus protettore dell’ospite, / un’Erinni che causa pianto alle spose» (vv. 739-749)5.
Elena giunge a Ilio non come una donna in carne ed ossa, ma come l’immagine stessa dell’amore: la si percepisce con i sensi, in maniera oscura. Dell’amore ha la dolcezza che ci trafigge attraverso lo sguardo: chi la vede a sua volta non può smettere di seguirla con gli occhi, come i vecchi sulla rocca di Priamo, quando nell’Iliade Elena sale alle mura per assistere al duello fra Paride e Menelao (Il, III, 150 sgg). Lo sguardo, del resto, è il veicolo più immediato dell’eros, la potenza che secondo la visione greca aggredisce il soggetto come una forza esterna e irresistibile, capace di assoggettare uomini, animali e dèi (Inno ad Afrodite) (Durup S. 2006). Vedremo in seguito che questo motivo dello strale degli occhi (ommatos belos) ha una eco diretta nella descrizione di Ifigenia portata al sacrificio (v. 240).
Intanto, già in quanto immagine della seduzione amorosa, Elena ne trasmette tutto il carico insieme di attrazione irresistibile e di pericolo mortale. Non solo la «donna dai molti uomini» (v. 62) è causa della guerra che ha generato tanti lutti, ma è anche, nel suo tramutarsi in Erinni, colei che arreca ai Troiani la punizione per aver leso le leggi sacre dell’ospitalità: l’ambiguità, il sospetto che gravano sul segno si duplicano dunque nel carattere ancipite dell’amore.
L’ambiguità dei segni, come già accennato, è inoltre rivelatrice di un’altra dimensione nella vita degli uomini: la presenza e l’azione, anche ingannevole, degli dèi. Molto a lungo l’orizzonte cristiano conosce unicamente, sotto varie forme, gli inganni del demonio (Gregory T. 2013). Per i Greci del mito e dell’epica, invece, gli dèi hanno per l’inganno una particolare predilezione. Di quest’inganno vorrei richiamare un aspetto peculiare. Gli dèi offuscano e confondono la mente umana, secondo una modalità analoga a quella del segno ingannevole, vale a dire, offrendo agli occhi della mente immagini illusorie, che sviano il soggetto e lo inducono a compiere quelle azioni che lo porteranno alla rovina. Così, nell’Iliade (XXII, v. 226 sgg.), Atena tende un tranello a Ettore, riluttante ad affrontare Achille in combattimento. Gli fa comparire al fianco l’eidolon, il simulacro del fratello Deifobo. Incoraggiato da quest’apparizione Ettore accetta il duello. Ma quando perde la lancia e si volge verso il fratello perché gli fornisca una nuova arma, si accorge che non c’è nessuno accanto a lui. La dea lo ha ingannato (Detienne M. 1979, pp. 30-31). Ha esercitato su di lui quella che altrove è definita persuasione: persuasione è lo stato di ‘falsa coscienza’ corrispondente alla condizione di chi mente a se stesso per poter compiere un’azione che sa essere ingiusta. Secondo lo schema proprio dell’epica, che oggettivizza le pulsioni e i moti della psiche, la persuasione è qui operata da Atena attraverso l’immagine illusoria di Deifobo. Dal punto di vista psicologico l’apparizione dell’eidolon non è però altro che l’illustrazione del momento in cui Ettore abbandona le perplessità e prende la decisione (Otto W. 2004, p. 212): dapprima incerta, la sua mente si volge infine alla scelta di combattere, nell’illusione di raddoppiare le sue forze di fronte a un nemico che è noto per essere invincibile. Nell’Agamennone, del resto, Peitho – la «sciagurata Persuasione, / irresistibile figlia di Ate consigliera» – è invocata nella sua personificazione divina, esattamente nella forma della forza che sospinge l’uomo senza giustizia alla rovina (vv. 385-386).
Al livello umano la peitho agisce attraverso il discorso. La persuasione è per meglio dire il potere proprio del discorso (Buxton G.A. 1982). I Greci – lo stesso Platone, che pure rivoluzionerà il concetto di persuasione – attribuivano a quest’ultima la capacità di esercitare sugli animi degli uomini un’azione costrittiva. Il termine, o uno dei termini, che noi traduciamo con ‘ubbidire’ anche nell’Agamennone di Eschilo – il verbo peithomai –, letteralmente significa ‘essere persuaso’6. È dunque alla persuasione che si richiama il coro, quando si rivolge a Cassandra per indurla a ‘cedere’, a ‘ubbidire’ alle parole di Clitennestra che la invita a entrare in casa (vv. 1048-1049). Quando descrive la decisione di Agamennone di accettare la necessità che gli è imposta di uccidere Ifigenia, Eschilo lo fa ricorrendo anche in questo caso alla sfera della persuasione/obbedienza, che lungi dall’essere semplice accettazione dell’ananke, è anche smarrimento della ragione che induce a «desiderare con passione» l’azione ingiusta che si sta per compiere (vv. 214-217).
Il discorso falso di Clitennestra
Il clima di ambiguità, incertezza che la prima parte del testo costruisce intorno ai segni, gettando un ponte fra falso e desiderio, tra falso e seduzione, e infine fra falso e falsa coscienza, prepara l’irruzione del logos, del discorso, come uno dei luoghi di produzione della dicotomia fra apparenza e realtà. È in quest’ambito che si inserisce il ‘discorso falso’ di Clitennestra. La donna pronuncia un logos ingannevole per indurre il marito a rinunciare a ogni diffidenza (forse Agamennone era conscio di non doversi aspettare una bella accoglienza!). Nonostante gli anni trascorsi, il sacrificio della figlia e la presenza della prigioniera ridotta a concubina, Clitennestra lo accoglie con l’esternazione dei sentimenti della philia, vale a dire con le forme dell’affetto proprie della moglie nei confronti del marito. La philia è ben distinta dall’attrazione erotica, è il sentimento che unisce i coniugi, ma anche gli amici; è lo stesso sentimento che può legare gli dèi agli uomini. L’affetto di Clitennestra è per un verso ostentato e menzognero – la donna intende come sappiamo vendicarsi del marito –, per un altro verso autentico, nel senso che il sentimento vero che l’apparenza nasconde è generato proprio dalla philia. È l’amore per la figlia, che un tempo era tutt’uno con l’attaccamento al marito, a generare l’odio profondo per l’Agamennone «sacrificatore» (Vidal-Naquet P. 1976, p. 134); è l’amore coniugale tradito – la presenza della giovane concubina – a generare il senso del tradimento e della gelosia, come confermeranno in seguito le parole di Cassandra (vv. 1260-1263). Nella corrispondenza che si delinea fra Elena e Clitennestra abbiamo da un lato la figura della seduzione erotica che si capovolge in potere di distruzione; dall’altro la philia di Clitennestra che degenera in sete di sangue e brama di vendetta. Se Elena diviene Erinni, Clitennestra si tramuta nel demone che realizza la punizione delle colpe degli Atridi.
Quello di Clitennestra, dicevo, è un discorso falso, non semplicemente un discorso ipocrita, ma un discorso ingannevole costruito ad arte. Uno dei temi portanti dell’Orestea è proprio il rovesciamento dei valori in ragione della quale la donna usurpa il potere dell’uomo, fino ad ucciderlo. Il fatto è che con Clitennestra non solo la donna si appropria di ciò che non le spetta, ma lo fa servendosi delle stesse armi dell’uomo: il potere, la spada, ma prima ancora, appunto, il discorso falso, premeditato, architettato nella sua funzione persuasiva.
Nella prima parte del testo Clitennestra, donna «dal maschio volere» (v. 11) è lodata perché parla come un uomo saggio (v. 351). Essa è aliena da quell’impetuosità incapace di valutare la reale consistenza delle notizie prima di gioirne o di patirne, dalla credulità che induce ad assecondare i propri desideri, considerate proprie delle donne. Clitennestra si allontana coscientemente da questa raffigurazione: «Non accoglierei davvero l’illusione di una mente assonnata» (v. 275).
L’inganno di Clitennestra si iscrive dunque in una inversione dei ruoli: la tragedia mette in scena il paradosso per il quale alla donna si riconosce di saper ragionare e parlare come un uomo, proprio nel momento e attraverso le modalità con cui sta mettendo in esecuzione la sua trappola. Prima della rete con cui lo avvolgerà per assassinarlo, Clitennestra ‘irretisce’ Agamennone con le parole. Alle donne – credulone – è in effetti al tempo stesso attribuita la propensione all’inganno (v. 1636); il punto è che l’inganno di cui si serve Clitennestra non è, o non è soltanto, un inganno femminile, tramato nell’ombra, con veleni e malefici, ma si esercita con le armi dell’uomo: il logos. Un logos sapientemente impiegato a «persuadere» (Centanni M. 2007, p. 82). Quando Clitennestra rivendica il suo gesto e dice, a proposito del discorso con cui ha indotto il marito a entrare in casa, di aver parlato secondo opportunità, o, come viene alternativamente tradotto, secondo necessità (v. 1372), il termine impiegato è kairos (Trédé M. 1992). Si tratta, come è ben noto, di una parola chiave dalle molteplici sfumature, che in ambito retorico-sofistico, con Gorgia in particolare, diviene la capacità di adattare il proprio discorso all’interlocutore, di calibrarlo per meglio poter convincere. Il kairos qui evocato da Clitennestra fa dunque pensare a un logos costruito non secondo gli impulsi irrazionali e le ingenuità attribuite al genere femminile, ma secondo una tecnica, che si vuole tutta maschile, di padroneggiamento dell’articolazione logico-argomentativa e persuasiva del discorso.
La duplice figura della seduzione amorosa (Elena) e della persuasione attraverso il discorso (Clitennestra) ha inoltre come contraltare una duplice immagine. La prima è quella del candore verginale di Ifigenia portata al sacrificio, la seconda è quella del rigetto della sessualità, associato alla parola veritiera, di Cassandra.
«E le preghiere, le grida con cui chiamava il padre / e l’età virginale in nessun conto / tennero i capi avidi di guerra; / disse il padre ai ministri dopo la preghiera / di prenderla, avvolta dalle vesti, e sollevarla / risoluti sopra l’altare come una capra, / mentre ella cadeva in avanti; e ingiunse loro / di trattenere, sorvegliando la sua bella bocca, / il grido che avrebbe potuto maledire la casa / con la violenza e la forza muta del bavaglio. / Ella lasciando cadere a terra la veste tinta di croco / colpiva ognuno dei sacrificatori con un dardo / commovente scagliato dagli occhi, / spiccando come in un dipinto, e chiamarli per nome /avrebbe voluto, poiché spesso / nella sale dalle belle tavole della casa paterna / aveva cantato e ancor vergine con voce pura / cautamente celebrava alla terza libagione / il beneaugurante peana del padre amato» (vv. 228-247).
Il registro di Ifigenia è la preghiera, che tuttavia, come la profezia di Cassandra, rimane inascoltata. Ifigenia è l’intatta vergine alla quale si finisce per chiudere la bocca con violenza per impedire che le invocazioni di aiuto rivolte al padre si tramutino in maledizioni lanciate sulla casa. La sua voce pura, lontana dalle suasive parole d’amore e dai ragionamenti ingannevoli, è interdetta da «muti bavagli». Lo strale degli occhi – è la stessa espressione impiegata per Elena – non evoca la seduzione, ma è richiesta di pietà. Lo sciogliersi delle vesti non prelude all’atto d’amore, ma al sacrificio (Loraux N. 1988). Se Elena, figura dell’ambiguità, è accolta nell’inconsapevolezza del contrasto che incarna fra apparenza e realtà, per contro Ifigenia, nell’immediatezza della sua innocenza e della sua assurda sofferenza, si presenta come una «immagine dipinta» (graphe): ciò che è illusorio e ingannevole si impone ai sensi, ciò che è vero si disincarna come un dipinto.
Per contro Cassandra è figura emblematica di un discorso vero che appartiene però al registro della profezia e non a quello logico-razionale del discorso. Essa ha il dono della visione: le immagini della sua mente prefigurano il futuro, annunciano le sventure, non sono i fantasmi evanescenti creati dai segni ingannevoli, dai desideri e dalle paure, dagli inganni degli dèi. Come tale, Cassandra è immune dalla persuasione esercitata da Clitennestra. È lei a denunciare nel discorso falso l’arma usata dalla donna per intrappolare il marito, e a confermare in quest’uso e nelle sue conseguenze il rovesciamento dei valori così operato:
«Il comandante delle navi, il distruttore di Ilio, non sa che cosa compirà con funesto destino, come un’Ate nascosta, la lingua della cagna odiosa, che ha parlato così a lungo con animo giulivo. Tale è la sua audacia: una femmina assassina il maschio» (vv. 1227-1229).
In questo senso Cassandra fa parte di quelle figure femminili che si schierano con il dominio maschile, con l’Atena nelle Eumenidi. Come la dea, Cassandra è immune dal potere di Afrodite. È del resto il suo essersi sottratta al desiderio di Apollo che l’ha condannata a non essere creduta, confermando ancora una volta il legame indissolubile fra seduzione e persuasione. Cassandra non è sedotta, ma neppure seduce. Senza possibilità di essere creduto, il suo discorso vero rimane inefficace, pur rispondendo a quel sentimento viscerale di angoscia che si agita negli animi degli anziani di Argo (vv. 995-997).
Confrontata al suo destino ultimo, abitata dalle visioni strazianti della strage che sta per compiersi nel palazzo, Cassandra decide di sciogliere ogni ambiguità del segno, di liberare la sua profezia anche dagli ultimi veli che l’avvolgono (vv. 1178-1179), di non parlare più per enigmi (v. 1183). La sua parola, come dice il coro, è «fin troppo chiara», anche un bimbo che la udisse potrebbe comprenderla (vv. 1162-1163). Le sue rivelazioni, diversamente da quelle dei profeti ingannevoli – qui l’ombra del falso si allunga sullo stesso sapere dei veggenti – colpiscono il bersaglio come un arciere (v. 1194). Ma il suo sforzo di liberare il suo dire da ogni velo non raggiunge lo scopo di farsi capire. Il coro degli anziani non comprende la sua profezia. Sebbene parli «anche troppo bene la lingua greca» (v. 1254), le sue parole rimangono oscure come «gli oracoli pizi» (v. 1255).
Ifigenia e Cassandra – la pura vergine e la profetessa piegata al desiderio di Apollo – si sottraggono entrambe alla figura della seduzione. Seduzione che è invece rappresentata in maniera distinta da Elena e Clitennestra. Elena è l’incarnazione del femminile come oggetto dell’amore erotico, è il premio che Afrodite concede a Paride per averle attribuito la vittoria sulle altre dee (Era e Atena) nella gara di bellezza. Clitennestra è moglie e madre, incarnazione dell’affetto coniugale e materno profanato, che non conosce limiti nella sua violenza. Due forme dell’amore (attrazione erotica e affetto coniugale e materno) e due forme della seduzione, l’una di carattere squisitamente sessuale, l’altra operata attraverso il discorso. Entrambe sono portatrici di sventura, ma vi è fra le due una differenza fondamentale. La seduzione di Elena è femminile, la seduzione di Clitennestra è anche maschile. Per questo Elena, pur tradendo il marito e la patria, rimane nell’ordine delle cose, tanto che nei poemi omerici essa è raffigurata di ritorno a Sparta, con il marito Menelao; Clitennestra invece viola questo ordine. Non semplicemente uccidendo il marito, ma intrappolandolo con una tecnica – un’arte del discorso – che è propriamente maschile. Con un’arma maschile uccide la hybris conquistatrice (maschile) che prevale sull’amore materno e paterno.
La scissione fra apparenza e realtà, l’ambiguità del logos e il sospetto nei confronti dei segni si delineano dunque sullo sfondo del profondo antagonismo fra il maschile e il femminile. Si tratta, com’è ben noto, di uno dei temi portanti dell’Orestea, che lo sviluppa come contrasto fra i vecchi e i nuovi dèi e insieme come passaggio dal regime del genos a quello della polis. La conciliazione finale che si opera nelle Eumenidi è anche affermazione del dominio maschile (Zeitlin F.I. 1978). Un dominio che tuttavia è frutto di un compromesso, grazie al quale si accoglie e trasforma il potere (femminile) delle antiche Erinni.
L’instaurazione del nuovo ordine è inoltre segnato dalla riappropriazione maschile del logos e dalla trasformazione della figura stessa della persuasione: essa si ripresenta con le Eumenidi nelle dolci parole con cui Atena induce le Erinni a rinunciare alla vendetta e ad accettare il culto che viene loro offerto dalla città. Secondo la duplice versione del mito, Peitho non è qui figlia di Ate – la falsa coscienza che induce all’errore – ma è lo strumento tutto politico della risoluzione pacifica dei conflitti attraverso la mediazione discorsiva di autorità e di istituzioni, opposto alla violenza e all’uso della forza. La parola persuasiva è ancora un potere; essa diviene anzi nella polis la chiave di ogni autorità (Vernant J.-P. 1976, pp. 41-42), fino ad essere coltivata come arte del discorso, strumento per prevalere in assemblea o in tribunale. Ma sarà proprio lo spazio così conquistato a riproporre con forza la problematica della potenza e dell’ambiguità del logos e ad aprire, prima che Platone ridefinisca tutti i termini della questione, alla riflessione e alla pratica dei sofisti.
Note
- * Si propone qui la versione rielaborata di un testo presentato il 21/6/2014 a un seminario del CIPA a Siracusa, (“Le imago parentali fra conflitto e tragedia. Riflessioni sull’Orestea di Eschilo”). Ringrazio Angiola Iapoce per l’invito e tutti i partecipanti per l’accoglienza.
- 1 È ampiamente attestato non solo l’interesse di Gorgia per la tragedia, ma anche la sua conoscenza almeno di una tragedia di Eschilo, i Sette contro Tebe, della quale il sofista avrebbe affermato che è un’opera «piena di Ares» (Si vedano i frammenti DK 82 C 23 e DK 82 C 24 in Bonazzi M. 2007). Cfr. inoltre Garzya A. 1987.
- 2 Il presagio rappresentato dall’apparizione delle due aquile che divorano una lepre pregna, nelle quali l’indovino riconosce Agamennone e Menelao, è al tempo stesso «fausto» e «sinistro» (v. 145): esso è sì annuncio della vittoria nella spedizione contro Troia, ma è insieme enigmatico accenno, nella strage compiuta anche dei piccoli, al sacrificio di Ifigenia e alla strage dei figlioletti di Tieste, a lui offerti in banchetto da Atreo. Sulla polisemia dei presagi, caratteristica del teatro di Eschilo, vedi Vernant J.-P., Vidal-Naquet P. 2001, pp. 88-89.
- 3 Per la traduzione rimando all’edizione dell’Orestea Eschilo 2013.
- 4 «E l’estrema vecchiezza, / quando ormai il fogliame si raggrinza, / procede per vie dai tre piedi / e vaga, per nulla più forte di un bimbo, / come un sogno che appare di giorno» (vv. 79-82); «O vicende dei mortali: quando sono felici, si possono paragonare a un’ombra, e se sono sfortunate una spugna bagnata con un colpo cancella il disegno» (vv. 1327-1329).
- 5 L’arrivo di Elena a Troia riecheggia nelle parole ingannatrici con cui Clitennestra descrive il ritorno di Agamennone ad Argo (vv. 968-972).
- 6 Cfr. Raaflaub K.A., Wallace W. 2011, p. 33. Si attribuisce qui grande rilievo alla figura omerica di Tersite, quale è descritta nel II libro dell’Iliade. Soldato di basso rango, Tersite si permette di alzare la voce contro i capi della spedizione, fino ad essere punito da Odisseo; rimane che, pur nella sua posizione subordinata, egli prende la parola nell’assemblea dei guerrieri. Il passo è indirettamente richiamato nell’Agamennone da Egisto: questi si rivolge al coro degli anziani di Argo, che minaccia di ribellarsi, in qualità di ‘tiranno’, negando al popolo libertà di parola e capacità persuasiva nei discorsi e confermando la dimensione anche politica del tema della persuasione: «Anche queste parole saranno per te fonte di pianto. La tua voce ha l’effetto contrario a quella di Orfeo: lui, con la dolcezza del suo canto, trascinava e incantava tutto, tu, provocandomi con i tuoi balbettanti latrati, verrai trascinato via, e una volta domato, vedremo se diventerai più docile» (vv. 1628-1632).
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- L’ambiguità del logos nell’Agamennone di Eschilo di Fiorinda Li Vigni • 263 kB • 15 download