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Jung e l’animazione estetica dell’oggetto

Rivista annuale a cura del Centro Italiano di Psicologia Analitica Istituto di Roma e dell’Italia centrale

QCJ 2015

2015 Numero 4

Jung e l’animazione estetica dell’oggetto

A cura del gruppo di ricerca Il ruolo dell’estetica nella prassi clinica.
Testo fornito da Massimo Russo[1]

Affrontando il problema psicologico degli atteggiamenti tipici, in particolare dell’introversione e dell’estroversione, nell’ambito in cui la bellezza è sentita e pensata, Jung, dopo aver letto Schiller, inizia, com’è noto, in Tipi psicologici, a parlare di estetica in quanto, a suo dire, «psicologia applicata» (C.G. Jung 1921, p. 213). Lasciamo, momentaneamente, in sospeso la disamina di tale definizione, per cercare di rinvenirne un senso, innanzitutto, attraverso l’iter di ricerca di Jung.

Sostanzialmente il nostro autore nell’affrontare il problema dell’estetica inizia citando Worringer (ivi, p. 292 sgg), che individua nell’immedesimazione e nell’astrazione i due opposti atteggiamenti psicologici con riferimento all’oggetto in esame. In proposito, se Jung parla di uno speciale processo di percezione, ne parla alla luce delle proiezioni.[2] Tale presupposto gli permette di leggere non solo Worringer, ma anche Lipps, per quanto riguarda l’immedesimazione nell’oggetto, come un processo inconscio «caratterizzato dal fatto che per via affettiva –scrive Jung– un contenuto psichico essenziale è trasferito nell’oggetto, sicché l’oggetto viene assimilato al soggetto e collegato ad esso in modo tale che il soggetto si sente per così dire nell’oggetto» (ivi, p. 314). Così ci si immedesima, attraverso la proiezione, nell’oggetto nel quale ci si specchia inconsciamente, fruendo del godimento estetico. Tuttavia, ciò che si proietta non è la nostra personale immagine, ma sono i nostri processi interiori, e questo fa sì che all’oggetto che ha subito l’immedesimazione venga conferita, in questo modo, un’animazione estetica.

Da questo punto di vista l’estroverso, nell’obbiettivazione di se stesso, si affranca inconsciamente dalla sua soggettività, in particolare proietta nell’oggetto i suoi contenuti inconsci così da far apparire l’oggetto esterno attraente e avvicinabile. Come scrive Jung: «Tuttavia non è che il soggetto si senta come proiettato nell’oggetto; al contrario, è l’oggetto che ha subito l’immedesimazione ad apparirgli animato e di per sé parlante» (ibidem).Questa proiezione presuppone che l’oggetto sia un ricettacolo vuoto che accolga l’investimento vitale per restituirlo al fruitore di bellezza come, in apparenza, appartenente all’oggetto stesso. Sono state sempre le proiezioni, a suo dire, ad orientare l’atteggiamento psicologico tipico dell’immedesimazione verso i canoni della bellezza dell’arte greco-romana e occidentale.

Se è vero che, per quanto concerne l’immedesimazione «noi possiamo immedesimarci solo in forme organiche, aventi una realtà naturale e una volontà di vivere» (ivi, p. 315), dobbiamo dire, al tempo stesso, che è il soggetto, grazie al suo sentimento soggettivo, che infonde inconsciamente nell’oggetto per lui inanimato la propria vita. Tanto basta, secondo la teoria dei tipi psicologici ad identificare l’immedesimazione con l’estroversione, proprio in virtù dell’atteggiamento psicologico tipico nei confronti dell’oggetto.

All’altra forma fondamentale dell’atteggiamento estetico descritta da Worringer, l’astrazione, Jung fa corrispondere, al contrario, l’introversione. L’astrazione presuppone l’oggetto vivente e agente, ed il soggetto in virtù di una sua proiezione «si ritrae diffidente dinanzi i demoni dell’oggetto e si costruisce con creazioni astratte un mondo opposto nel quale trovare protezione» (ivi, pp. 317-318). In altre parole, l’oggetto vivificato inconsciamente esercita un’influenza destabilizzante sul soggetto che si difende attraverso una formula, un’ immagine generale che ordini logicamente le impressioni, al punto di convertirsi in essa, trovando soltanto in essa la bellezza autentica. Così facendo, il soggetto si identifica con la validità universale e necessaria di questa rappresentazione.

Da questa prospettiva l’introverso ha un rapporto estetico con l’oggetto che definiremmo evitante teso ad un’attività intellettuale difensiva, di contrasto nei confronti della presunta influenza negativa, a priori, dell’oggetto e, al tempo stesso, permeabile a una proiezione pre-esistente che rende l’oggetto dotato di attività autonoma. L’animazione dell’oggetto, tuttavia, in questo caso non rimanderebbe, propriamente, ad una proiezione vera e propria, poiché quest’ultima presupporrebbe comunque un atto e non uno stato già esistente. Così scrive Jung: «La forte carica libidica inconscia dell’oggetto proviene dalla sua participation mystique con l’inconscio del soggetto ad atteggiamento introverso» (ivi, p. 319). In particolare, l’oggetto, per l’atteggiamento introverso è dinamicamente identico al soggetto, vivificato prima di qualsiasi differenziazione. Di conseguenza, attraverso l’astrazione, il soggetto si allontana dall’oggetto per liberarsi dalla partecipation mystique e per orientarsi verso la creatività e la conoscenza. D’altra parte, anche l’estroverso, al pari dell’introverso, attraverso l’immedesimazione e seguendo un’altra strada, giunge alla creazione artistica e alla conoscenza.

Giunto sin qui, Jung può parlare del criterio della bellezza nell’arte che intende come atteggiamento psicologico di fronte all’arte e non come filosofia dell’arte. Per l’estroverso la forma è bella se ci si può immedesimare in essa e tale proiezione è la conditio sine qua non dell’oggettività del criterio, se al contrario non ci si può immedesimare, la forma è brutta. D’altra parte, secondo questa teoria, dall’antichità in poi e per noi occidentali (salvo alcune forme stilistiche medioevali, come riferisce Jung), l’immedesimazione ha rappresentato il criterio discriminante della bellezza nell’arte. Qual è l’oggetto dell’immedesimazione? In proposito è citata da Jung la risposta di Lipps: «Ciò che immedesimo è genericamente la vita» (ivi, p. 315). In effetti, l’estroverso può identificarsi soltanto in una forma organica. Tale necessità diventa il criterio della bellezza quando questa s’individua nel vero naturale, la natura e la volontà di vivere.

Sappiamo, d’altra parte, che esiste un’altra forma d’arte in contrapposizione all’immedesimazione. Questa è rappresentata dall’astrazione . Essa rappresenta una volontà artistica votata alla morte, che propone forme appunto astratte e inorganiche pur avanzando legittimità di bellezza. L’introverso, in questo caso, essendo con l’oggetto in un rapporto inconscio di partecipazione mistica di carattere magico, esercita l’annullamento dell’influenza fagocitante attraverso l’attività cosciente dell’astrazione trovando in essa la bellezza. Tale esigenza consegue, per quanto concerne l’introverso, a una profonda inquietudine nei confronti dell’universo, esempio ne è, sempre secondo Jung, l’arte orientale ed esotica. Alla luce di queste considerazioni torniamo all’affermazione junghiana iniziale dell’estetica come psicologia applicata tentandone un’interpretazione attraverso la relazione che intercorre tra esperienza estetica e funzione psicologica. I due atteggiamenti psicologici tipici rappresentano dei meccanismi di difesa e di adattamento al mondo esterno ed interno, ed in quanto tali assumono, attraverso l’esperienza psicologica della bellezza, un valore liberatorio e salvifico.

In questo senso la bellezza risulterebbe tutt’altro che oggettiva. L’atteggiamento tipico nei confronti del bello conterrebbe un valore psicologico intrinseco che rimanderebbe alla funzione svolta dai meccanismi di difesa. Il ridimensionamento del ruolo giocato dall’oggetto reale avvicina, in questo caso, Jung a quel Freud che teorizzò il concetto di sublimazione: infatti, in quest’ultimo, la pulsione che è inibita alla meta, cerca vie di scarica alternative trovandole in altre mete o in altri oggetti.[3] Ciò significa, per Jung, che l’oggetto reale interessa al soggetto solo in quanto ricettacolo della proiezione. Così l’esperienza estetica equivarrebbe alla proiezione inconscia che si distacca dal soggetto e anima l’oggetto (che ne è dell’oggetto reale e delle sue caratteristiche “obiettive”?).  L’applicabilità psicologica all’estetica non riguarda comunque, secondo Jung, una traduzione a posteriori della teoria estetica in prassi psicologica, bensì la constatazione fenomenologica del fatto che la psicologia stessa è inerente all’esperienza estetica.

In altre parole, sia l’introverso sia l’estroverso, subirebbero la fascinazione estetica del bello attraverso dei meccanismi psicologici, in assenza dei quali non sussisterebbe il fatto (estetico). Inoltre Jung ribadisce che entrambe le funzioni, l’immedesimazione e l’astrazione, concorrono alla comprensione dell’oggetto e alla creazione artistica all’interno dello stesso individuo, sia pure essendo diversamente differenziate. Al tempo stesso, nell’analizzare tale esperienza il nostro autore sottolinea l’importanza dell’inconscio nel concorrere alla formulazione del giudizio estetico, in quanto fattore determinante per ciò che concerne la funzione difensiva e adattativa del soggetto. In altre parole, così facendo, si sopravanzerebbe la concezione dell’estetica come teoria astratta o circoscrivibile nell’ambito del museo e della galleria per calarla nell’ordinarietà del quotidiano. Questo proprio in virtù della sua funzione tutt’altro che accessoria e ornamentale.

Per questo Jung scrive: «Immedesimazione e astrazione, estroversione e introversione, sono meccanismi di adattamento e di difesa. In quanto rendono possibile un adattamento, essi difendono l’uomo dai pericoli esterni» (ivi, pp.322-323). Altresì, evidenziando la funzione difensiva degli atteggiamenti psicologici tipici nell’estetica, Jung introduce un altro concetto. Egli afferma che introversione ed estroversione : «[…] in quanto sono funzioni indirizzate, liberano l’uomo dalla contingente istintualità, anzi lo difendono proprio in quanto rendono possibile in lui un distacco da sé stesso» (ibidem),volendo evidenziare la loro duplice funzione e facendo riferimento al pensiero indirizzato descritto in Simboli della trasformazione (anche se, da parte nostra, dubitiamo che gli atteggiamenti tipici, proprio in virtù della loro componente inconscia possano definirsi, tout court, anche come funzioni indirizzate).

Comunque sia, in proposito, ci preme sottolineare un aspetto della riflessione junghiana sull’estetica che nell’ambito del percorso conoscitivo dei Tipi psicologici potremmo definire ineludibile. Esiste uno scarto tra la dissertazione di Jung su Le lettere sull’educazione estetica dell’uomo (Jung C.G. 1921, pp.77-142) e quella, successiva, su Il problema degli atteggiamenti tipici nell’estetica (Jung C.G. 1921, pp.313-324) che stiamo approfondendo. Si tratta di un passaggio che comporterebbe uno spostamento d’interesse, o meglio un cambiamento, che concerne l’oggetto dell’indagine. Ci riferiamo al cambiamento tematico tra l’interesse iniziale di Jung nei confronti dell’estetica schilleriana, analizzata in quanto eventuale funzione psicologica sui generis nell’ambito della conciliazione degli opposti psichici e dell’integrazione della personalità, a quello successivo che concerne l’estetica in quanto manifestazione  psicologica dei meccanismi di difesa. Un cambio di rotta che seguirebbe alle conclusioni del capitolo di Jung sulle idee di Schiller dove si predilige, per quanto concerne il ruolo della mediazione tra intelletto e sensazione, l’attività formatrice di simboli alla funzione estetica intermedia.

In proposito Jung non valuterebbe più l’ipotesi dell’estetica in qualità di medium tra gli opposti psichici, funzione questa che sarà successivamente assegnata alla religione: qui potrebbero risiedere le ragioni del viraggio di cui si parla. In quanto, secondo Jung e in polemica con Schiller, la mediazione non può nascere dall’istinto di giuoco che per sua natura tende esclusivamente alla bellezza, non riconoscendo quindi pari importanza al ruolo giocato dalla sua antitesi costituita dalla bruttezza, come egli scrive: «La bellezza avrebbe  dovuto farsi mediatrice per ricostruire l’unità originaria dell’essere umano. Per contro, l’esperienza costantemente ci indica che la bellezza ha necessariamente bisogno della propria antitesi per poter esistere» (Jung C.G. 1921, p. 94). A dimostrazione di quanto Jung fosse convinto del ruolo preminente assegnato al simbolo unificatore, rivelatosi, in particolare, nelle religioni orientali quali pratiche attraverso le quali si realizza la mediazione degli opposti attraverso l’esperienza dello stesso , egli afferma che  anche Schiller in realtà ha trattato progressivamente la questione dell’estetica con un atteggiamento eminentemente etico, spinto da un ‘ideale religioso’ caratterizzato dalla ‘devozione’: tale, infatti, è il fondamento ultimo che sta alla base del concetto schilleriano di ‘stato d’animo estetico’ che venne, a suo dire, in ultimo, preferito a quello di ‘istinto di giuoco’. Jung si allontanerà così dall’idea schilleriana che identifica lo stato d’animo estetico al ‘bello’, al punto da circoscrivere l’ambito della bellezza ai meccanismi di difesa inconsci, e di integrare questa prospettiva anche con la funzione del pensiero indirizzato.

Anche il pensiero indirizzato, in questo caso, svolgerebbe una funzione difensiva, sia pur cosciente, contro la messa in atto incondizionata dell’ ‘istintività’. Possiamo dire che Hillman riesce a cogliere questo punto quando afferma, in relazione alla concezione estetica di Jung che: «di nuovo abbiamo il cuore diviso, un muro invalicabile tra le risposte morali e quelle estetiche»?(Hillman J. 1993, p.74). In altre parole, da questa prospettiva, ci si avvicinerebbe alle posizioni espresse da Freud in Il Disagio della Civiltà? Tuttavia Jung non risulterebbe così ingenuo da sottovalutare il problema. In proposito egli scrive: « Non avrebbe nessuna possibilità di successo il tentativo, infinite volte intrapreso e infinite volte fallito, di trasformare direttamente una funzione inferiore in una superiore» (Jung C.G. 1921, p. 95). Da questo punto di vista non c’è alcuna possibilità di sublimazione, al punto di dover concludere subito dopo che: «[…] in altri termini la trasformazione può effettuarsi solo a spese della funzione superiore; con ciò però le forme inferiori non possono in alcun caso raggiungere il valore iniziale della forma superiore di energia, anzi neppure quest’ultima può riprendersi quel livello iniziale; quel che si deve e si può ottenere è un equilibrio in una temperatura intermedia.

Ciò però significa, per chiunque s’identifichi con la sua sola funzione differenziata, una discesa a uno stato che è il risultato di un equilibrio, ma che, rispetto all’apparente valore iniziale, è da valutare come inferiore» (ivi, p. 96).Conciliazione, che per Jung non avviene, attraverso l’istinto di giuoco poiché l’annullamento della rimozione provocherebbe una lotta tra gli opposti e l’avvento della barbarie come egli stesso scrive: «Come abbiamo già visto, l’annullamento della rimozione provoca un urto tra gli opposti e un livellamento che si risolve necessariamente in un abbassamento di quelli che fino ad allora erano stati i valori più alti. È una catastrofe della civiltà così come noi oggi la intendiamo, quando il lato barbarico dell’europeo si manifesta: chi garantisce infatti che l’uomo di questo genere, quando comincia a giocare, si ponga come scopo proprio lo stato d’animo estetico e il godimento della bellezza?» (Jung C.G. 1921, p. 118), dato che l’elemento fantastico si assocerebbe alla funzione inferiore. In effetti, l’elemento fantastico viene escluso dalla funzione differenziata che resta, al contrario, la funzione della realtà per eccellenza, associandosi invece: «con le funzioni di ordine inferiore –come scrive Jung– che vengono similmente represse» (Jung C.G. 1921, p. 117). Così nulla ci garantisce che l’uomo che segue l’istinto di giuoco si orienti verso la bellezza, cioè verso il suo oggetto, dato che questo presupporrebbe un essere umano già educato esteticamente.

D’altra parte, questo è stato il problema della filosofia classica tedesca sul quale Jung si interrogò dal punto di vista psicologico, anche tornando indietro di qualche secolo e facendo riferimento a Sinesio, vescovo cristiano di Tolemaide, come egli stesso scrive: «Nel suo libro De somniis egli [Sinesio] assegna allo spiritus phantasticus una posizione praticamente uguale sul terreno psicologico a quella che Schiller attribuisce all’istinto di giuoco e io alla fantasia creatrice, solo che egli si esprime in termini metafisici anziché psicologici, ma ciò è da imputare all’uso di una terminologia antiquata e non ha, ad ogni modo, importanza ai nostri fini» (ivi, p.119). Tutto ciò, tuttavia, nel commentare le lettere sull’educazione estetica, poco prima di ritrarsene a favore della funzione trascendente e nell’analisi di un’estetica che sembra perdere terreno a favore del ruolo psicologico svolto dal simbolo.

Non si può fare a meno a questo punto di porsi una domanda che desideriamo lasciare aperta ed approfondire successivamente: perché Jung ha affrontato la tematica dell’estetica all’interno dei Tipi psicologici, la sua opera profondamente di rottura con la psicoanalisi freudiana e che inoltre più ne caratterizza il suo pensiero? Ancorare l’estetica alla tipologia, con l’individuazione per esempio dell’estroversione/immedesimazione e l’introversione/astrazione, due tipologie ed anche due modalità di rapporto estetico con gli oggetti, comporta legare la dimensione estetica al relativismo psicologico, da un lato, ma dall’altro comporta anche liberare l’oggetto estetico, la costituzione del ‘bello’ dalle pastoie psicologiche e donargli una vita propria e specificamente trattabile all’interno di altre categorie, quali quella dell’arte: una dimensione ‘estetica’ che esce dalla clausura della causalità personale della psicologia dell’artista per accedere alle ampie contrade dei depositi mnestici (più o meno inconsci) delle stratificazioni immaginali dell’umanità.[4]

Questo risultato, frutto del tormentato e contorto processo descritto nei Tipi, si riveste di una certa chiarezza nello scritto pressochè coevo Psicologia analitica e arte poetica (1922), in cui Jung tende a tracciare un confine netto tra i diversi ambiti dell’esperienza e della conoscenza, confine che serve a delimitare al meglio l’ambito di applicabilità della psicologia rispetto alla identificazione del ‘bello’, in netta opposizione alla dottrina freudiana dell’arte intesa come produzione dell’uomo nevrotico, attraverso l’accostamento tra psicologia dell’artista e produzione artistica, due momenti sicuramente interdipendenti ma da Jung accuratamente tenuti distinti. In effetti, successivamente,  Jung, in Psicologia e poesia (1930), nell’interrogarsi su come la scienza psicologica potrebbe spiegare le opere artistiche e, d’altra parte, su quali potrebbero essere le condizioni psicologiche che creano un artista, giunge a scrivere che «benché i due oggetti dell’indagine si trovino nel rapporto più intimo, legati come sono da un’interdipendenza indissolubile, pur tuttavia l’uno non può spiegare l’altro» (Jung C.G. 1930, p. 359),  quindi «l’estetica e la psicologia dovranno sostenersi l’una con l’altra» (ibidem) nel descrivere la creatività irrazionale propria nell’arte ma, tuttavia, non potendola mai cogliere interamente avendo «le sue radici nell’indeterminatezza dell’inconscio, […] chiusa in eterno alla conoscenza umana» (ibidem). A questo punto, si potrebbe aprire un ulteriore campo di riflessione e approfondimento sul rapporto tra estetica e creatività, etica e bellezza, bellezza e psiche. Sembrerebbe allora che l’estetica, dando forma a immagini depositate o generate e, d’altra parte, rivivificate dall’esperienza artistica, torni ad essere, al pari della religiosità il medium tra la psiche personale dell’artista e la ‘trascendenza’. Lasciamo la questione aperta, senza azzardare al momento alcuna risposta.


Note

  • [1] I partecipanti al gruppo di ricerca che hanno contribuito a sviluppare, a discutere e revisionare questo scritto di Massimo Russo sono: Laura Avossa, Alessandra Corridore, Gianfranco D’Ingegno, Angiola Iapoce, Caterina Romagnoli.
  • [2] In Psicologia analitica e arte poetica, uno scritto del 1922 quindi di poco successivo ai Tipi, Jung rafforza la tesi della percezione quale «processo associativo» in cui «il complesso autonomo viene di certo percepito, ma non può essere sottoposto né al controllo cosciente, né all’inibizione, né può venir riprodotto volontariamente» (C.G. Jung 1921, p. 349).
  • [3] Si fa riferimento qui alla definizione di ‘sublimazione’ quale è stata formulata da Laplanche e Pontalis: «La pulsione è detta sublimata nella misura in cui essa è deviata verso una nuova meta non sessuale e tende verso oggetti socialmente valorizzati» (Laplanche-Pontalis 1967, p. 587).
  • [4] Così Jung in Psicologia analitica e arte poetica sottraendo «al controllo cosciente della personalità [dell’artista]» (p. 350) l’energia inconscia del ‘complesso autonomo’, getta le basi affinchè le produzioni artistiche si vadano a collocare nell’ampio alveo dell’inconscio collettivo. Cfr op .cit. p. 351 e sgg.

Bibliografia

  • S.Freud (1929), Il disagio della civiltà, Bollati Boringhieri, Torino 1971.
  • J.Hillman (1993), L’anima del mondo e il pensiero del cuore, Garzanti, Milano 1993.
  • C.G.Jung (1921/1957), Psychologische Typen, trad.it. Tipi psicologici, Bollati Boringhieri, Torino 1977.
  • C.G.Jung (1922), Psicologia analitica e arte poetica, trad.it. in Opere,vol.10*,  Boringhieri, Torino 1985.
  • C.G.Jung (1930/1950), Psicologia e poesia, trad.it. in Opere, vol.10*,  Boringhieri, Torino 1985.
  • C.G.Jung (1911/1952), Symbole der Wandlung: Analyse des Vorspiels zu einer Schizophrenie, trad.it. Simboli della trasformazione,  Boringhieri, Torino 1992.
  • T Lipps, Ästhetik. Psychologie des Schönen und der Kunst (Estetica.Psicologia del bello e dell’arte), parte I : Grundlegung der Ästhetik (Fondamenti di estetica), Amburgo/Lipsia 1903.
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