
2014 Numero 3
Jung e la passione per il paradosso: limiti dell’Io e inafferrabilità del Sé
Alcuni anni dopo la rottura con Freud nel corso della sua autoanalisi Jung fece esperienza delle diverse figure psichiche che popolano la nostra psiche arrivando a teorizzare un inconscio collettivo: qui può aver avuto le prime importanti percezioni del Sé. L’uso che Jung fa del concetto di Sé è molto differente da quello che fa Freud: questi utilizzava genericamente il termine Sé per fare riferimento all’Io o la persona e alla sua immagine psichica. Jung, quindi, non desume il concetto di Sé dalla psicologia tradizionale ma semmai dalla sua propria esperienza dell’inconscio, in primo luogo, e dagli studi sulla psicologia comparata, sull’alchimia, sulla filosofia e le religioni orientali, in secondo. E’ indicativo che nell’ampio panorama psicoanalitico solo Bion, con il concetto di O, abbia teorizzato qualcosa di simile al Sé junghiano.
Il termine Selbst compare per la prima volta in una conferenza su La struttura dell’inconscio tenutasi nel 1916, dove si fa riferimento ad un Sè inconscio definito come “la vera e propria personalità”[1] passibile di ampliamento. Jung rivedrà più volte questa definizione aggiungendone altre che risultano spesso apparentemente contraddittorie: infatti il Sé è definito al tempo stesso come centro virtuale, totalità dell’individuo, un’esperienza di questa totalità, un’unità cosmica primaria analoga ai concetti orientali dell’unità di una persona con tutti gli esseri viventi e le cose, un’energia o un’attività organizzatrice primaria al di fuori dell’Io conscio, l’inconscio o il centro organizzatore dell’inconscio[2].
Il Sé ha per Jung un ruolo inestricabilmente legato al processo d’Individuazione: a tal proposito egli scrive che questo “è un compito eroico o tragico, in ogni caso difficilissimo, perché implica un patire, una passione dell’Io […] egli patisce, per così dire, la violenza del Sé”[3] che di questo processo, è contemporaneamente origine e meta. La violenza intrinseca al Sé è tale a causa della sua natura psicoide dove materia e psiche si fondono andando a costituire qualcosa che rimane in ultima analisi estraneo e inconoscibile per l’Io, come per altro sottolinea Marozza quando cita Jung in quello che è l’unico riferimento che fa al Sé nel testo: “è un centro virtuale di costituzione talmente misteriosa che può esigere di tutto, la parentela con gli animali e con gli dei, con i cristalli e con le stelle”[4]. La parentela tra tutte le cose che Jung in altri contesti riassume nel concetto di identità inconscia, rappresenta un retaggio originario il cui riverbero vive ancora dentro le differenziazioni operate dall’Io che soffrirebbero, quindi, per una loro intrinseca contraddizione interna. In altre parole l’Io si differenzia faticosamente dallo sfondo indifferenziato di cui ne patisce la pressione emotivo-affettiva a tal punto da costringerlo ad occuparsene. Tale sfondo sarebbe cioè “un’oggettività influente” e non significativa come suggerisce Marozza, che, seguendo un percorso etimologico, relegherebbe il soggetto a ciò che “sta sotto l’oggetto”. Il Sé è quindi scaturigine del processo d’Individuazione in quanto la sua comparsa sulla scena psichica si manifesta attraverso l’irrompere del patico che spezza l’ordine razionale dell’Io. La sua originarietà non va concepita secondo i parametri spazio-temporali propri dell’Io, non sarebbe cioè da collocarsi in un’antecedenza temporale che esercita la sua forza una volta per tutte, ma sarebbe un fattore costituente dell’Io, un a-priori eternamente presente e che opera la sua forza simultaneamente all’Io stesso.
È così che lo spezzarsi dell’identità originaria tra tutte le cose sarebbe per la coscienza dell’Io che lo percepisce un evento a forte tonalità affettiva: evento ed emozione sono termini la cui etimologia, pur nelle differenze, rinvia ad una comune idea di ciò che “viene fuori”, ciò che appare improvvisamente. Non si dà evento quindi senza il complesso corteo di emozioni che segnalano il suo ac-caderci. Dallo spezzarsi dell’originaria identità delle cose nasce non solo quindi lo spazio come luogo di accadimento dell’evento ma forse e soprattutto il tempo. Masullo sostiene che il tempo sia “il patire ogni volta la sorpresa di un irriducibile eccedere”[5], è cioè ciò che prende avvio quando l’evento accade. Ciò presuppone che il tempo pur nel suo scorrere quieto come sottofondo della nostra esistenza, diviene percepibile solo con l’accadimento dell’evento che crea una cesura tra un prima e un dopo in cui l’esistenza passa da un a-problematico abitare la vita ad un più autentico essere scagliata fuori in un potente humus emotivo. Allora “lavorare in questo esser fuori” è quell’elaborazione faticosa che spetta all’Io quando ha a che fare con l’evento per integrarne l’impatto psichico e tornare a tempo debito in quella originaria condizione di abitabilità della vita più tranquilla e familiare. E’ così che l’evento, in quanto rottura transitoria della parentela della psiche con il cosmo, dis-loca la coscienza ordinaria scagliandola da una condizione ad un’altra: è questa variazione coscienziale che è percepita come spostamento lungo un registro temporale.
C’è di più. Se la coscienza ordinaria vive delle e nelle differenze né risulta che essa non può percepire un tempo eternamente presente, sempre uguale a se stesso, dove mai accade la differenza. Il tempo in un certo senso nasce, quindi, con l’Io perché come ben afferma Masullo: “il tempo è l’irrompere della differenza, irriducibile, che ci tocca subire. Esso è la coscienza nel suo esser come bersagliata da un’azione impersonale che, senza ragione, la colpisce.”
Il manifestarsi del Sé come evento emotivo che spezza transitoriamente l’identità inconscia tra tutte le cose costringe la coscienza a passare da un registro ordinario ad uno simbolico, ad assumere cioè un atteggiamento del quale Jung scrive che “è l’emanazione di una determinata concezione del mondo, di quella cioè che attribuisce agli accadimenti, ai grandi come ai piccoli, un senso, e che a questo senso attribuisce un determinato valore, maggiore di quello che è solito ascrivere alla realtà di fatto così come si presenta”[7]. Per Jung, quindi, la realtà di fatto, in quanto evento emotivo che rompe la transitoria identità inconscia tra psiche e mondo, genera quella differenza, quella eccedenza di cui il senso è espressione vitale e la coscienza simbolica il contenitore. Il Sé quindi ha a che fare con la questione del simbolo e dell’attività simbolica in quanto lo spezzarsi dell’identità inconscia a seguito dell’evento patico, costituisce al contempo una crisi per l’Io ordinario e razionale ma anche un momento propiziatorio per il ritiro della proiezione e per la messa in connessione degli opposti. Come scrive Barone «il momento centrale è costituito da una inevitabile “sosta” in un luogo impossibile, dove si patisce senza capire una condizione insostenibile di abbandono. […] anche se lo scopo è quello che gli opposti cooperino, essi prima devono coesistere in completa contrapposizione, ed entrambi coscientemente […] questa condizione essenziale dove l’Io giunge alla propria messa in croce corrisponde esattamente alla nuova centratura virtuale e capitale della personalità complessiva, ovverossia al Sé. Ciò significa che il Sé non è, come pareva semplicemente la tappa finale di un percorso lineare, ma una presenza costitutiva e diffusa con cui si è sempre, contraddittoriamente, in rapporto.»[8] La vera e propria attività simbolica si ha quando la libido sosta in questo luogo atopico ed utopico di ricomposizione degli opposti. Qui gli opposti sono in rapporto di simultaneità, in quanto l’uno rinvia all’altro immediatamente. Tale rapporto è in fibrillazione continua ed è destinato a rompersi per dare luogo a quel tertium non datur che è poi il passaggio alla terza prerogativa del simbolo cioè il suo rimandare ad un significato ulteriore e non prevedibile. Ciò dimostra che l’attività simbolica piuttosto che operare un avanzamento temporale nel passare dal suo rinviare a nulla di noto, al ricomporre gli opposti e al suo rimandare ad un significato ulteriore e non prevedibile opera viceversa un accrescimento spaziale della superficie psichica integrando di volta in volta gli opposti psichici inconsci.
Come sostiene Barone quindi, l’attività psichica sarebbe allora caratterizzata non da una “psicodinamica ma da una psicoimmobilità in cui gli opposti sono compresenti, tempo di contraddizione ovvero di formazione e riconoscimento delle contrapposizioni”[9].
Il Sé come luogo atopico e impersonale di messa in connessione degli opposti ricorda anche l’uso originale che fa Marozza del concetto di aidà di Kimura cioè di quello spazio della presenza umana tra sé e l’altro. Marozza, infatti, sostiene che vi sarebbe anche un originario archè-aidà tra sé e la propria natura consistente in quel rimando continuo ad una oggettività percepita dall’Io ma da cui l’Io stesso si sente percepito: oggettività che è contemporaneamente sfondo vitale dal quale l’Io emerge per sottrazione come sua variazione e base comune a cui si è radicati. L’Io quindi si troverebbe, in virtù della propria qualità sensibile, sempre dinanzi a qualcosa di estraneo che lo inquieta in una condizione di totale passività e che pure lo interessa, come afferma Marozza: «ecco dunque che quest’Io […] dovrà affrontare un’altra forma di spaesamento, o di destrutturazione, sostenuta dal riconoscimento del suo sentirsi altro in ogni movimento autentico della propria costituzione.»[10]. Questa alterità dall’Io gli si oppone come una sfera ignota, appunto inconscia, che, come dice Jung, è sempre proiettata. L’espressione di tale radicale alterità è segnata da quella esperienza perturbante già descritta e definita da Freud come unheimlich, in cui le distinzioni note vacillano in un continuo rimando tra soggetto e oggetto, di nuovo l’aidà. Da qui quindi la ridefinizione dell’antinomia non tra la coscienza e l’inconscio, semmai tra una posizione attiva, epistemofilica, dell’Io e una posizione passiva patica, sensibile e non direttamente conoscitiva dell’Io. In tal senso più che un atteggiamento demistificatorio, all’Io occorrerebbe una sospensione come forma di apertura al mondo in quanto rimando continuo alla totalità di significabilità derivante dall’incontro con quell’inquietante estraneità[11] o intranea estraneità[12] che abita la personalità come un soggetto impersonale. È così che questo gioco tra attività epistemofilica dell’Io ed esperienza sensibile e patica alimenta il processo d’individuazione portando ad una graduale separazione dell’Io dalla coscienza e alla nascita di un soggetto altro, non più coincidente con l’Io, ma viceversa di un soggetto di una coscienza allargata a dismisura sino a perdersi nei confini sfumati di quella oggettività del reale che agisce i suoi effetti destabilizzanti. L’unica trasformazione clinica possibile allora non riguarderebbe il passato come tale, ma l’attivazione dell’immaginazione che partendo dall’anteriorità esperienziale dell’immagine la ri-connetta con le funzioni egoiche per trasformarsi in discorso immaginativo in cui rivivono gli aspetti profondamente affettivi e arcaici dell’esperienza stessa, senza alcuna pretesa di impossessarsi del suo principio costituivo ma con la sola intenzione di darne continua espressione nel presente. L’interpretazione analitica avrebbe quindi una funzione “anfibola”, come afferma Marozza, che mentre costruisce e decostruisce nuove narrazioni, «favorisce la capacità del soggetto di porsi attivamente di fronte alle dimensioni incognite della propria soggettività, trasformando, come dice Ricoeur, l’angoscia dell’irrappresentabile in creatività.»[13].
In altre parole la sosta in questa zona mediana di confine è all’origine di quella possibilità tutta umana di ri-trascrivere la propria memoria, fenomeno che Freud racchiuse nel concetto di Nachtraglichkeit: se è vero , infatti, che l’Io può uscire da narrazioni patologiche in cui il ricorso al sintomo segnala la sua coazione a ripeterle, lo si deve al fatto che nell’aidà tra Io e non-Io, le radici identitarie dell’Io cedono come racconta un adagio cinese raccolto nello “Zhuang-zi” che dice: “Zhuang-zi una volta sognò che era una farfalla svolazzante e soddisfatta della sua sorte e ignara di essere Zhuang-zi .Bruscamente si risvegliò e si accorse con stupore di essere Zhuang-zi. Non seppe più allora se era Zhuang-zi che sognava di essere una farfalla, o una farfalla che sognava di essere Zhuang-zi”.[14] Il racconto dimostra che l’Io sfuma gradualmente verso il non-Io senza che si possano nettamente tracciarne i confini. Come scrive Nietzsche, infatti, parole come “persona” o “Io” «sono forse linee d’orizzonte della nostra conoscenza, ma non sono verità.»[15]. Allora l’attenzione agli spazi mediani, di cui il sogno ne è un esempio, consente all’Io di reinserirsi in narrazioni più efficaci ma al prezzo di sperimentare transitoriamente quella dolorosa e incomprensibile condizione di coincidentia oppositorium. In fondo sintomo e simbolo non sarebbero possibili se non vi fosse una condizione di identità inconscia al fondo della psiche, a cui si fa appello ogni volta che si ricorre alla libera associazione, il cui principio si basa sulla sostituzione dell’uno con l’altro: essa, infatti, ripercorre idealmente a ritroso quel cammino in cui in un punto si è prodotta l’anomalia del sintomo, che è espressione della unilateralità della coscienza e di conseguenza della repressione di un’antitesi, sostituendovi il simbolo, dove, viceversa, tesi e antitesi, Io e non-Io, convivono in una tensione vivificante.
Il simbolo quindi riscatta quell’oggettività del reale dalla quale l’Io è già giocato a monte: infatti questo è il carattere paradossale del processo d’individuazione che ha come meta il ritorno alle sue origini in quel nietzscheano “divenire ciò che si è” e in cui ciò che si è è proprio quel divenire, poichè il tendere dell’Io verso quell’orizzonte asintotico che è il Sé, pur nella intrinseca impossibilità ad afferrarlo, alimenta la ricerca di un senso personale da donare all’esistenza, svincolandola così da un angusto e patologico adattamento al collettivo. L’oggettività del reale si imporrebbe, quindi, prima di ogni formazione dell’Io su una coscienza costretta a pensarla ricorsivamente. In questo senso la coscienza soggettiva che si sforza di definire la realtà oggettivandola è già giocata a monte da una oggettività del reale che la fonda e che quindi, ancora patisce nei riverberi di un pensiero profondamente affettivo ed extrarazionale. Probabilmente il Sé come sostiene Barone, deve essere considerato come un «movimento molecolare capace di unificare gli opposti senza esserne circoscritto, dal momento che questi ultimi non sarebbero altro che suoi stati di aggregazione […] in quanto movimento molecolare esso si comporta come un’atmosfera, allo stesso tempo avvolgente e sfuggente, inconoscibile e pur tuttavia reale (efficace, operante).»[16]. La coscienza di siffatta personalità non sarà più una coscienza esclusivamente ordinaria perché legata alle dinamiche di funzionamento dell’Io ma sarà per eccellenza una coscienza simbolica il cui centro è il Sé dove, come scrive Jung, «si prova in un certo qual modo la sensazione di essere sostituiti, il che non implica quella di essere destituiti.»[17]. Si può quindi dire che il Sé è meta del processo d’individuazione nella misura in cui l’originario spezzarsi dell’identità inconscia mira ad una sua ricomposizione di grado però più elevato: ciò significa che paradossalmente il lavoro di consapevolizzazione dell’Io da un lato ripristina un originario stato di coesione e di armonia tra tutte le cose ma dall’altro contemporaneamente porta ad un maggior grado di differenziazione psichica in cui l’Io si relativizza per consentire ad altre figure psichiche di emergere sotto la guida del Sé. Questa tensione tra identità e differenza, tra ciò che è noto e ciò che è ancora ignoto, convive nel simbolo di cui Jung scrive che «è la migliore indicazione o formulazione possibile di un dato di fatto relativamente sconosciuto, ma la cui esistenza è riconosciuta o considerata necessaria.»[18].
L’espressione del Sé avviene quindi solo per mezzo del simbolo poichè l’Io essendone parte non può mai direttamente conoscerlo. A ciò si unisca anche il fatto che il Sé, come si diceva , ha una natura psicoide che l’Io non può concepire completamente secondo le sue categorie di funzionamento. Come scrisse infatti Jung «il Sé è il volume complessivo di tutti i fenomeni psichici nell’uomo. Esso rappresenta l’unità e la totalità della personalità considerata nel suo insieme.»[19]. Jung avvertì l’esigenza di teorizzare un “soggetto altro” rispetto all’Io, così vasto da comprenderlo e contemporaneamente da opporvisi. Questo sembra voler intendere Jung quando nella prefazione ad un testo di Suzuki dice: «in qualunque modo poi si voglia definire il Sé, esso è qualcosa di diverso dall’Io e siccome una più alta comprensione dell’Io conduce al Sé, questo è qualcosa di più comprensivo che racchiude in sé l’esperienza dell’Io e quindi lo trascende. Proprio come l’Io è una certa esperienza di me stesso, così il Sé è un’esperienza del mio Io, vissuta però non più nella forma di un Io più vasto e più alto, ma in forma di un non-Io.»[20]. Il paradosso sta nel fatto che l’Io percepisce se stesso come se fosse altro, o per dirla in altri termini, l’Io sperimenta uno stato di coscienza allargata di cui non è più soggetto, ma condizione necessaria, come lo stesso Jung sottoscrive quando cita Angelo Silesio a proposito della necessità della presenza dell’uomo per Dio.
Ciò presuppone che nel costituirsi dell’esperienza il non-Io, proprio perché più vasto e più alto, sia una presenza incombente e massiccia che obbliga l’Io ad una sua continua negazione che esige però un riscatto: cioè l’Io deve negare il Sé in quanto dimensione soverchiante e onnicomprensiva per potersi costituire ma poi successivamente s’impone l’esigenza del suo riscatto, in quanto ciò che viene rimosso acquista potenza nell’inconscio e preme per manifestarsi nella coscienza. Ora il riscatto del Sé non può avvenire se non attraverso una sua proiezione, poiché -come sostiene Jung- quello che è inconscio viene proiettato e nella fattispecie ciò accade nell’esperienza del simbolo: il simbolo del Sé non è tuttavia il Sé, poichè paradossalmente, a mio avviso, la sua funzione non è affatto quella di spiegare alcunché, ma viceversa quella di ri-velare.
Durante la mia esperienza di volontario psicologo nelle tendopoli della provincia dell’Aquila ho avuto modo di constatare la notevole differenza in termini di elaborazione del lutto in particolare tra una popolazione di una tendopoli e le altre: in queste ultime ho assistito a diversi episodi di follia collettiva con assalti ai magazzini dei viveri e del vestiario. In queste ultime realtà, si discuteva prevalentemente di quando sarebbe arrivata la terza e ultima scossa di terremoto che sarebbe stata di gran lunga più potente e devastante delle altre, secondo alcune interpretazioni delle attuali conoscenze scientifiche sulla fenomenologia dei terremoti. Viceversa in un’altra tendopoli ho percepito un clima emotivo di maggiore distensione che ha permesso alla popolazione di riappropriarsi del futuro inteso in senso fenomenologico come dimensione che offre uno slancio progettante al Dasein. Una cosa in particolare mi aveva colpito in questa ultima tendopoli: la presenza della campana della chiesa del paese, completamente raso al suolo, posta nel bel mezzo del campo. La campana allontana psichicamente la pressione soverchiante esercitata dall’idea della terza e imminente scossa, è per così dire un antidoto nei confronti della violenza della natura. In un certo senso opera una negazione, perché in fondo un terremoto può insorgere improvvisamente in ogni luogo e in ogni momento. Tale negazione è però parziale perché la campana allude, rinvia, all’evento del terremoto da cui protegge al tempo stesso. La campana quindi rivela il Sé nella misura in cui la sua allusione alla onnipotenza distruttiva della natura non è uno “spiegarla”, ma un velarla nuovamente e così offrire una protezione all’Io. Inoltre si intuisce come il simbolo è efficace proprio perché non spiega nulla: infatti, se la spiegazione, frutto di un’attività razionale dell’Io, non s’innesta sullo sfondo patico, non riesce nemmeno a porre quel velo tra l’Io e il Sé che evita di gettare il Dasein sempre dinanzi al nulla della propria esistenza; come dice Heidegger, infatti: «il davanti a che dell’angoscia è il mondo come tale…[in esso] si rivela il nulla e in nessun luogo.»[21]. Così arriviamo a sostenere che quel Sé è intrinsecamente ni-ente cioè non un ente intramondano conoscibile, o un oggettività significativa, per dirla con Marozza, ma certamente un oggettività influente che è alla ricerca della parola come afferma la paziente di Sandler, citata da Di Petta in quella terribile esperienza che è il praecoxgefuhl: «C’è qualcosa, è accaduto qualcosa, sento che sta accadendo qualcosa, sento che qualcosa c’è…dimmi, che cosa c’è?»[22]. Se vi sono analogie tra le persone colpite dal disastro dell’Aquila e quelle che vivono in questa paradossale e insostenibile condizione di perplessità che esita spesso in franco delirio è il trovarsi dinanzi al niente senza le parole adatte per poterlo de-finire…
- Note
- [1] C.G. Jung (1916) La struttura dell’inconscio, tr. It. In Opere vol. VII, Boringhieri, Torino 1983, p.282
- [2] Per una più vasta rassegna sulle origini e l’evoluzione del concetto di Sé in Jung vedi M. Balenci, Il Sé, in Trattato di psicologia analitica, a cura di A. Carotenuto (1992) UTET, Torino, pp.207-243.
- [3] C.G. Jung (1942-48) Saggio d’interpretazione psicologica del dogma della Trinità, tr. It. In Opere vol.XI, Boringhieri, Torino 1979, p.156
- [4] C.G. Jung (1927) L’Io e l’inconscio, tr. It. In Opere, vol. VII, Boringhieri, Torino, 1983 p.233
- [5] A. Masullo, Paticità e indifferenza, Il Melangolo, Genova, 2003, p.67
- [6] Ibidem, p.67
- [7] C.G. Jung (1921) Tipi psicologici, tr. It. In Opere, vol.VI, Boringhieri, Torino 1969, p.486.
- [8] P. Barone (2004) Lo Junghismo, Raffaello Cortina Editore, Milano, pp.164-165
- [9] ivi, p.272
- [10] M.I. Marozza (2012) Jung dopo Jung, Moretti e Vitali, Bergamo, p.237
- [11] B. Waldenfels (2006) Fenomenologia dell’estraneo, tr. It. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2008, p.140
- [12] A. Masullo (2003) Paticità e indifferenza, Il melangolo, Genova p.105
- [13] M.I. Marozza (2012) Jung dopo Jung, Moretti e Vitali, Bergamo, p.252
- [14] Zhuang-zi, Adelphi, Milano, 1982, p.32
- [15] F. Nietzsche (1885-1887), Frammenti postumi, in Opere di F.N., a cura di G. Colli e M. Montanari, vol. VIII, tomo 1, tr.It. Di S. Giammetta, Adelphi, Milano 1975, p.175
- [16] P. Barone (2004), Lo Junghismo, Raffaello Cortina editore, Milano, p.138
- [17] C.G. Jung (1929/57) Commento al “Segreto del fiore d’oro”, tr. It. In Opere vol.XIII, Boringhieri, Torino, 1988, p.61
- [18] C.G. Jung (1921) Tipi psicologici, in Opere vol. VI, Boringhieri, Torino, 1969, p.483
- [19] C.G. Jung (1921) Tipi psicologici, in Opere, vol. VI, Boringhieri, Torino 1969, p.477
- [20] C.G. Jung (1939) Prefazione a D.T. Suzuki, “La grande liberazione. Introduzione al buddismo Zen”, tr. It. In Opere, vol. XI, Boringhieri, Torino 1979, p.553
- [21] M. Heidegger (1927) Essere e tempo, tr. It. A cura di F. Volpi, Longanesi, Milano 1971, p.228
- [22] Di Petta (1999) Il mondo sospeso, E.U.R., Roma, p.34
Bibliografia
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