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Il tempo della vita e la coscienza estetica

Rivista annuale a cura del Centro Italiano di Psicologia Analitica Istituto di Roma e dell’Italia centrale

QCJ 2013

2013 Numero 2

Il tempo della vita e la coscienza estetica

Interrogarsi su com’è cambiata la temporalizzazione della vita nell’epoca moderna può, forse, aiutare a capire anche come si è modificata la domanda terapeutica e quali risposte richiede.

L’essenza che caratterizza la temporalità del moderno, diversamente da quella del secolo scorso, legata alle idee di progresso e di sviluppo, è quella di esprimere una “semplice presenza”. Una presenza semplice data da un continuum senza soluzione di continuità, un tempo non solo privo di passato, ma soprattutto un tempo che mortifica la discontinuità della temporalità dell’esperienza individuale attraverso l’idea dell’autoaffermazione personale come tratto distintivo dell’uomo nella modernità. (Blumenberg H. 1974; Löwith K. 1949;  Benjamin W. 1963; Marramao G. 1990, 1994)

Pier Aldo Rovatti sintetizza così questa riduzione del vissuto alla semplice presenza:

“Questa presenza è ‘semplice’ perché è il risultato di una semplificazione, di una vera e propria amputazione: sottratto dal suo complesso gioco con l’assenza, l’essere qui e ora del presente si blocca in una dimensione che, a veder bene, non ha tempo è priva di temporalità.” (Rovatti P. 1987, p. 25)

Un presente contingente, dunque, che non lascia spazio, nei termini della psicologia junghiana, alla necessaria dialettica fra la figura della Persona e la propria individualità; dialettica nella quale Jung inscriveva quel processo d’individuazione attraverso cui l’individuo costruisce un senso immanente al vivere nel mondo.

L’individualità costretta in “un semplice presente” si riconosce solo per come appare nel sociale, la sua coscienza è sola egoica e rivolta all’autoaffermazione, è perciò priva sia della memoria della propria origine sia di quella storica. Una coscienza, in termini junghiani, inconsapevole di essere “contemporaneamente” conscia e inconscia, dove l’inconscio è anche collettivo.

L’analisi junghiana, a fronte di tale temporalizzazione della vita, può proporre, diversamente da altre psicoterapie, il pensiero che le è proprio, un pensiero “polare” così come l’ha proposto Jung. Un pensiero che non tende a una sintesi, come richiede una visione del tempo omogeneo, ma un modo di guardare alla vita in cui gli estremi persistono in una tensione tale per cui ciò che è originario è sempre riattualizzato dialetticamente nel divenire.

Un pensiero che, diversamente da quello obiettivante e lineare del progresso, che riduce la vita psichica a un già dato, o che crede di rappresentare la realtà specularmente, si nutre invece delle disattese, delle interruzioni e della discontinuità attraverso cui prende forma la vita, aprendo, appunto, all’imprevisto e alla necessaria dialettica degli opposti.

Negli stessi anni in cui Jung elaborava il concetto d’individuazione come quell’esperienza che dura tutta la vita, e attraverso la quale l’individuo costruisce il proprio senso nei confronti del mondo, Walter Benjamin scriveva un saggio sul modo di esperire la temporalità nell’epoca moderna molto affine alla visione junghiana. (Benjamin W. 1955; Rella F. 1980; Desideri F. 1980; Bodei R. 1982, pp. 165-184; Carchia G. 2009)

La differenza fra il tempo storico, scrive Benjamin, e i singoli accadimenti individuali è che la somma di questi ultimi non potrà mai essere ricondotta al senso della storicità e, tanto meno, questa può essere redenta dalle catene del tempo meccanico da una visione tragica della vita che trova  espressione solo nelle azioni individuali. Il tempo dell’anima che propone Benjamin non è riducibile a una visione solo individuale, analogamente Jung aveva pensato il processo d’individuazione contro ogni individualismo, tanto da scrivere che questo “è un mostrare intenzionalmente […] le proprie presunte caratteristiche in contrasto con i riguardi e gli obblighi collettivi”. (Jung C. G. 1928, p. 73)

A una storia vissuta come un vuoto contenitore da riempire con singoli accadimenti individuali, Benjamin contrappone una visione del tempo che oltre al succedersi dei singoli eventi e del passare del tempo cronologico riconosce anche un nucleo latente in ciascun individuo. Una memoria originaria legata alla tradizione e alla storia di ciascun individuo che, se riattualizzata dialetticamente nel confronto con il mondo, restituisce un senso storico alla vita vissuta che il tempo semplicemente presente non può comprendere.

Per rompere la continuità del tempo omogeneo, Walter Benjamin propone quindi un atteggiamento estetico, uno sguardo in grado di cogliere il mostrarsi dell’anima proprio perché questa appare attraverso le immagini. Un atteggiamento legato a un “sentire” in grado di cogliere le smentite che la realtà e l’incontro con l’altro possono offrire; smentite che rompono la continuità del tempo omogeneo e la linearità in cui la modernità pretende di inscrivere il corso della vita.

Il sentire “è un riconoscere senza pensare, è apertura a qualcosa che non passa attraverso il possesso individuale”, il sentire non è rappresentazione è qualcosa che la precede. (Gambazzi P. 1989, p. 111)

Il tempo dell’anima è il tempo della memoria, sia individuale sia collettiva, appare nelle immagini che i ricordi ci consegnano involontariamente nelle discontinuità delle interruzioni dell’intenzionalità della coscienza; come anche Proust aveva mostrato nelle sue Recherche.

E’ perciò una temporalità estetica quella che si presenta nelle immagini dialettiche, che sono tali perché connettono la sfera del contingente e quella della tradizione, la dimensione individuale e quella collettiva senza pretendere di raggiungere nessuna sintesi.

Intendere la vita come un “compimento” significa, secondo Benjamin, rompere il continuum del tempo omogeneo che inchioda l’individualità in un destino collettivo vissuto tutto nell’apparenza, significa fare della discontinuità della vita il punto di partenza. Considerare la vita come un “compimento” vuol dire, perciò, riattualizzare nel tempo presente l’originario sincronicamente al tempo futuro, in modo da aprire a dimensioni psichiche altrimenti chiuse alla sola dimensione collettiva. (Carchia G. 2009, p. 120)

“L’origine è la meta”, scriveva Karl Kraus, come Jung e Benjamin, agli inizi del novecento in piena crisi del sistema classico e contro l’ideologia della nuova borghesia tutta appiattita sul presente; cercava, anche lui, risposte fondative per un futuro che non perdesse il legame con la tradizione. (Kraus K. 1952, p. 34)

Un legame necessario contro il tempo vuoto della semplice presenza, in quanto spazio che si riempie di arcaismi tanto più la tradizione cade nell’oblio; arcaismi che emergono in tutti gli aspetti della vita individuale e collettiva proprio perché questo spazio non è in grado di accogliere il tempo dell’anima. Jung avrebbe detto parti d’ombra compensatorie a un’individualità identificata nella figura della Persona.

La vita senza tradizione e senza un passato si restringe perciò nell’interesse privato più angusto, il vissuto presente è senza futuro ed è sempre più determinato e aderente a una dimensione collettiva; inautentica la definisce Heidegger.

Una tradizione da recuperare, tuttavia, non nel modo che ci ha proposto Hegel e i vari pensieri storicistici, i quali la inscrivono in un tempo progressivo dello spirito, o peggio ancora, come chi propone la restaurazione del tempo passato, negando ancora una volta la temporalizzazione della vita. Questa tradizione guarda al passato per la sua conservazione, proiettandolo in una dimensione futura per fermare, appunto, il tempo in un semplice presente.

La tradizione di cui parla Benjamin non va recuperata, perciò, attraverso la restaurazione di qualcosa che è già stato, quanto colta nelle immagini dialettiche che emergono nella discontinuità della vita di ciascun individuo come un sintomo, come disconferma delle attese del tempo omogeneo. Una tradizione, perciò, che emerge sia nei ricordi sia in ciò di familiare che riconosciamo nell’estraneo.

Un estraneo familiare e immagini che per essere riconosciute richiedono nell’incontro terapeutico la coscienza estetica individuata da Walter Benjamin, la cui attenzione è passiva e si lascia impressionare e non è intenzionalmente diretta. Un’attenzione “disattenta” legata a un sentire di ciò che da fuori richiama un interno, una coscienza simile a quella che si ha quando ci si sveglia, quando si è contemporaneamente nel sogno e nella veglia.

Un’attenzione di competenza della corporeità e delle sue sinestesie e non di una rappresentazione mentale; William James la chiamava “attenzione passiva involontaria”.

Uno sguardo che nell’incontro con il paziente si traduce per l’analista in un atteggiamento “attenzionale” diverso dalla freudiana attenzione fluttuante, non riconducibile a un’attività mentale quanto piuttosto a uno stato che la precede, uno stato “affetto” da un movimento inverso a quello di una mente che riflette tutta sola sui propri stati mentali.

E’ vero che lo psicoanalista utilizza il proprio apparato psichico come “strumento” conoscitivo nel lavoro terapeutico ma quest’uso non è di tipo epistemico rappresentativo, non riguarda una rappresentazione dello stato della coscienza, tipico dell’empirismo sensualistico, e tanto meno la coscienza di uno stato così detto interno, che caratterizza il mentalismo. Entrambi questi atteggiamenti sono mentali e usano le parole come segni che rappresenterebbero stati interni, Freud non a caso le chiamava “rappresentazioni di parola”, parole convenzionali e astratte dall’esperienza vissuta.

La psiche, ci hanno detto Jung e Benjamin, si mostra per immagini che esprimono stati emotivi la cui descrizione è simile a quella di un testimone che racconta una situazione in cui è implicato, un nominare non riducibile a un’attività della mente che riflette sulle proprie rappresentazioni, come fa lo spettatore che guarda il naufrago al sicuro nella terra ferma.(Blumenberg H. 1979) Alle rappresentazioni mentali non corrispondono specularmente eventi, realtà interna o quant’altro, come crede il pensiero obiettivante; l’esperienza di uno stato interno è l’esperienza della parola legata al gesto che la esprime e la nomina.

Le parole nel dialogo fra paziente e analista non comunicano uno stato interno, ma esprimono significati a secondo del contesto, il linguaggio usato è un’attività e il senso lo acquista nell’impiego che se ne fa nel dialogo; le parole nominano. “L’interesse del nominare, scrive Pierre Fédida, è esattamente quello di sottrarre la parola a qualunque categoria di rappresentazione”, in modo tale da lasciare spazio all’immagine che la parola raffigura, la quale, continua Fédida, ”è sensorialmente reminiscenza della cosa”. (Fédida P. 1985, p. 224)

La referenza della rappresentazione, com’è noto, è solo traslata, non accede in modo diretto ai sentimenti, alle emozioni e alle intenzioni, assolve solo il compito di presentarli attraverso dei segni. La rappresentazione è sempre in ritardo rispetto alla percezione sensibile, e alla sua possibilità di dare espressione alla corporeità nel momento in cui si mostra.

“L’immanenza e la trascendenza del passato, l’attività e la passività della memoria – scrive Merleau-Ponty – possono essere conciliate solo se rinunciano a porre il problema in termini di rappresentazione”. (Merleau-Ponty M. 1952, p. 25)

L’originario è, perciò, temporalmente modulato nei processi psichici che prendono forma nel flusso della relazione analitica, nel qui e ora del dialogo fra paziente e analista. I sentimenti, le emozioni e le idee sono riconosciuti quando sono detti, quando emergono spontaneamente nel dialogo terapeutico, il quale si nutre di una temporalità dove non è possibile prevedere e sapere in anticipo cosa si dirà. L’esperienza nel dialogo analitico è espressa dal e nel linguaggio ordinario e, proprio perché è la lingua di tutti, non rimanda solo a un vissuto personale e privato, ma, se pur in modo impreciso e confuso, sempre alla ricerca della parola giusta, richiama anche una forma pubblica di condividere l’esperienza umana.

La sua referenza è dunque la vita con le sue emozioni e le sue sofferenze, essa è traccia di ciò che non è linguistico, il cui senso si offre all’intuizione nel presente della relazione e dello scambio fra paziente e analista. La referenza del linguaggio che nomina si nutre di un’intimità più profonda della rappresentazione, perché la vita reale, per quanto scandita da un tempo cronologico, non scorre su un piano lineare, ma sulla coappartenenza di un tempo passato e di un tempo futuro; il soggetto, nella temporalità, è costantemente altro da sé.

“Noi – scriveva sempre Merleau-Ponty – non comunichiamo con la logica delle parole o col chiuso del nesso linguistico fra significante e significato: comunichiamo con quanto nelle parole vi è di gesto, di atto vivo e presente che sventa il sillogismo aristotelico e, solo ‘dice’ il nostro indicibile tempo”. (Merleau-Ponty M. 1945, p. 255)

Nella relazione analitica, la sensibilità dell’atteggiamento della coscienza estetica che, come abbiamo detto, si caratterizza per una “attenzione disattenta” si pone come un modo d’essere non riducibile a una tecnica della clinica, la sensibilità è diversa da un’attività mentale che interpreta attraverso la reificazione dei concetti della metapsicologia.

L’atteggiamento attenzionale dell’analista è rivolto a “ri-spondere” alla domanda del paziente nel senso etico ed etimologico che la parola significa: quello di assumersi la responsabilità di rispettare la sua unicità individuale. Un rispetto che passa attraverso un riconoscimento che non è né un rispecchiamento né una restituzione secondo il modo dell’interpretazione, quanto piuttosto frutto di un lavoro svolto congiuntamente.

Un riconoscimento dato da un atteggiamento etico che Jung sottolineò più volte nella sua opera e che una frase in Psicologia del transfert riassume in modo efficace: “In ogni nuovo caso […] ogni traccia di routine – scrive – finisce con il condurre su una strada sbagliata”. (Jung C. G. 1946, p. 25)

Il riconoscere non dipende, perciò, da una conoscenza di tipo epistemico sul funzionamento della mente del paziente, conoscenza dedotta attraverso un’interpretazione dello stato mentale dell’analista, ma da atti di esperienza. Le teorie sono come una bussola che è indispensabile per orientare la carta geografica e per decidere la direzione da seguire, ma il percorso che poi si segue non riguarda più le coordinate cartesiane, ma la capacità di “leggere” il territorio dalla posizione del proprio corpo e da quel “sentire” che abbiamo detto sopra.

Le forme introspettive di considerare il transfert e i controtransfert come strumento di conoscenza del disagio mentale dei pazienti sono appunto mentali, credono di riflettere specularmente su un vissuto come se fosse un oggetto, e, proprio per questo, si precludono di cogliere il modo di darsi dei vissuti e l’ascolto della loro nominazione.

“Le disposizioni affettive e le rappresentazioni che l’analista ha di se stesso”, scrive Fédida nel suo libro sul controtransfert, si ideologizzano in schemi soggettivi di tipo cognitivo che fungono da ostacolo alla nascita di nuove metafore”. (Fédida P. 1992, p.228)

L’incontro con l’altro, soprattutto in analisi, non è riducibile, l’abbiamo già detto, a una conoscenza epistemica, quanto piuttosto si tratta di una conoscenza che solo una coscienza estetica può cogliere proprio perché fondata su una referenzialità originaria. Una coscienza che non cerca certezze conoscitive, ma visione di ciò che è invisibile nel visibile, visione che solo lo sguardo di un’intenzionalità “fungente” riesce a vedere, come ricorda Merleau-Ponty all’inizio della Fenomenologia della Percezione, proprio perché è radicata nella sensorialità e non nei giudizi. (Merleau-Ponty M. 1945, op. cit., p. 27)

Per concludere, la domanda terapeutica richiede oggi una risposta che sappia cogliere la manifestazione dei disagi psichici come espressione della temporalizzazione della vita. Una risposta che è etica e non solo clinica, rivolta contemporaneamente sia a rispettare l’unicità di ogni singolarità individuale contro ogni forma di riduzionismo sia a costruire insieme una nuova nascita contro ogni forma di adattamento.

L’analisi è vista, non a caso, come una seconda opportunità per una nuova nascita, come un “nascere dal divenire e trapassare” scriveva Walter Benjamin; un trapassare libero dalle catene di un tempo continuo, vuoto, omogeneo e senza memoria.

Se c’è una dimensione che è stata sempre poco considerata nella riflessione filosofica e psicologica è proprio la nascita, ed è stata forse non a caso una donna, Maria Zambrano che, partendo dalla tremenda esperienza dell’esilio, dove si muore rimanendo vivi, a porre la nascita come quella possibilità in cui la temporalità si mostra come l’aspetto più essenziale della vita. L’essere umano entra nel mondo vivendo almeno tre temporalità: quella che lo precede, quella di un nuovo inizio e quella che verrà. (Zambrano M. 2007, pp. 166-170)

Come è noto, la psicoanalisi ha visto la nascita come un trauma dimenticando che è invece e soprattutto un venire alla luce, anche nel buio più profondo, per essere visti e dalla cui vista viene restituita la vita. (Rank O. 1924)

La Zambrano, commentando una poesia di Miguel de Unamuno, scrive: “Perché vivere, dev’essere questo: continuare a nascere”. (Zambrano M. 2006)


Bibliografia

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