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Il processo di traduzione nella pratica clinica

Rivista annuale a cura del Centro Italiano di Psicologia Analitica Istituto di Roma e dell’Italia centrale

A tema

2022 Nuova Serie Numero 3 A Tema

A CURA DELLA REDAZIONE Se si dovesse sintetizzare in cosa si esprime l’essenza e lo specifico dell’attività di cura della psiche, si potrebbe riassumerla nel suo continuo ‘stare tra’: Logos ed Eros, esperienza della relazione e possibilità di riflessione, pratica clinica e teoria. La rubrica a tema si pone come uno spazio di confronto, di espressione ed elaborazione di tutte le tematiche che partendo dalla pratica clinica evolvono in visioni della psiche, favorendo la possibilità di mantenere continuamente viva una sospensione che si interroga.

Il processo di traduzione nella pratica clinica

Introduzione

In contrasto con una dimensione collettiva che ha vissuto e sta vivendo un contagio infettivo su scala mondiale, e in cui l’altro è stato vissuto con paura e distanziamenti, si desidera porre l’accento sull’importanza di mantenere un movimento di pertinenza individuale e di apertura verso l’altro. Il particolare momento storico che ci troviamo ad affrontare rende quasi doveroso mantenere in tensione una prospettiva individuale e una collettiva, senza che si soccomba ad una delle due. Tematiche spesso relegate come lontane da noi sono entrate progressivamente nella nostra realtà o comunque si sono ad essa molto avvicinate. Si pensi per esempio al contesto pandemico o all’attuale conflitto tra Russia e Ucraina, venendosi così ad accentuare la delicata tematica di confine tra il sé e l’altro. Un proficuo contributo alle riflessioni sviluppatesi in questo articolo sono derivate in parte da un dialogo intrapreso con un caro amico e collega, epidemiologo e psichiatra, dott. Federico Soldani. Quando ancora non si parlava di pandemia, il suo interesse si indirizzò al rapporto tra politica e tecnica (quali medicina, psicologia, psichiatria), tanto che ad una conferenza presso il Royal College of Psychiatrists di Londra, nel 2019, parlò di fronte ad un pubblico composto prevalentemente da medici e psichiatri del rischio di un crescente prevalere della tecnocrazia sulla politica. Non ci addentreremo in questa sede in un’esplorazione approfondita del movimento tecnocratico, sorto agli inizi del XX secolo e tuttora molto attuale nelle nostre realtà sociopolitiche, quanto piuttosto degli effetti che tale movimento ha avuto e sta avendo nel linguaggio di uso comune. Il prevalere di tecnocrazia sulla politica ha determinato gradualmente un cambiamento del linguaggio politico in senso sempre più medico, psicologico e psichiatrico (Soldani 2021). Si pensi per esempio al recente decreto ‘Cura Italia’ oppure alla tendenza di psichiatrizzare pubblicamente, con diagnosi a distanza, figure democraticamente elette, al fine di screditare l’avversario politico. Innumerevoli altri esempi ci vengono forniti dalla recente campagna elettorale, in cui abbiamo assistito da vicino ai rischi annessi ad un uso improprio in politica di terminologie psichiatriche e psicologiche, andando a stigmatizzare, anziché comprendere, alcuni disagi derivanti da profonde sofferenze in alcuni gruppi della popolazione. In una società dominata sempre più dai principi tecnocratici – secondo i quali al fine di curare la società, la mera politica risulta inadeguata e le problematiche sociali devono essere affrontate con tecniche mediche – Soldani parla di un vero e proprio dilagare di una ‘psicolingua’ (Soldani 2021). Mentre in passato era diffuso l’uso di una terminologia ‘anti-’, negli ultimi dieci-quindici anni si è osservato l’esplodere di una terminologia fobica ‘-fobo’ (Pinker 2020), che promuove distanze, sfocianti talvolta in ostilità. Questi sottili e graduali cambiamenti linguistici sembrano essere stati preludio per i successivi e attuali cambiamenti e assestamenti che si stanno verificando nelle nostre realtà, quasi a conferma che il linguaggio forgia il pensiero e di conseguenza anche le azioni, giustificando cambiamenti sociali sulla base di cambiamenti di linguaggio. Nel sintetizzare il complesso intreccio tra il piano del linguaggio e l’attuale contesto socioeconomico, si rende sempre più evidente un’alternanza di fenomeni di distanziamento e di invasione dell’altro. Focalizzandoci sul linguaggio come strumento attraverso cui l’esperienza conscia e inconscia prende vita (Ogden 1997, p. 108), si desidera qui soffermarci su un particolare aspetto dell’uso del linguaggio, ossia il processo di traduzione nella pratica clinica. Questo ci consentirà non solo di cogliere le innumerevoli sfumature tra ciò che viene detto e ciò di cui si dice, fortificando le nostre capacità di resistere all’interpretazione, ma anche di contrastare tendenze collettive permeate da un desimbolizzato concretismo, rimanendo invece saldi all’interno di un dialogo tra il sé e un altro da sé. Addentrandoci quindi nell’andamento della traduzione come ‘movimento verso…’, si può esperire come ben pochi altri processi implichino i livelli di umiltà e apertura a cui la traduzione sottopone.

Per scelta stilistica, si è voluto introdurre il tema della traduzione con una digressione inerente al collettivo, al fine di sollecitare un maggiore movimento di senso tra un macrocosmo che, in un momento di crisi epocale, tende sempre più a scardinare il delicato rapporto tra identità e alterità ed un processo individuale che il terapeuta è chiamato a seguire, nel particolare aspetto ricoeuriano di traduzione, come implicante un’unione tra identità e alterità. Risulterà pertanto inevitabile interrogarsi sugli effetti che i cambiamenti di linguaggio a livello sociale, con una crescente diffusione di termini tecnici nella vita quotidiana, possano avere sulla comunicazione verbale all’interno della stanza di analisi. In entrambi i casi, siamo esposti ad aree di traducibilità e intraducibilità che ci consentono di aprire ulteriormente la discussione con un’integrazione del processo di traduzione delineato da Paul Ricoeur e che affronteremo in seguito.

La funzione del linguaggio

Da lungo tempo, nell’ambito dell’antropologia linguistica, vige il dilemma tra due approcci che tentano di comprendere come linguaggio e pensiero siano collegati: determinismo versus riflessismo. Nel primo caso, secondo la teoria di Sapir-Whorf, la lingua che impariamo a parlare e ad ascoltare determina il nostro modo di pensare. Quindi le parole che fin dall’infanzia ci circondano creano i nostri pensieri, partendo dal presupposto che lo sviluppo cognitivo di ciascun essere umano è influenzato dalla lingua che parla. Nel caso invece del riflessismo linguistico, il linguaggio assume la funzione di ‘abito’ del pensiero, ossia si limita a riflettere i pensieri dei propri utenti, tanto che i pensieri di una società ne modelleranno il linguaggio. Si tratta di un dilemma che potrebbe essere risolto, almeno dal punto di vista intrapsichico, nel momento in cui si valorizza una certa parentela tra tono affettivo e linguaggio, come sottolinea Paul Ricoeur in una conferenza tenutasi a Roma presso il Centro Montale nel 1987 (Jervolino, Martini 2007, p. 145). Il filosofo francese, con il suo profondo interesse per l’esperienza analitica, sottolinea quanto il linguaggio sia connesso al fondo affettivo, emozionale dell’uomo. La premessa riguarda il valutare la psicoanalisi dal punto di vista di una pratica di linguaggio, nella misura in cui la componente narrativa, nel suo duplice aspetto storico e di finzione, rappresenta un elemento costitutivo della comprensione di sé (ivi, pp. 143-145). Quindi nell’ottica ricoeuriana di una comprensione narrativa del sé, la cura diventa un riportare il paziente alla comunità linguistica, consentendogli di resimbolizzare ciò che lo stato patologico desimbolizza (ivi, p. 145). Al medesimo processo di desimbolizzazione può contribuire talvolta il collettivo, in momenti di crisi politico-economica come quella che stiamo vivendo, facendoci giungere un uso sferzante di termini tecnocratici difficilmente rimandabili ad un piano simbolico, almeno ad un primo impatto. Nel momento in cui una dimensione umana viene decomposta nella sua funzione simbolica, ci interfacciamo con aree di intraducibilità alle quali siamo forse maggiormente avvezzi a trattare nella stanza di analisi: il linguaggio narrativo, visto come strumento per resimbolizzare, può talvolta includere una domanda che il paziente ci pone, ossia ‘cosa significa…?’; altre volte siamo noi a chiederci silenziosamente cosa il paziente ci stia trasmettendo, nel tentativo di creare una comunicazione sintonica. Come osservato acutamente da T.H. Ogden, il «‘che cosa intende dire?’ che il paziente rivolge può, in alcuni casi, riflettere la sofferenza di non essere presenti a sé stessi» (Ogden 1997, p. 113). Avremo poi modo di approfondire questo aspetto nel caso di Alessandro. Numerosi sono i contributi di Ogden in merito all’uso del linguaggio in psicoanalisi, dando così voce ad un’importante linea di sviluppo che è stata presa dalla teoria della tecnica analitica: attualmente il cercare di guardare dietro a ciò che il paziente dice, nel tentativo di cogliere la storia profonda celata dal racconto, trova sempre meno spazio a favore invece di una posizione analitica che coglie il significato, compreso quello inconscio, nel linguaggio usato (ivi, p. 115). Un passaggio questo fondamentale per arginare l’interpretazione, al fine di muoversi con i ritmi dettati dall’esperienza condivisa attraverso il linguaggio. Casi come quello di Fabio, che andremo ad esaminare nel paragrafo successivo, sembrano non lasciare altra scelta.

Spostare l’attenzione sul linguaggio potrebbe risultare di primo acchito superficiale: la lettura che Marshall Edelson fornisce riguardo la natura del lavoro clinico dello psicoanalista appare critica sul fatto che essa possa apparire prevalentemente volta ad un’attività di ascolto di tematiche ampie, quali elementi di impulso, meccanismi di difesa ed eventi rappresentativi critici solo per citarne alcuni (Edelson 1975, p. 69). L’autore prosegue ponendo dubbi sulla possibilità che la psicoanalisi, come scienza, soffra di una certa carenza di specificità per i dettagli quando invece l’analista è immerso da una cospicua massa di dati e dettagli linguistici, dai quali forse tenta di prenderne le distanze attraverso atti interpretativi (ivi, pp. 70-72). Mediante l’attenzione data al linguaggio, sia nell’uso che se ne fa a livello gruppale e individuale, si intende pertanto riscattare la competenza linguistica del terapeuta elevandola ad un’abilità clinica fondamentale. I dati primari forniti dai pazienti nei contesti clinici sono atti di linguaggio, anche se non gli unici, e la comprensione che raggiungiamo attraverso la comunicazione non verbale, l’empatia e l’intuito derivano in parte anche da una nostra competenza linguistica e semiologica internalizzata (ivi, p. 63). Stimolati dall’estesa discussione operata da Paul Ricoeur in merito al traducibile e l’intraducibile, accostare la figura del terapeuta a quella del traduttore ci consente di dare maggiore peso al ruolo della competenza linguistica come mezzo per accedere ad un movimento di senso, generato dall’incontro tra terapeuta e paziente. Tracciare equivalenze tra queste due realtà professionali potrebbe farci cadere nel riduttivismo, pertanto il metro di paragone verrà ristretto a due fattori che ho trovato particolarmente significativi: il primo riguarda l’uso del linguaggio come mezzo di trasmissione di un’esperienza umana; mentre il secondo verte sul fatto che tanto il traduttore quanto l’analista si approcciano all’uso del linguaggio al fine di coglierne un movimento di senso e verso il senso, creando una dimensione sospesa che possa condurre, quanto più possibile, ad un qualche significato. La dimensione sospesa a cui si allude richiama il terzo analitico, dove il punto centrale non è tanto un mero passaggio di senso quanto la creazione di un movimento in cui la tendenza del paziente e del terapeuta verso il significato si intrecciano, in una maniera unica quanto è unica l’esperienza di vita individuale. Si potrebbe inoltre aggiungere che a differenza del traduttore che opera tra un testo di partenza e uno di arrivo, il terapeuta è chiamato a tradurre non solo il linguaggio del paziente ma anche parti del proprio, sia nei discorsi privati che in quelli riportati in supervisione. Talvolta al terapeuta viene addirittura a mancare un testo di partenza, dovendo fare affidamento ad una serie di reazioni di controtransfert che possono in un qualche modo tradurre in musica i silenzi del paziente. Come scrive Ogden: «Nel nostro uso del linguaggio […], dobbiamo cercare di comporre musica, più che limitarci ad eseguire note. A questo scopo non abbiamo altra scelta che accettare che una parola o una frase non siano un punto fermo di significato e che un momento dopo non suonino più allo stesso modo o non significhino più la stessa cosa» (Ogden 1997, p. 8). La prima parte della citazione potrebbe essere colta come un invito a non limitarsi ad una traduzione letterale, cogliendo invece il senso che unisce le parole in una frase e le frasi in un testo. Non potendo però essere il senso un criterio assoluto per una buona traduzione (Ricoeur 2008, 19), non ci resta che seguire la musicalità di un movimento. Alcuni casi clinici espongono il terapeuta a un materiale analitico che viene condiviso dal paziente attraverso un linguaggio facilmente giudicabile come ripetitivo, ben lontano da una qualsiasi forma di movimento. In questo caso, lo sforzo di definire con un giudizio, ossia l’attribuzione di ripetitività a certe frasi, crea un effetto soffocante, così che la percezione del terapeuta, insieme a quella del paziente, genera una sorta di immobilità fittizia, come avremo modo di considerare più avanti nel caso di Fabio.

L’intraducibile nello spazio analitico

Paul Ricoeur, nel creare un legame di rilevanza etica tra traduzione e ospitalità, afferma che una buona traduzione potrebbe dirsi tale solo teoricamente in un’equivalenza presunta tra testo di partenza e testo di arrivo, ma un’identità di senso tra i due testi non è dimostrabile (Ricoeur 2008, p. 19). Egli rifiuta pertanto il senso unico (Oliva 2008, p. 144), facilmente trasferibile tra due testi, opponendosi a un determinato pre-concetto di senso, su cui si sarebbero costruiti con facilità gli scambi culturali europei (ibidem). La storia europea, caratterizzata da un’ampia area culturale dominata da scambi frequenti e duraturi, ha contribuito a determinare un effetto ideologico secondo cui il senso verrebbe inteso come un’entità a priori, fissa, che rimane unica e identica nel passaggio di traduzione da una lingua all’altra, da un testo straniero a quello di arrivo. Pertanto il senso stesso non può diventare criterio assoluto nel passaggio comunicativo da un mittente a un destinatario, nel momento in cui la traduzione promuove il confronto con un’area di intraducibilità in cui il senso sembra non circolare. Il rapporto con ciò che è estraneo risulta inquietante, ponendoci di fronte ad un modo di vivere e percepire la realtà che è diverso dal nostro (Ricoeur 2008, p. 18), esponendoci così ad un aspetto inafferrabile. Il lavoro di traduzione può quindi essere equiparabile ad «un’equivalenza senza identità» (ivi, p. 19). Nella pratica clinica, la situazione risulta essere ancora più complessa in quanto a volte ci viene a mancare il cosiddetto testo di partenza, venendo esposti con immediatezza all’intraducibile. Tuttavia è proprio nel fermarsi di fronte a quell’intraducibile che si può cogliere l’essenza del percorso terapeutico: tentativi da parte nostra di tradurre il non tradotto del paziente potrebbero falsificare, nell’interpretazione, quell’altrui realtà dove invece il non tradotto potrebbe condurre ad un qualche significato. I casi di Alessandro e di Fabio mirano a mettere in luce proprio questo particolare aspetto della traduzione, sottendendo una delicata differenza tra senso e significato che Paul Ricoeur opera ispirandosi a Frege. Il senso – Sinn – viene inteso come il contenuto del linguaggio, è ciò che un’espressione linguistica dice ed è insito nel parlare; mentre il significato – Bedeutung – è l’oggetto reale osservato, lo stesso di cui si parla, quindi rimanda ad un qualcosa di esteriore al parlare (Oliva 2008, pp. 129-131). Ricoeur sembra allinearsi a Frege in un’ottica di sottomissione del senso al significato, andando a rafforzare l’oggettività del significato e traducendo Bedeutung con ‘referenza’ (ibidem). Quindi la psyché del discorso altro non è che il movimento vitale che dal senso avanza verso il significato/referenza (ivi, p. 133). L’integrazione di questo concetto alla pratica clinica risulta essenziale per il terapeuta, che attraverso un proprio discorso interiore può facilitare un movimento anche all’interno dell’immobilismo che si può esperire, per esempio, quando il paziente fornisce in modo ripetitivo il medesimo contenuto in sedute successive.

Caso clinico: Alessandro

Nella vita quotidiana, Alessandro si trova esposto ad un costante processo di traduzione tra la propria lingua madre e quella della consorte. A suo dire, questo costituisce una barriera e una fonte di incomprensione nella vita di coppia. Nelle domande esplorative poste in corso di seduta, mi richiedeva spesso di ripetere quanto appena detto. A volte i termini nella propria lingua parlata gli sfuggivano, con l’esplicita aspettativa di ricevere dal terapeuta la traduzione del termine. Mi sono costantemente sottratta al ruolo materiale di traduttrice linguistica, incoraggiandolo ad esprimersi come meglio credeva e a confidare nel fatto che avrei capito ciò che intendeva comunicare. Il tentativo di ricreare una distanza, attraverso il tramite linguistico, veniva pertanto rimesso in atto nella relazione terapeutica. In una sempre più cospicua condivisione di un repertorio linguistico bilingue, ciò che ha poi accompagnato il terapeuta è stato chiedersi cosa il paziente stava tentando di tradurre a livelli più profondi. Il terapeuta percepisce difficoltà che però non rappresentano per Alessandro un problema da risolvere tanto quanto la barriera linguistica. Ed è così che un ostacolo incontrato dal paziente e attribuito ad un’incomprensione linguistica, ha attivato uno stato di incomprensione nel terapeuta: vivevo con turbamento questa mancata coincidenza di senso nella diade analitica, un’inquietudine che derivava dal fatto che mi interfacciavo con una realtà di coppia distante dal mio abituale sentire, influenzato probabilmente da retaggi famigliari e culturali. Mi sentivo infatti in linea con le conclusioni a cui Dicks era giunto con una vasta casistica di matrimoni resi labili quando i compiti biologici primari vengono negati e i ruoli secondari capovolti troppo drasticamente (Dicks 2009, p. 52). Su un piano metaforico, era come se mi trovassi di fronte ad un’altra cultura di cui ignoravo il linguaggio. Il senso da me seguito era diverso da quello del paziente e al contempo la narrazione ascoltata mi rendeva testimone di una realtà che mi era impossibile interpretare. Un vero e proprio stare con le parole. L’applicazione in psicoanalisi del paradigma narrativo è uno di quegli aspetti che ha beneficiato di una sistematica trattazione nell’opera di Ricoeur: il bisogno di raccontare e raccontarsi origina dalla necessità di frapporre uno spazio tra l’irruenza delle emozioni e il sé che le deve pensare e ordinare (Martini 2007, p. 43). La funzione terapeutica della narrazione confluisce in quella del principio organizzatore e costitutivo dell’esistenza stessa (ibidem), implicando la costruzione di una distanza. Nel caso specifico di Alessandro, sembra che si venga esposti a un qualcosa di più attraverso la tematica della lingua, in forma di incomprensioni tra lingue differenti: le delusioni annesse del paziente implicavano la fantasia di fondo di una lingua perfetta in grado di simulare una corrispondenza totale tra il segno e la cosa, tra il linguaggio e il mondo (Ricoeur 2008, p. 70). L’aspirazione ad una forma di perfezione universale del linguaggio porta con sé la ricerca di una identità di appartenenza, come il femminile appare per il paziente, ancor prima di una ricerca di significato. Essendo la ‘separazione’ la categoria di partenza dell’interpretazione ricoeuriana e tenendo presente il doppio taglio dato al concetto di separazione da Ricoeur – da una parte «perdita di prossimità del divino, intesa come separazione della creatura dal creato, e dall’altra l’inizio della responsabilità dell’individuo verso di sé e verso gli altri» (ivi, p. 72) – il legame del paziente con la consorte è diventato sempre più ai miei occhi un tentativo di ricostruire la propria identità. Tale processo è stato colto inizialmente sul piano linguistico sia nella narrazione della vita di coppia che nella relazione terapeutica, come precedentemente accennato. Ulteriori approfondimenti, integrando l’articolo del dott. Caci (2017), hanno reso possibile tradurre parzialmente il testo narrativo del paziente attraverso un attento ascolto del suo linguaggio interiore, mentre una traduzione attraverso il discorso privato del terapeuta sarebbe stata del tutto fuorviante. Il masochismo di Alessandro non era più visto come atto di perversione ma come «processo dinamico in cui il paziente tenta di costruire una propria identità, non a partire da un modello paterno ma da un modello femminile di madre fredda e crudele che umilia il lato paterno fino ad espellerlo» (Caci 2017). L’uso di idiomi appartenenti alla lingua madre della moglie e che arricchivano il materiale analitico condiviso potevano così essere tradotti alla luce di frammenti espulsi del logos paterno. Si denota quanto l’identità con il femminile possa rappresentare una ricerca di chiarezza e quanto Alessandro tenti di ricreare senso attraverso una propria lingua, inclusiva di termini altri dalla lingua madre. La richiesta in seduta di assolvere la funzione concreta di traduttrice richiama l’iniziale frustrazione a cui la traduzione sottopone: esposti ad un linguaggio impersonale, il senso sembra non arrivare nei tempi e nei modi desiderati, ostinandoci ad interpretare ciò che non è interpretabile. Il tentativo di Alessandro poi di trovare la parola giusta con un ‘come si dice questo in italiano?’ sembra racchiudere il tentativo di cercare il giusto sé, inteso in senso identitario secondo la terminologia ricoeuriana.

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Caso clinico: Fabio

Fabio è un paziente affetto da uno stato epilettico, adeguatamente trattato farmacologicamente. Le crisi si verificano sporadicamente, mentre ciò che permane nel quotidiano è uno stato di affettività adesiva (Minkowski 1966, pp. 213-214) che non consente di vivermi nella relazione terapeutica come individuo singolo, forse troppo mobile (ivi, p. 354), ma come forma vivente di una collettività, il ‘gruppo di psicoterapia analitica’. Minkowska si è interessata alla psicopatologia dell’epilessia, mettendone in risalto i disturbi psichici ad essa correlati. Non solo ha delineato la struttura della psicosi epilettica, ma ne ha anche osservato la particolare modalità affettiva, di tipo vischioso e agglutinato (ibidem). In una fase iniziale del rapporto terapeutico, sembra essersi avviato, nel terapeuta, un tentativo di tradurre l’intraducibile: ossia tradurre con i termini affettivi del terapeuta un approccio relazionale tutt’altro che autentico ma alterato da una conflittualità interiore che non vede distensione. In un processo di condensazione attorno al conflitto, la realtà relazionale sembra scomparire. La manifestazione più eclatante di questo fenomeno ha preso forma nella modalità comunicativa verbale di Fabio in seduta: un linguaggio ricco di espressioni idiomatiche indoeuropee, che mi hanno rimandata ad una dimensione impersonale in cui entrambi venivamo esclusi da un sentire comune. Di fronte all’invito a farmi capire meglio cosa intendesse, Fabio rimaneva senza parole, colto da stupore, quasi a confermare una mancata area riflessiva. Nell’ultimo periodo, la presenza di idiomi stranieri è diventata via via meno ingombrante, tuttavia il loro perdurare delinea un linguaggio impersonale in grado di trasmettere la frustrazione di un significato che non arriva. Vengo rimandata ad un significante fisso, tramite cui il paziente forse tenta di allontanarsi dalla realtà circostante, fondendosi in una natura collettiva; così come dotato di fissità risulta il materiale analitico condiviso con frasi ripetitive, che si ripresentano morfologicamente identiche di seduta in seduta, senza un apparente movimento. La carente carica affettiva del linguaggio fa propendere più ad una narrazione fittizia che storica, andando ad alterare il significato/referenza, ossia l’oggetto reale stesso che viene osservato e di cui si parla. Come è possibile rimanere in contatto con la direzione secondo cui l’evento stesso si muove? Se «il senso deve essere orientato verso la realtà, salendo dal piano logico a quello ontologico» (Oliva 2008, p. 132) e se consideriamo la manipolazione del reale operata dalla personalità epilettoide di Fabio, il movimento verso il significato potrebbe essere ricreato nel seguire proprio la narrazione fittizia del paziente e promuovendone l’aspetto immaginativo. Veniamo pertanto condotti ad una realtà esterna al parlare – il significato, in termini ricoeuriani – che potremmo facilmente giudicare come inesistente a livello oggettuale, in quanto prevalentemente creata da Fabio, ma che potrebbe comunque essere per lui l’unica plausibile. Siamo quindi proiettati ora sugli effetti che può avere una traduzione effettuata attraverso la parola interiore, prospettata da Sallis e che consentirebbe di generare quel movimento di senso nel soggetto parlante (ivi, p. 156). Il terapeuta è così chiamato ad essere promotore di quella parola interiore, al fine di sollecitare nell’altro un movimento che passa proprio attraverso la fissità della reiterazione semantica: ciò è stato possibile chiedendo per esempio a Fabio come si sarebbe immaginato diversamente una certa vicenda rispetto ad un’altra, cosa vorrebbe, cosa avrebbe voluto, aprendo così il linguaggio all’attività immaginativa. Ricoeur ci ricorda che «tradurre è già interpretare» (ivi, p. 151). Possiamo aggiungere che talvolta in clinica, l’atto del tradurre diventa invece metafora di un delicato condurre l’altro a proseguire la narrazione del sé nella sfera immaginativa.

Conclusioni

I casi di Alessandro e Fabio stimolano nel terapeuta quel desiderio di tradurre, che Ricoeur chiama anche «pulsione alla traduzione» (Ricoeur 2008, p. 113), animato a sua volta dal desiderio di allargare l’orizzonte del linguaggio affettivo. Le riflessioni sono partite con un’ampia digressione inerente al collettivo, che in un momento di crisi epocale mostra quanto i vari assestamenti/dissestamenti siano stati anticipati da cambiamenti verificatisi in primis sul piano del linguaggio. L’attuale contesto di crisi socio-politico-economica, che sta facendo da sfondo alle sedute terapeutiche, ha meritato di essere incluso nel presente elaborato, perché nel collettivo si è maggiormente esposti ad un uso inconscio del linguaggio, fornendoci ulteriori spunti riflessivi al processo di traduzione. A tal proposito, Steven Pinker (2005), prominente psicologo e linguista, evidenzia quanto l’uso inconscio del linguaggio sembra riflettere una concettualizzazione della realtà basata su categorie. Per esempio, negli ultimi decenni ad ora, il linguaggio politico ha mostrato caratteristiche sempre più tecnocratiche, quasi a riflettere questa tendenza umana di basarsi su categorie. Un uso inconscio del linguaggio si può palesare anche in ambito clinico nella misura in cui si procede con valutazioni categoriali oppure quando considerazioni linguistiche vengono tacciate di superficialità, rispetto a tematiche generalmente considerate più profonde inerenti all’ascolto, l’empatia e il guardare oltre le parole. Si è pertanto voluto valorizzare i dettagli del linguaggio, prendendo spunto da idiomi in lingua straniera quantitativamente cospicui nei due casi clinici esaminati, che hanno delineato particolari strutture psichiche, consentendoci di rimanere nel miglior modo possibile con il paziente; inevitabile è risultato inoltre accostare la figura del terapeuta a quella del traduttore, entrambe promotrici di esperienze umane condivise. Analizzando l’uso di idiomi estranei alla lingua madre nel caso clinico di Alessandro e Fabio, si delinea quanto essi siano presentazioni, piuttosto che rappresentazioni, suscettibili a diversi livelli di analisi che ci introducono ad una dimensione metaforica. Il loro uso può essere riconducibile a presentazioni (Darstellung) senza rappresentazione (Vorstellung), ossia l’esibizione di un qualcosa che non può essere pensato intellettualmente (Borutti 1991, p. 12). Nel caso di Alessandro, la terminologia straniera consente di espellere il paterno tramite il logos, in una ricerca identitaria all’interno di un rapporto masochistico. Nel caso di Fabio, gli idiomi assumono più i tratti di frammenti inconsci espulsi in una struttura permeata da tratti psicotici, più difficilmente riconducibili ad un significato condiviso. La sfida che Fabio pone al terapeuta-traduttore è duplice: cedere a qualsiasi tentativo di traduzione risulta fuorviante, in quanto condurrebbe ad atti interpretativi che risultano facilmente inducibili dal paziente. Non venendo trasmesso un movimento di senso, che rimane invece bloccato all’interno della parola, non ha modo di esistere alcuna traduzione, intesa come mezzo per veicolare il senso. Non resta quindi che interfacciarsi con un’intraducibile che rimanda all’assenza di simbolizzazione del frammento psicotico espulso. Il sapere tradurre ci consente di sapere paradossalmente anche quando non si deve tradurre. Altro elemento saliente con Fabio è il rimanere insieme nelle parole, mantenendo quell’atteggiamento di novità tipico del traduttore che si trova di fronte ad un testo che non conosce, nonostante un materiale analitico estremamente ripetitivo.

Bibliografia

  • Borutti S. 1991, La Filosofia dei Sensi. Estetica del pensiero tra filosofia, arte e letteratura, Raffaello Cortina Editore, Milano.
  • Caci M. 2017, Il concetto di masochismo in Gilles Deleuze e Carl Gustav Jung, in https://sipsarivista. org/2017/12/15/massimo-caci-il-concetto-di-masochismo-in-gilles-deleuze-e-carlgustav-jung/.
  • Dicks H.V. 2009, trad. it. Tensioni coniugali, Borla, Roma.
  • Edelson M. 1975, Language and Interpretation in Psychoanalysis, The University of Chicago Press, Chicago&London 1984.
  • Jervolino D., Martini G. 2007, Paul Ricoeur e la Psicoanalisi, FrancoAngeli, Milano.
  • Martini G. 2007, Ripensando il contenuto di Ricoeur alla psicoanalisi, in Jervolino D., Martini G.,
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  • Minkowska F. 2007, Van Gogh: sa vie, sa maladie et son oeuvre, L’Harmattan, Paris. Minkowski E. 1966, trad. it. Trattato di psicopatologia, Giovanni Fioriti, Roma 2015. Ogden T. 1997, trad. it. Rêverie e interpretazione, Astrolabio, Roma 1999.
  • Oliva M. 2008, La Traduzione e la questione del senso, in Ricoeur P., Tradurre l’intraducibile. Sulla traduzione, Urbaniana University Press, Roma.
  • Pinker S. 2005, https://www.ted.com/talks/steven pinker what our language habits reveal.
  • Accesso 07.06.2022.
  • Pinker S. 2020, trad. it. Illuminismo adesso. In difesa della ragione, della scienza, dell’umanesimo e del progresso, Arnoldo Mondadori, Milano.
  • Ricoeur P. 1987, La componente narrativa della psicoanalisi, in Jervolino D., Martini G., Paul Ricoeur e la psicoanalisi, FrancoAngeli, Milano 2007.
  • Ricoeur P. 2008, Tradurre l’intraducibile. Sulla traduzione, Urbaniana University Press, Roma.
  • Soldani F. 2021, Federico Soldani: intervista TV su politica, linguaggio medico-psicologico e tecnocrazia (2020). Tratto da: psypolitics.org/2021-05-05/federico-soldani-intervista tv su politicalinguaggio medico-psicologico e tecnocrazia-trascrizione-2020/ Accesso: 20.05.2021.
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