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Il Libro Rosso: un confronto pericoloso ma rigoroso con le produzioni dell’inconscio

Rivista annuale a cura del Centro Italiano di Psicologia Analitica Istituto di Roma e dell’Italia centrale

QCJ 2012

2012 Numero 1

Il Libro Rosso: un confronto pericoloso ma rigoroso con le produzioni dell’inconscio

L’aspetto su cui oggi vorrei porre la mia attenzione è il lascito di grande impegno e responsabilità nei confronti della psiche e della sua produzione di immagini che emerge nei dialoghi con l’inconscio narrati da Jung nel Libro Rosso.

“Nel Libro Rosso” dice Jung “ ho tentato un’elaborazione estetica delle mie fantasie ma non l’ho mai portata a termine: mi resi conto di non aver ancora trovato il linguaggio adatto e di dover ancora tradurlo in qualcosa d’altro. Perciò smisi in tempo debito questa tendenza estetizzante per interessarmi piuttosto di una rigorosa comprensione…dovevo trarre conclusioni concrete dalle intuizioni che l’inconscio mi aveva comunicato. L’elaborazione estetica tentata nel Libro Rosso fu comunque un passo necessario, anche se presto non ebbi più la pazienza di proseguire; grazie ad essa giunsi a capire la responsabilità morale che avevo verso le immagini che mi avevano influenzato così decisamente. Mi resi conto che il linguaggio, non importa quanto accurato, non può sostituire la vita. Se cerca di sostituirla non solo la vita perde vigore ma si impoverisce esso stesso”.

Grazie a questa consapevolezza e, per dirlo con le sue parole, alla forza bruta messa in campo per resistere alla tempesta delle potenti e distruttive incursioni dell’inconscio possiamo oggi usufruire di uno straordinario modello di confronto coraggioso con il demoniaco dello spirito delle profondità. Ciò che appare sorprendente, nella lettura dei vari dialoghi è l’equilibrio che emerge proprio nei momenti in cui le varie personificazioni sembrano impossessarsi della coscienza inflazionandone i contenuti. Spesso, infatti, proprio all’apice di una narrazione che sembra farci perdere le coordinate topografiche che localizzano i nostri processi psichici, emerge l’elemento che riequilibria la situazione portando una nota di leggerezza che consente alla coscienza la distanza necessaria per visualizzare la personificazione e ridimensionarla. Il dialogo, allora, fluisce in un modo nuovo, colorito di una giocosità che, come egli stesso afferma, appartiene al bambino delle profondità e rinvigorito da conoscenze che arrivano per mediare le due culture e non per contrapporle.

Una dimensione trickster proveniente dall’inconscio che ridicolizza la via ufficiale dimostrando però di conoscerla ma non solo per amore di scherno bensì per aprire nuovi spiragli al mondo accademico che rischia di impoverirsi nell’unilateralità. Così assistiamo al brioso dialogo tra paziente e psichiatra:

Siamo arrivati.. un portone, l’atrio..un capo infermiere cortese e zelante…e ora anche due dottori, uno di loro è un professore basso e grassoccio.

-Che libro ha qui?

-E’ Tommaso da Kempis, l’imitazione di Cristo

-Dunque una chiarissima forma di paranoia religiosa, Lei vede mio caro l’Imitazione di Cristo porta dritto in manicomio

-Su questo non c’è dubbio professore

-Quest’uomo è spiritoso..evidentemente con un pizzico di eccitazione maniacale. Sente delle voci?

-Altrochè! Oggi c’era tutta una schiera di anabattisti che facevano sarabanda per la cucina

-Bene eccoci. E’ perseguitato dalle voci

-Oh no, per carità! Sono io che me le vado a cercare

-Ah, e così! Ecco un altro caso che dimostra chiaramente che gli allucinati vanno a cercarsi loro stessi le voci. Questo è da ricordare nell’anamnesi. Vuole annotarselo subito dottore?

-Mi consenta un’osservazione, professore: la cosa non è assolutamente patologica, è piuttosto metodo intuitivo

-Eccellente! Quest’uomo presenta anche neoformazioni linguistiche. Bene… La diagnosi dovrebbe essere chiara quanto basta. Dunque le auguro di ristabilirsi presto e faccia in modo di stare molto calmo

-Ma professore io non sono affatto malato. Mi sento benissimo

-Vede mio caro: le manca ancora la visione della sua malattia. Naturalmente la prognosi è pessima, nel migliore dei casi si può arrivare a una guarigione parziale

Lo spirito dello psichiatra, uomo di scienza, è, d’altra parte, sempre presente e fin dalle prime pagine Jung esprime la sua consapevolezza del rischio di follia cui va incontro. “So troppe cose per non vedere che sto percorrendo ponti pericolanti” dice e ancora “Non  v’è dubbio che, se entri nel mondo dell’anima, sei simile a un folle e che un medico ti riterrebbe malato. Quello che sto dicendo può sembrare patologico. E nessuno più di me può ritenerlo insano”.

Ma non si ferma perché ormai le personificazioni lo agganciano, a volte in modo quasi incontenibile, e producono nuove conoscenze non più disattendibili dalla coscienza.  Notti passate a farsi sedurre dalla potenza delle immagini dell’anima che attraggono in profondità abissali e giorni vissuti per non perdere il rapporto con lo spirito del tempo. E’ questo l’equilibrio che emerge dalle narrazioni, quel senso di essere dentro un’impresa non eroica ma sicuramente difficile, quella consapevolezza di dover lavorare in segreto fin quando non avesse trovato una nuova via da indicare anche ad altri. “Non gridare per ottenere aiuto quando i morti ti attorniano”, dice “ altrimenti i vivi ti fuggiranno, loro che sono il tuo unico ponte per il giorno. Vivi la vita del giorno e non parlare dei segreti, ma consacra la notte ai morti per amor di redenzione.”

Il segreto come dimensione che fonda l’individualità e non come atto profetico che induce all’imitazione. Si comprende meglio, in questa ottica, il valore di quelle parole che la coscienza fa dire al paziente a proposito del libro sull’Imitazione di Cristo di Tommaso da Kempis che porta dritto al manicomio. Iniziazione e non imitazione. E’ proprio quando intravede la strada che, infatti,  ammonisce  l’altro a non farsi prendere dalla dimensione profetica che sa essere oltremodo pericolosa. “La scena che ho visto è la mia, non la vostra.” afferma con decisione “E’ il mio segreto, non il vostro. Voi non potete imitarmi. Il mio segreto rimane vergine e i miei misteri restano inviolati, appartengono a me e non potranno mai essere vostri. Voi avete ciò che è vostro.” Vivere sé stessi, infatti, significa, per Jung, essere un compito per sé stessi.

Probabilmente ciò che lo aiutò a non sprofondare nella follia è il fatto che attribuì alle proprie esperienze, forse già nell’atto di viverle, un valore paradigmatico.

“Il mio esperimento mi insegnò quanto possa essere di aiuto- da un punto di vista terapeutico- scoprire le particolari immagini che si nascondono dietro le emozioni.”

In una lettera a Lang nel 1917 dirà :

“Il lavoro dell’inconscio va fatto in primo luogo per noi stessi, anche se indirettamente andrà a beneficio dei nostri pazienti. Il pericolo è quello della follia profetica, spesso in agguato quando si ha a che fare con l’inconscio. E’ il Diavolo che dice: disprezza la ragione e la scienza, eccelsi poteri dell’uomo. Questo fatto non va mai dimenticato, anche se siamo costretti a riconoscere l’esistenza dell’irrazionale.”

“Ho tratto il materiale empirico dai miei pazienti”, afferma nel 1925 “ma la soluzione del problema l’ho ricavata dall’interno, dalle mie osservazioni dei processi inconsci”.

Qui accanto alla dimensione dello psichiatra si fa sempre più strada quella del terapeuta che può proporre all’altro solo ciò che ha sperimentato creando, come più tardi chiarirà attraverso le metafore tratte dall’alchimia, un contenitore dove rimestare la materia per psichicizzarla in base ai suoi elementi costitutivi.

“Io penso che la cosa più giusta e decente sia affermare che si finisce nell’opera di redenzione per così dire involontariamente, se si vuole sfuggire all’inevitabile sentimento del bisogno di redenzione, un male apparentemente insopportabile. Questo passo verso l’opera di redenzione non è né bello né piacevole e neppure diffonde un invitante alone luminoso. E la cosa stessa è così complicata e tormentosa che ci si dovrebbe annoverare tra i malati e non tra quelli che scoppiano di salute e che vogliono impartire agli altri il proprio eccesso di salute.  Perciò per la nostra sedicente redenzione non dobbiamo usare l’Altro. L’Altro non è una scala per i nostri piedi. Dobbiamo piuttosto restare con noi stessi.”

Il soli con noi stessi vale per noi come terapeuti che dobbiamo lavorare per non proiettare i nostri contenuti sul paziente (l’altro non è una scala per i nostri piedi) e per noi come pazienti che dobbiamo lavorare ricercando il nostro modello e non rincorrendo quello del terapeuta. Soli con noi stessi per poter diventare, terapeuti o pazienti che siamo,  il compito che siamo per noi stessi.

Incontrando l’Anacoreta come rappresentante della cultura dell’anima, Jung contrappone alla dimensione conoscitiva delle parole, che impone vincoli e delimitazioni,  quella delle cose che è indefinita e apre all’ignoto promuovendo la ricerca di nuove parole che non siano necessariamente agganciate a significati univoci, senz’altro tranquillizanti sul piano epistemologico ma inadeguati  ad esprimere la complessità e l’infinitezza della vita. Dice Jung : “Se credi nelle cose, cioè nel posto dove le parole risiedono, non arrivi mai alla fine…ma la mancanza di confini ti rende ansioso perché ti fa paura e la tua umanità si ribella….chiedi a gran voce parole che abbiano un solo significato in modo da evitare l’ambiguità.”

Ma il monito è poi quello di non abbandonare le vecchie parole fino a quando non se ne siano trovate delle nuove che consentano di costruire una solida difesa contro la mancanza di limiti e fino a quando non si riesca a trovare nelle nuove parole una nuova sorgente di vita. Emerge, a mio avviso, in questa prospettiva, la ricerca di un possibile equilibrio tra le due culture che dovrebbero rispettarsi per produrre una visione più completa dell’uomo e della vita in generale. Emerge il valore dell’uomo di cultura che comprende che non ha senso distruggere una modalità conoscitiva fino a quando non si è in grado di proporre una possibile alternativa ma emerge anche lo spessore del clinico che sa che non ha senso neanche continuare ad escludere l’ambiguità che fa parte della vita,  per il bisogno di rimanere ancorati alla certezza.

Nessuna cultura della mente può trasformare il deserto dell’anima in un giardino ed è necessario accettare che il significato è solo un momento di transizione da un’assurdità all’altra, così come l’assurdità è un momento di transizione da un significato all’altro,  per arrivare a comprendere che  il non-senso è il fratello inseparabile del significato supremo. Non si tratta, dunque, di contrapporre i due tipi di cultura ma di comprendere che si rivolgono a dimensioni differenti, tra loro irriducibili e  imprescindibili, che rimandano al rapporto con la vita e con le sue trasformazioni. La vita, infatti, sottolinea Jung, è trasformazione e non esclusione ed è quindi necessario avventurarsi nello spirito delle profondità accettando che la saggezza contempla anche l’ignoto e  la paura di sé stessi.

Certamente l’anacoreta e tutte le figure che appaiono dall’inconscio sono contenute dalla dimensione conoscitiva in cui Jung poteva già spaziare all’epoca pur non avendo ancora incontrato l’alchimia che costituirà il punto di svolta e che gli consentirà di abbandonare il Libro rosso per tentare un nuovo cammino della coscienza.

Lo Jung gnostico sa, comunque, che la gnosi non è pura conoscenza ma rivelazione efficace che porta con sé la risposta agli interrogativi dell’inquietudine umana e che conduce alla salvezza. La chiave di salvezza per gli gnostici è “conoscere chi siamo al fine di ridiventare ciò che eravamo” e tra le attitudini fondamentali c’è la certezza che un miglioramento è possibile e la convinzione che la conoscenza è la chiave del cambiamento.

Sebbene Jung considerasse  lo gnosticismo come un fenomeno troppo distante per essere affrontato direttamente dalla psicologia moderna le sue riflessioni ne furono intrise, almeno fino a quando non fece il salto verso l’alchimia che combinava l’antico interesse gnostico per l’anima immateriale con la moderna attenzione scientifica alla trasformazione della materia.

Come sottolinea Segal, Jung collocò la sua psicologia come una controparte contemporanea dello gnosticismo.  Come gli gnostici, infatti, si sentivano tagliati fuori dal mondo esterno così i contemporanei si sentono tagliati fuori da quello interno. Nei miti gnostici la divinità emanava parti di sé e poi reclamava quelle parti. Questa relazione ambivalente tra la divinità e le sue emanazioni esprime la relazione tra inconscio e io. Gli gnostici, siano o no contemporanei, soffrono di un io esagerato che si identifica completamente con l’inconscio riscoperto. La conseguenza minima della inflazione è l’eccessivo orgoglio nella presunta unicità del proprio inconscio; quella massima è la psicosi o la dissoluzione di qualsiasi consapevolezza del mondo esterno. La differenza con lo gnosticismo è che per Jung il ritorno all’inconscio è solo un atto temporaneo, è un mezzo per il fine che è rappresentato dalla trasformazione ed è in collegamento con la coscienza mentre per lo gnosticismo il ritorno all’inconscio era un fine in sé.

E’ sempre lo spirito dello psichiatra terapeuta interessato alla comprensione della psiche che consente il ridimensionamento dei vari paradigmi ed è l’uomo consapevole del proprio compito che non si lascia irretire da paure e illusioni.

Ci è stato chiesto di portare una nostra riflessione sul senso che può avere oggi per noi, eredi della cultura junghiana, la lettura del Libro Rosso.

Io penso che la lettura di questo testo costituisca un compito importante per noi eredi e che rappresenti un modello rigoroso per avere accesso al mondo delle immagini che Jung ha aperto con una modernità che, a mio avviso, non ha ancora trovato lo scenario adeguato per dispiegarsi.

Leggendo le varie narrazioni mi è sembrato di poter meglio cogliere il valore delle tante metafore alchemiche che costituiscono vere pietre miliari per chi si avventura nelle aree arcaiche della psiche, là dove le parole non arrivano e ci sono solo manifestazioni materiche a parlarci dell’altro o personificazioni terrorizzanti.

Allora nel dramma di Hogelande, l’alchimista, che va incontro al fallimento dell’opera per essersi illuso di vedere i colori quando in realtà non c’erano, possiamo meglio comprendere il monito a non lasciarsi trascinare dalla tendenza estetizzante e ad assumere, invece, piena responsabilità della delicatezza dell’opus che richiede molte conoscenze oltre che esperienza diretta dell’avventura che si intraprende. Non basta conoscere nominalmente i colori per riconoscerli nella trasformazione dell’opera ma è necessaria la conoscenza della consistenza materica che passa solo attraverso l’esperienza che ci permette di avvertire anche il calore di ogni diversa sfumatura permettendoci la costruzione di un’immagine che possa esprimere l’emozione corrispondente. Perché, come Jung fa dire ad Anassagora, non possono essere mischiate materie che non abbiano la stessa consistenza e lo stesso peso e l’incontro con l’altro non può fondarsi su un’illusione.

Nel mio lavoro con bambini che non hanno accesso al mondo delle emozioni né tanto meno a quello del pensiero mi sono confrontata tante volte con personificazioni tremende che hanno messo a dura prova la mia capacità di resistere. Il confronto con le forze demoniache ha impegnato per tanti anni le mie riflessioni per il timore di confondere personificazioni e proiezioni e per la paura di attribuire colori che fossero invece solo il frutto di mie fantasie salvifiche, compensatorie a tanta impotenza che si è costretti a provare quando gli strumenti della ragione non ci vengono in soccorso. La preoccupazione di sentire lecito il mio lavoro analitico, riconoscibile in un setting adeguato e di avvertire il timore di una trasgressione pericolosa mi ha costretto a confronti con i limiti personali oltre che professionali. La potenza delle narrazioni di Jung e il rigore del confronto con le personificazioni e le immagini dell’inconscio rappresentano oggi per me un contenimento molto significativo.

Voglio quindi condividere con voi una riflessione che Jung fa dopo l’incontro con il Rosso perché sintetizza, a mio avviso, l’atteggiamento su cui ancora oggi noi abbiamo il compito di lavorare.

Dice Jung: “Sicuramente era il diavolo, ma il mio diavolo, che è come dire la mia gioia, la gioia di una persona seria che  rimane a guardare solo da un’alta torre la sua gioia di colore rosso, profumata di rosso e dal calore rosso. Non la segreta gioia dei suoi pensieri e delle sue ricerche ma la strana gioia del mondo che arriva inaspettata come un vento caldo con la fragranza dei boccioli e la semplicità della vita. Sai questo dai poeti, questa serietà quando guardano pieni di aspettative alle profondità, attratti in primis dal diavolo proprio per la sua giocosità. Cattura l’uomo come un’onda e lo conduce con forza. Chiunque assaggi questa gioia dimentica sé stesso. E non c’è niente di più dolce che dimenticare sé stessi. E molti hanno dimenticato chi erano. Ma tanti hanno posto radici così forti che neanche l’onda è stata capace di sradicarli. Sono pietrificati e troppo pesanti mentre gli altri sono troppo leggeri. Mi sono confrontato con il mio diavolo e l’ho affrontato come una persona reale. Ho imparato questo dal Mistero: prendere seriamente qualunque personaggio che abita il mondo interno perché è reale in quanto effettivo. Non ci aiuta dire, secondo lo spirito del nostro tempo, che il diavolo non esiste.

Ce n’era uno con me. Ha preso posto dentro di me. Ho fatto quel che ho potuto”.

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