
2012 Numero 1
Il concetto di simbolo in Jung. Variazioni di significato
In ricordo di Mario Trevi
e della sua incessante ricerca sul pensiero simbolico.
Il termine “simbolo” deriva dal latino symbŏlus (o symbŏlum), che a sua volta rimanda al greco σύμβολον (da συμβάλλω: mettere insieme, far coincidere), il cui significato originario può forse essere indicato con contromarca, essendo legato ad un espediente per ottenere con facilità l’immediato riconoscimento dell’identità di un individuo. La ricerca etimologica mette, tuttavia, in luce altre metafore ed altri possibili significati.2
Simbolo è infatti termine polisemico. Nel linguaggio ordinario è spesso solo mero sinonimo di segno, oppure è inteso come un significante che rimanda ad un significato noto o, in ogni caso, esplicitabile. Inoltre, non solo è (ed è stato) usato come espressione generale (o generica) di diverse figure retoriche, ma ha anche assunto significati diversi nelle speculazioni filosofiche e nelle discipline umane. Infine, l’italiano contempla, come quasi tutte le lingue del mondo occidentale, «circa quindici derivati di “simbolo”. Molti di essi sono soggetti alle stesse oscillazioni semantiche del vocabolo generatore».3
Nelle cosiddette “psicologie del profondo”, l’uso della parola “simbolo” e dei suoi derivati è stato costante. Sussistono però molte variazioni di significato in questo uso, variazioni legate ovviamente al quadro teorico, alla problematica fondamentale ed ai presupposti meta-psicologici di ciascun indirizzo. In questa occasione, mi occuperò solo di alcuni di questi indirizzi e tralascerò di parlare di altri che meriterebbero di non essere trascurati, quali – per esempio – quelli rappresentati da Bion, da Lacan o da Matte Blanco. Peraltro, la specificità dell’impostazione junghiana (che pure non è certo univoca) si differenzia in modo sostanziale da tutti questi usi.
Simbolo e Simbolico
Premessa.
Ai nostri giorni, le accezioni di simbolo oscillano «rispetto ad un asse mediano» che pone il simbolo come espressione della norma culturale e come strumento fondamentale del codice che regge e vincola segretamente o esplicitamente una cultura. Oscillando rispetto a questo asse, il “simbolo” può assumere di volta in volta il significato di ciò “che viene prima” del costituirsi del codice culturale e di ciò “che viene dopo” (e pertanto necessariamente trascende) il codice culturale stesso. Nel primo caso il simbolo è espressione di quella nube ambigua e diffusiva di significati cui qualsiasi significante rimanda prima che il codice di significazione fissi – sia pure per tempi discreti – il significato al significante nella maglia multipla della struttura linguistica. Nel secondo caso il simbolo è espressione della rottura violenta di quella maglia e della affermazione – sia pure nella solitudine del singolo – di un altro ordine di significati attorno ad un significante qualsiasi, nulla togliendo alla possibilità che questa trasgressione passi dall’individuo alla comunità che lo ospita.4
Se concepito come “espressione della norma culturale”, il simbolo rinvia ad un significato oppure a diversi significati che possono essere indicati all’interno di una determinata cultura.5 Molte figure linguistiche e visive connotate dalla significazione indiretta derivano dalle “cassireriane” forme simboliche della cultura,6 ossia dall’inevitabile stratificazione di interpretazioni dalle quali emerge il senso comune di un gruppo umano, di una determinata società o di un’epoca. È appunto il senso comune (o condiviso) che esprime il fatto, spesso dimenticato, che viviamo in un mondo “già interpretato” da altri e che tutte queste interpretazioni non riguardano solo il cognitivo, ma anche l’esistenziale. Esempi del riferimento alle forme simboliche della cultura ed alle loro quasi inevitabili re-interpretazioni in base alle esperienze individuali di “vita vissuta” ed alla capacità umana di trascenderle almeno in parte, sono alcuni indirizzi di pensiero del XX secolo, che hanno visto nelle forme codificate della cultura non solo un perimetro di senso determinante e indispensabile, ma anche il fondamento, vuoi propositivo oppure oppositivo, all’agire degli esseri umani. In tutti questi indirizzi, il simbolo e i cosiddetti “universi simbolici” rimandano appunto alle forme simboliche della cultura.
Se intesa come “rottura” soggettiva della preesistente trama delle significazioni delle forme simboliche, la formazione di nuovi significanti è (pur non coincidendovi) abbastanza vicina alle problematiche poste da alcune considerazioni di Jung e può essere concepita in modi molto differenti.
La psicoanalisi.
In Freud, il simbolo esprime in maniera indiretta, ossia mediante un travestimento fondato soprattutto (ma non solo) sull’analogia,7 «ciò che non può essere, come tale, accolto dalla coscienza, per limpide e inequivocabili ragioni di difesa».8 Laddove sia stato esplicitato il codice del travestimento, il simbolo non ha più alcun “segreto” per l’interprete e rimanda ad un numero limitato di significati.9 Il possesso del “segreto” interpretativo non è, quindi, legato alla “cultura diffusa”, ma alla stessa teoria psicoanalitica ed alla sua capacità di “svelare” il significato del simbolo. Il fatto che tale “svelamento” sia diventato, nel secolo scorso, quasi un luogo comune delle interpretazioni di diversi “saperi” (per esempio, della critica letteraria) e che ad esso rinviino (in modo spesso distorto) anche diverse espressioni del linguaggio ordinario della tarda modernità, non toglie nulla al carattere innovativo del codice proposto da Freud.10
Nella sua accezione freudiana, il “simbolo” è legato alla prospettiva della generalità e, dunque, alla naturalità, a tutto ciò che filogeneticamente attiene al patrimonio innato dell’umanità, anche se con l’introduzione della categoria dell’interpersonalità, proposta dal modello strutturale delle relazioni, i vissuti soggettivi sono almeno in parte sganciati da questa prospettiva.11
Il simbolo in Freud è dunque perfettamente – anche se non sempre – decodificabile […]. Resta il mistero di come si sia formato questo linguaggio cifrato parzialmente universale, in cui molti significanti rimandano a pochi significati senza la mediazione della cultura; e il mistero – ancora più impenetrabile – del perché il desiderio nascosto possa essere raggiunto dalla coscienza attraverso due vie così gnoseologicamente e ontologicamente diverse: l’associazione libera da una parte, il simbolismo (o la “simbolica”) dall’altra.12
Le “esitazioni” di Jung.
Tralasciando di considerare tutte le variazioni semantiche desumibili dai suoi scritti, Jung sembra aver concepito il simbolo non solo per esprimere «l’attività sintetica esercitata dalla psiche ed esplicantesi solo all’interno della vita psichica», ma anche nella tradizionale accezione di sostituto di qualcos’altro.13 Due linee di ricerca sembrano, dunque, caratterizzare la sua opera.
Per la prima, (a) non esistono simboli «se non per una coscienza che li istaura»;14 (b) i simboli sono storici, nel senso che cessano di essere tali non appena sia stato esplicitato compiutamente il loro significato; (c) il simbolo è «un’azione che mantiene in tensione gli opposti, dalla cui composizione nascono i processi trasformativi».15 In questa prospettiva, «non si danno, a una corretta indagine, simboli né come immagini né come cose»,16 bensì solo eventi psichici particolari, i quali, pur potendosi avvalere di «infiniti oggetti occasionali (cose, testi, immagini, sogni, ecc.)»,17 non possono essere ridotti a questi. L’efficacia liberatrice del simbolo (così inteso) deriva, per Jung, dal fatto di essere sempre «un prodotto di natura assai complessa»,18 sorto dalla collaborazione di tutte le funzioni psichiche. Di conseguenza, il simbolo è, in questa prima accezione, composto non solo di dati di carattere razionale (proprio delle “funzioni razionali” del pensiero e del sentimento), bensì anche «dei dati irrazionali della pura percezione interna ed esterna»,19 essendo coesistenza di tesi ed antitesi, «cooperazione di stati opposti tra loro»,20 che, pur provocando un conflitto intra-psichico, costringe l’Io (o, per meglio dire, il cosciente esser-Io) ad ammettere la «sua incondizionata adesione tanto all’una quanto all’altra» di queste istanze antitetiche.21
Per la seconda linea di ricerca, il simbolo non costituisce affatto il portato di un “mascheramento” dettato, come in Freud, da esigenze di difesa, ma è la formulazione di una “realtà” individuale (o collettiva) che, per così dire, “aspira” a diventare cosciente. È appunto in questa prospettiva, ancorata all’ipotesi che nelle “espressioni simboliche” (ossia nei presunti “simboli veri”) prenda forma il complesso insieme delle componenti strutturali, delle finalità e dei valori meta-storici della vita psichica dell’uomo, che Jung e gran parte della letteratura di psicologia analitica hanno proposto l’idea di un’interpretazione oggettiva di una vasta congerie di “materiali” individuali e culturali, quali sogni, miti, riti, fiabe, testi religiosi, alchemici e mistici, opere letterarie, prodotti artistici e via dicendo. Ciò che cambia in questo caso non è lo statuto del simbolo, ma il campo del simboleggiato e il codice che permetterebbe di decodificare, più o meno esaustivamente, ogni significante assunto come simbolo. In altre parole, non muta in questa prospettiva interpretativa la possibilità di adoperare un “codice” non solo diverso da quello freudiano, ma anche più capace di condurre ad una piena decodificazione di ciò che emerge dalla vita psichica inconscia.
Il punto di vista sociologico.
Nell’uomo, la coscienza di sé può essere definita come quel fenomeno che, al «regime di immediatezza […] che caratterizza l’animale, sostituisce un regime di riflessività mediata, in cui non si dà più» la «piena coincidenza con le proprie oggettivazioni».22 In altre parole, l’uomo «reagisce agli stimoli interni al suo organismo e a quelli esterni dell’ambiente che lo circonda» non solo in modo automatico, ma anche indirettamente, «nel senso che quegli stessi stimoli» sono «elaborati in base alle esperienze precedenti ed alla riflessione, così che l’individuo ha, quasi sempre, la possibilità di decidere, in modo relativamente autonomo e tramite la scelta tra più possibilità, quale risposta dare ad essi. Il mezzo attraverso cui tale elaborazione diventa agibile è il simbolico, [vale a dire l’insieme delle] «forme espressive attraverso cui l’uomo attua […] la sua apprensione della realtà e contribuisce in modo attivo alla costituzione di essa: linguaggio, mito, religione, filosofia, arte, scienza, tecnica», e così via.23
Il simbolico include le forme già oggettivate dell’attività espressiva degli uomini e si configura, al contempo, come il processo di costituzione di tale attività mediante «le continue elaborazioni che essa sviluppa nel suo rapporto con la cultura».24 È appunto il simbolico a rendere possibile ogni relazione interpersonale, offrendo ad esso le forme espressive codificate della cultura e le basi necessarie all’attività individuale capace di determinare innovazioni, o rotture, nella trama della cultura.
Il differenziarsi della coscienza rispetto alle mediazioni simboliche non può, tuttavia, essere rappresentato nell’ordine simbolico, giacché «il movimento più proprio della coscienza resta in sé rigorosamente indicibile, in quanto non solo è irriducibile ad ogni contenuto di senso della coscienza, ma ne è anzi piuttosto la negazione».25 Ciò che, però, più conta è che la coscienza di sé costituisce una “frattura” rispetto a qualsiasi regime precedente: infatti, con la sua comparsa tutto è cambiato, avendo sancito il «passaggio da una situazione di immediatezza», nella quale l’individuo coincideva «totalmente con la sua realtà psico-fisica, con il suo corpo, con le sue sensazioni e le sue immagini, a una situazione riflessa […], nella quale l’individuo si trova a porre una distanza tra sé e il suo corpo, le sue sensazioni e le sue immagini».26 In altre parole, in questa nuova situazione che, più di qualsiasi tratto biologico e neuro-fisiologico, lo differenzia dagli animali, l’individuo non solo «sa di avere un corpo, […] sa di avere sensazioni o immagini, […] sa di agire», ma può giungere a «considerare il proprio corpo e la propria psiche come strumenti di cui servirsi, fino al punto di sentirli talvolta come qualcosa di estraneo».27
Il problema posto dalla coscienza di sé può essere individuato nel fatto che il senso dell’identità individuale non coincide con le oggettivazioni mediate dal simbolico, essendo la coscienza capace di negazione, ossia di differenziarsi dalle stesse oggettivazioni che ne definiscono l’identità. La coscienza, in quanto appunto «negazione dell’identità» o della «non-identità», può perciò essere concepita come «una dimensione specifica, irriducibile, essenziale per comprendere il carattere proprio dell’esperienza esistenziale umana».28
Queste considerazioni, pur restando legate al cosciente “esser-Io”, non possono essere interamente ridotte alla dimensione del simbolo semantico. Infatti, l’attività espressiva dell’uomo sembra alludere alla produzione di mediazioni simboliche non ancorate al senso comune, ma legati alle esigenze soggettive di esprimere qualcosa di irriducibile alle forme codificate della cultura.29
Metafora e Simbolo
Metafora e conoscenza.
Particolarmente importante, tra i simboli semantici, è la metafora, che possiede «un’infinita serie di significati» ed è adoperata «in modo diverso in diversi campi di studio».30 Ciò che non cambia in questi usi è l’idea che le metafore attuino trasferimenti di senso fondati sulla «decontestualizzazione di termini e proposizioni dal luogo di origine»,31 e sulla loro collocazione in problematiche fondamentali diverse, in altri “giochi linguistici” e in differenti linee di ricerca.
In questo caso, la metafora, è intesa non già come figura tipica della creazione artistica e del linguaggio evocativo, bensì come «dispositivo del pensiero», come «elemento essenziale per pensare in senso euristico e quindi [anche] per la creatività scientifica».32 In altri termini, la metafora è concepita come un fattore necessario per la conoscenza, anche se sussistono enormi differenze tra chi mette in forte risalto l’onnipervasività della comprensione metaforica nei processi cognitivi complessi e chi ritiene invece che le metafore svolgano una funzione limitata nell’ambito della creazione euristica.
Nelle concezioni che ne evidenziano la funzione euristica,33 la metafora è connessa alla capacità di indicare un significante, nuovo o relativamente tale, capace di superare la povertà e l’uso ripetitivo dei significanti propri del linguaggio scientifico consolidato.34 Due esempi di questa prospettiva possono essere facilmente rintracciati nella “nuova linguistica cognitiva” e nella “psicologia cognitivo-evoluzionistica”.
Queste due concezioni aprono interessanti prospettive di ricerca per le “psicologie del profondo”. Ma difficilmente possono essere accolte integralmente, in quanto:
- radicalizzano l’ambizioso progetto freudiano di costruire una disciplina capace di darsi, mediante il “legame inscindibile” tra ricerca teorica e lavoro clinico, non solo lo statuto di sapere teorico attendibile e tendenzialmente fornito di vere e proprie capacità predittive, ma anche quello di sapere applicato contraddistinto da una “razionalità strumentale” simile a quella delle applicazioni pratiche delle discipline naturali o, per lo meno, al “saper fare” del medico moderno;
- finiscono per dare della cura della psiche mediante strumenti psichici una visione tecnico-operativa definibile in modo più o meno esaustivo. Per esempio, mediante metaforizzazioni ad hoc che, corrispondendo all’agire razionale rispetto allo scopo di weberiana memoria, potrebbero essere elencate in un “protocollo d’intervento” specificamente attinente al “caso clinico” trattato, considerato come l’espressione dell’intersecazione di fattori contemplati dalle tipizzazioni (o dalle classificazioni) derivanti dal modello teorico adottato.
Secondo George Lakoff, quando ci si allontana «dall’esperienza concreta per parlare in termini di astrazioni e di emozioni la comprensione metaforica della realtà diventa la norma»,35 cioè un procedimento cognitivo tanto naturale quanto abituale.
Il luogo della metafora – precisa Lakoff – non è affatto il linguaggio, ma il modo in cui concettualizziamo un dominio mentale nei termini di un altro. La teoria della metafora risulta, nel suo complesso, proprio dalla caratterizzazione delle mappature [ossia, delle attribuzioni di significato] che attraversano i domini concettuali, tanto che risultano metaforici tutti i concetti astratti […] di cui facciamo uso quotidianamente. Ne deriva che la metafora è assolutamente prioritaria nella semantica del linguaggio naturale ordinario e che lo studio della metafora letteraria è solo un’estensione della metafora concettuale.36
La nuova linguistica cognitiva postula, quindi, una onnipervasività della comprensione metaforica, concependola come un procedimento cognitivo naturale posto alla base d’ogni forma di conoscenza astratta, complessa o articolata. La metafora sarebbe dunque «uno dei modi (oltre a quello logico) che gli uomini hanno di concettualizzare la realtà»,37 una forma fondamentale e abituale di un’attività cognitiva distinguibile dall’espressione metaforica, ovvero dalla mera «occorrenza verbale» di tale attività.38
Pur muovendosi da una prospettiva in buona parte diversa, anche Giovanni Liotti ha sostenuto che, «in generale, tutta la nostra conoscenza verbale delle emozioni, degli affetti e dell’umore implica processi mentali simili alla costruzione di metafore (o di metonimie e sineddochi) il cui sfondo è un’esperienza sensoriale, spesso propriocettiva o enterocettiva».39 Il pensiero metaforico sarebbe, pertanto, essenziale sia «nella costruzione semantica ed episodica di sé e degli altri», sia anche per comunicare ad altri soggetti «stati emozionali complessi»,40 sicché nella metafora si verificherebbe «il passaggio dalla conoscenza tacita a quella dichiarabile nel linguaggio».41 Comunque lo si concepisca, questo passaggio è, se accolto, gravido di conseguenze per la prassi della psicoterapia analitica.
La ricchezza della metafora.
Per uno dei due principali indirizzi della filosofia del linguaggio del XX secolo, le convenzioni linguistiche nascerebbero solo in un secondo tempo «per limitare [ridurre] la ricchezza metaforica che caratterizza l’uomo in quanto animale simbolico».42 Nell’ambito di questo indirizzo, c’è chi ritiene che la metafora sia comprensibile solo all’interno di un determinato codice culturale e chi invece pensa che la metafora sia «l’elemento creativo e produttivo della cultura».43
Due autori, Paul Ricoeur e María Zambrano, vanno oltre questa concezione e danno alle metafore quasi la stessa funzione del “simbolo vivo” di Jung.
A mio avviso, suffragato da quanto ha affermato Maillard, la metafora può essere concepita come «orizzonte o contesto metaforico»44 e, in ultima istanza, come “attività metaforica”, dal momento che il soggetto «non solo “impiega” la metafora, ma la “compie”, la “mette in atto”. La metafora è [in questo senso] prima di tutto un atto».45 E ciò è particolarmente importante per la pratica della psicoterapia.
La metafora, afferma Ricoeur, «non è viva soltanto per il fatto che vivifica un linguaggio costituito. La metafora è viva per il fatto che inscrive lo slancio dell’immaginazione in un pensar di più al livello del concetto. L’anima dell’interpretazione è precisamente questa lotta per il “pensar di più”, guidata dal “principio vivificante”».46
Se presa in considerazione in relazione al concetto di mimesis, la metafora «perde ogni aspetto di infondatezza ed arbitrarietà»: essa partecipa alla duplice tensione caratteristica dell’imitazione: «soggezione alla realtà e invenzione immaginifica».47 Nel dire metaforico la realtà resta la referenza principale, senza mai trasformarsi in mera costrizione: in essa «ogni potenzialità latente d’esistenza appare come dischiusa, ogni capacità potenziale d’azione come effettiva». La metafora viva «è quella che dice l’esistenza viva»48.
Si potrebbe perciò dire, seguendo Ricoeur, che la metafora, in quanto congiunzione «tra finzione e ridescrizione»,40 trova il suo «luogo più intimo e radicale» non tanto nel nome, o nella frase o nel discorso, bensì «nella copula del verbo essere. L’è metaforico significa [infatti] a un tempo non è ed è», sicché ha senso parlare di “verità metaforica”, ma solo dando un «significato “tensionale’ al termine verità».41 La vitalità della metafora, nel senso evidenziato da Paolo Pieri,49 consisterebbe nella sua capacità di tener conto dello «slancio dell’immaginazione» e, quindi, di andar oltre il noto, il pre-definito o l’apparentemente certo determinati da un qualche modello teorico di riferimento e, in buona parte, dal “senso comune”.
Un caso emblematico, ma a se stante, è rappresentato dalla filosofa spagnola María Zambrano, che, con la sua “ragione poetica”, a suo avviso mediatrice tra filosofia e poesia, sembra assegnare alla metafora una particolarissima “funzione” creatrice.
In un testo inedito del 1966,50 María Zambrano scrive che il simbolo ha la caratteristica specifica di creare, di dare origine ad una dimensione spazio-temporale distinta da quella comune o generica, e nella quale viene abolita la fondamentale opposizione tra soggetto ed oggetto: l’azione dei simboli “tende a trascendere questa separazione che l’uomo vive continuamente, tra il fuori […] e il dentro”. Il simbolo si fonda sulla certezza che la realtà esterna abbia un senso e una struttura, sulla convinzione che essa sia “la casa dell’uomo”. Sotto questo aspetto, il pensare per simboli coincideva con il pensiero filosofico, ma solo prima che questo si separasse violentemente dalla poesia: la filosofia, resasi autonoma dal sapere poetico, si pose davanti all’universo “come se si fosse svuotato di senso”. L’esito fu che i simboli diventarono “forme fisse in se stesse, l’equivalente delle lettere di un alfabeto disponibile per comporre parole. Equivalente delle parole che compongono non una lingua, bensì un determinato linguaggio la cui forza operativa è esclusiva e che per questo stesso motivo non si parla sempre, ma solo in determinate occasioni, quando è necessario”. Spetta alla metafora, sottrattasi a questo processo di specializzazione e di ascesi dalla realtà, mediare tra questa ed il pensiero, perché i simboli possano tornare a vivere e a circolare. La metafora, a differenza del simbolo, assomiglia ad un enigma, la cui soluzione permane sempre inesaustiva e rinvia ad un’altra possibile comprensione. La metafora può essere compresa solo accettando lo scarto della comprensione stessa e facendone il fondamento della sua possibilità. Il dire metaforico si configura dunque come la modalità privilegiata della ragione poetica, dal momento che ammette e dà voce alla presenza di un referente intraducibile letteralmente, che per essere rivelato deve essere al tempo stesso parzialmente occultato all’interno di un contesto polisemantico. Essa permette all’uomo di chiamare una cosa con il nome dell’altra, chiamandole entrambe simultaneamente nell’unità di senso. La metafora sintetizza e compenetra campi concettuali distinti, e non deve necessariamente essere basata su di una similitudine: può crearla, dando voce al carattere pluridimensionale del reale. La sua vita non si ferma mai a ciò che inizialmente essa palesa: la metafora si basa su una “intercambiabilità tra forme, colori, a volte persino profumi”. Essa è un prodotto dell’anima occulta che opera nelle viscere dell’uomo. Le metafore, anche se penetrate a livello del pensiero astratto, permangono “ricche di significato, inesauribili di senso”.51 Esse offrono luoghi di rivelazione al sapere mediatore tra circostanza e interiorità, offrono luoghi di dicibilità ed ascolto alla parola in grado di riscattare l’esistenza umana nella sua opacità.52
La metafora è, dunque, concepita da Zambrano come un significante che non rimanda (come accade per quella accezione di simbolo che, in Jung, indica, come ho già ricordato, «l’attività sintetica esercitata dalla psiche») ad un significato noto o interamente esplicitabile. La sua critica al travisamento dell’originaria natura dei simboli vuole porre in evidenza come essi siano decaduti a meri segni, a significanti fissati quasi convenzionalmente in ambito filosofico: in definitiva, a concetti la cui operatività è possibile solo all’interno di un linguaggio condiviso.
La metafora in Freud e in Jung.
Metafora e metonimia corrispondono rispettivamente a quelle figure che Freud ha «illustrato come condensazione e spostamento», ossia ai due modi del funzionamento dei processi [psichici] inconsci particolarmente visibili nel sogno, nel sintomo e nel motto di spirito».53 Più in generale, data la centralità della comunicazione linguistica in qualsiasi pratica psicoterapeutica, la metafora ha costituito, forse più di altri tropi, un costante oggetto di riflessione teorica e clinica per la psicoanalisi.
Nella psicologia analitica, le metafore sono utilizzate sia nel “dominio della teoria” che in quello della pratica psicoterapeutica.54 Nel primo caso, «lo statuto metaforico del linguaggio comporta che le parole siano intese come parte fondamentale delle ipotesi intorno alla natura della psiche»;55 nel secondo, ossia nella pratica psicoterapeutica, tale statuto metaforico «indica l’assumere le parole nel loro significato di emblemi stimolatori di attitudini dinamiche, e cioè come agenti e reagenti della coscienza».56
Nella psicologia di Jung, la metafora, sembra essere correlata con la concezione del simbolo non semantico ed è considerata a partire dalla metodologia psicoterapeutica, in base alla quale ogni parola e ogni frase sono da ascoltare mantenendole, volutamente, a livello di immagini mobilitatrici. […] Nel loro essere assunte come metafore, è inteso, più in generale, che le parole inducono una doppia decisione: decidere circa il significato del loro evento comunicativo, una volta che sia stata decisa la condizione originaria da cui esse stesse hanno preso l’avvio. Occuparsi dell’infinita polisemia e della misteriosa proliferazione delle parole implica per lo psicologo non una neutra operazione filologica né un lavoro di chiarificazione concettuale fondamentalmente dissenziente, bensì il suo essere embricato con l’oggetto, sino al punto di essere obbligato, non solo sapientemente ma anche responsabilmente, a una decisione o scelta del significato dell’oggetto stesso.57
A mio avviso, il ruolo euristico delle metafore che il terapeuta junghiano usa nei suoi tentativi di riscrivere (con spostamenti significativi di senso) i “testi” prodotti dal paziente consiste, appunto, nella loro capacità di mettere almeno parzialmente in dubbio, o tra parentesi, le precedenti connessioni di senso, le “riproduzioni” consolidate degli eventi passati, le pre-comprensioni iniziali, ossia tutto ciò che, nella rappresentazione di sé, dell’altro e della relazione analitica, può essere ridotto alle “griglie ermeneutiche” preesistenti. Le “metaforizzazioni” hanno dunque, anche per quanto riguarda il terapeuta, il carattere basilare di eventi non programmabili e non pre-definibili, pena il loro decadere a meri strumenti tecnici del “già pensato” e del “già conosciuto”. Se la relazione analitica si fonda sulla “narrazione a più voci” e, quindi, implica dimensioni tanto complesse quanto interrelate, entrare nel campo non già della “scoperta della verità” ma in quello del “possibile”, di ciò che avrebbe potuto essere, le metafore occupano un posto rilevante nel tentativo, appunto “a più voci”, di andar “obliquamente” oltre gli abituali processi di significazione.58
Alcuni significati di simbolo
Una classificazione provvisoria.
Nelle pagine precedenti, ho cercato di portare alcuni esempi evidenti della polisemia del termine “simbolo” e delle sottili linee di confine che lo separano da altri termini in uso nella cultura del mondo occidentale. Utili suggerimenti per non perdersi nella polisemia della parola possono essere tratti da un saggio di Mario Trevi che riporta provvisoriamente a tre classi i significati di simbolo.59
Simboli semantici. Di una prima e vasta classe fanno parte i “simboli semantici”, vale a dire «i significati di “simbolo” che lo costituiscono nella funzione di rimando puntuale a qualcos’altro», ossia «nell’accezione sostanziale di segno vicario di un significante che, per varie ragioni,60 non può essere impiegato nell’operazione di significazione che lega appunto ogni significante ad un significato».61
In questa classe, «lo statuto del simbolo è sempre riducibile all’espressione aliquid stat pro aliquo»,62 ed è pertanto lo stesso di qualsiasi altro tropo, come la metafora, l’allegoria, l’emblema o la sineddoche.63 Non mancano, tuttavia, riflessioni che, come abbiamo visto, individuano non già nel simbolo, ma nella metafora il fulcro creativo del linguaggio e, in generale, dell’incessante attività che cerca di rappresentare (senza mai riuscirci compiutamente) l’indicibilità dell’esistenza umana e che, quindi, si presterebbe non solo ad una “semiosi infinita” dei suoi significanti, ma anche a prendere atto del carattere non semantico della metafora.
Simboli ergatico-semantici. Alla seconda classe appartengono, in primo luogo, i simboli matematici. Il loro statuto, sebbene sia quello dei simboli semantici, presenta una nuova caratteristica. Si può, infatti, operare su di essi e, quindi, «ottenere risultati imprevisti nell’atto di costituzione del simbolo stesso».64 In questa classe si possono porre anche i simboli della prima classe (come quelli cartografici) che, in generale, «abbiano una genesi e un impiego di carattere matematico e, pur se con molto più limitate possibilità operazionali, i simboli della logica simbolica».65 Sono questi i simboli ergatico-semantici, che sommano allo statuto di quelli semantici quello riassumibile nella locuzione latina “per symbolum aliquid novi inventur”.66 Questa classe di simboli, adoperati da diverse discipline scientifiche, poco (o nulla) avrebbe a che fare con i saperi delle scienze umane empiriche, con la psicologia analitica e con alcuni indirizzi della filosofia del linguaggio.
Simboli pragmatici. In una terza ed ultima classe dovrebbero essere posti tutti i simboli che «non rimandano ad alcun significante noto» e «ad alcun significato univoco», e «per i quali non è in alcun modo utilizzabile lo statuto dell’aliquid stat pro aliquo».67 Questo significato di simbolo «si presta ad assumere, nella sua indeterminata indicatività, quel margine di indicibile (ossia di non trasferibile nel linguaggio del pensiero razionale, ma non per questo […] “irrazionale” o “mistico”), che tanta parte ha nella speculazione dei maggiori filosofi» del Novecento.68
I simboli pragmatici sono caratterizzati:
- da intransitività semantica, «nel senso che il [loro] significato è, per così dire, “trattenuto” entro di essi» e, pertanto, è non «esplicitabile […], non separabile dall’espressione del simbolo stesso»;
- dal «carattere della sinteticità o […] della “composizione” […]. Ciò che, nel simbolo, viene tenuto assieme sono gli opposti che il pensiero razionale e dirimente mantiene legittimamente separati e, nella mutua esclusione, disgiunge e distanzia. […] In questo senso il simbolo esprime tensione e antinomicità creatrice, ma anche unione e collegamento»;
- dal loro configurarsi come «portatori di un progetto non ancora ospitabile dalla coscienza»;
- dal non poter essere sottoposti ad «un’interpretazione produttrice di comprensioni esaustive». Infatti, pur non rifiutando in alcun modo l’attività interpretativa, qualsiasi tentativo di interpretarli non può essere esaustivo e, conseguentemente, rimanda ad altre comprensioni possibili;
- dall’essere carichi non già di transitività semantica, ma piuttosto di «transitività pragmatica», ossia della capacità di agire sulla «struttura psichica che li percepisce e di provocare in questa trasformazioni integratrici e sviluppi evolutivi».69
La funzione pragmatica.
Secondo Trevi, pur essendo relativamente facile descrivere i simboli “pragmatici” seguendo le «ipotesi dei loro teorici […], è assai difficile reperirli concretamente».70 Li cerchiamo infatti inutilmente nei “luoghi” dove ci attendevamo di poterli trovare con una certa facilità (linguaggio poetico e mistico, arti figurative, sogni, miti, riti, dogmi, e via dicendo), giacché essi decadono presto in «emblemi, allegorie, metafore, indizi, contrassegni o sintomi: figurazioni indirette di qualcosa che può essere espresso altrimenti, dunque significanti che sostituiscono altri significanti, a loro volta legati a significati circoscritti» e che tornano ineluttabilmente ad avere lo statuto della significazione indiretta.71
Occorre, dunque, concludere che parlando dello statuto del simbolo non sono state affatto individuate «classi di simboli, distinte in base a presunte caratteristiche oggettivamente inerenti ai simboli stessi, bensì funzioni del simbolo inerenti piuttosto alla particolare lettura che del simbolo mettiamo, di volta in volta, in atto. […] In tal modo, la difficoltà di dare contenuti alla classe dei cosiddetti simboli pragmatici» sembra essere quanto meno “aggirata”.72
«Il simbolo [ha affermato Henry Corbin] è cifra e silenzio, dice e non dice. Non lo si spiega mai in modo definitivo; esso si schiude ogniqualvolta una coscienza è chiamata da lui a nascere, vale a dire a farne la cifra della propria trasmutazione».73 Riprendendo questo passo del grande islamista francese, Trevi osserva che se il silenzio del “simbolo pragmatico” risiede nella sua asemanticità, esso è anche “cifra”, nel senso (indicato appunto da Corbin) che rimanda a qualcosa, ma non già «nella modalità con cui un significante rimanda a un significato, ma nella modalità con cui un significante avverte l’interprete della presenza di un significato nascosto».74
In conclusione, «la costituzione di classi di simboli perfettamente delimitate e mutualmente escludentesi sembra impossibile» e, pertanto, «più legittima sembra la formulazione distintiva di “funzioni” del simbolo».75 In tal modo, si può comprendere che anche «una comune figura del linguaggio», di per se stessa mero significante con un significato noto, può assumere, in certe occasioni, un valore pragmatico e intransitivo, rendendo così evidente che «ciò che i romantici e Jung [o, per meglio dire, alcune sue riflessioni] chiamano “simbolo” è il mezzo della trasformazione psichica».76
Il simbolo di Jung
Premessa.
Per Jung o, per meglio dire, per ciò che può essere tratto da alcune sue considerazioni e, in primo luogo dalle famose Definizioni poste in calce ai Tipi psicologici del 1921, il simbolo, lungi dall’avere come in Freud lo statuto della significazione indiretta, è contraddistinto innanzitutto da due tratti, ossia: (a) dal fatto che, pur essendo carico di “senso”, non rimanda ad un significato noto o pienamente esplicitabile; (b) dalla capacità di «agire, provocando azione e trasformazione».77
Così concepito, il simbolo è da Jung riportato non solo alla “creatività” del processo psichico inconscio, inteso come il principale produttore di nuovo senso, bensì anche all’esistenza di una necessaria e particolare disposizione della coscienza a riconoscere certe potenzialità, certi ancora oscuri significati a quanto proposto dal processo inconscio.78 Tenendo conto di questi tratti, si potrebbe affermare che, per Jung, non si dovrebbe «parlare di simbolo se non legando il simbolo stesso all’attività che lo suscita e che esso stesso, nella sua attività, suscita».79
Nella definizione dei Typen, Jung rileva inizialmente i legami che uniscono il simbolo “vivo” (ossia, il simbolo con funzione pragmatica) alla coscienza. «Che una cosa sia un simbolo o no – dice – dipende anzitutto dalla coscienza che osserva: dall’atteggiamento, ad esempio, di un intelletto, che consideri il fatto dato non solo come tale, ma anche come espressione di fattori sconosciuti».80
Qualche riga dopo osserva, però, che esistono simboli che, per così dire, si impongono universalmente. È possibile rinvenire, a suo parere, prodotti il cui carattere simbolico non dipende solo «dall’atteggiamento della coscienza che li contempla, ma si manifesta [del tutto] autonomamente con un’influenza simbolica sull’individuo che li osserva».81
Jung cita la nota immagine del triangolo che racchiude un occhio, giacché a suo giudizio si tratta di una raffigurazione che richiede immediatamente (e senza alcun dubbio) un’interpretazione “simbolica”.82 Appare evidente che, in tal modo, questa raffigurazione apparterrebbe ad una “classe” ben distinta di “simboli”, che però (come sappiamo) sfuggono alla possibilità di rinvenirli concretamente.
Secondo questa linea interpretativa, il simbolo sarebbe la formulazione, nel linguaggio dell’inconscio, di una realtà che aspira a diventare cosciente. È appunto in questa prospettiva, ossia in base all’ipotesi che nelle espressioni simboliche offerte dall’inconscio si manifesti l’insieme delle finalità e dei valori meta-storici della vita psichica, che Jung ha proposto una particolare lettura, se non una vera e propria “interpretazione oggettiva”, di una vasta congerie di materiali individuali e culturali (sogni, prodotti letterari e artistici, testi mistici e alchemici, miti, fiabe, e via dicendo) estranea al punto di vista qui assunto.
In breve, l’errore che può essere rimproverato a Jung è di aver oscillato continuamente tra «la ricerca dei simboli “veri” e la definizione della funzione che, secondo la sua ipotesi, rendeva “vero” il simbolo».83 Si può, dunque, dire che il simbolo, definito in modo innovativo nel 1921, è spesso trattato da Jung come un fatto disgiunto dall’attività, e quindi come una “cosa” (immagine, testo, e via dicendo) che può essere decifrata, anche se mediante un codice ben diverso da quello psicoanalitico.84 Molti suoi scritti sono, non a caso, mossi dall’intento di interpretare una vasta congerie di figure visive e linguistiche, assunte come significanti che rinviano a significati esplicitabili. Ciò che muta, rispetto alla concezione freudiana, non è lo statuto del simbolo (che resta quello dell’aliquid stat pro aliquo), ma il campo del simboleggiato, nel senso che il simbolo rimanda ad un significato definibile tramite le metafore interpretative con le quali Jung ha cercato di ritrarre le manifestazioni della vita psichica.
Per esempio, un’immagine che nella concezione psicoanalitica assume il significato di “simbolo fallico” è, per Jung, una delle «varianti analoghe» che esprimono la forza plasmatrice e creatrice della “libido”.85 Il che è quanto dire che, in ogni caso, la decifrazione di un simbolo è possibile se si conosce (o, meglio, se si pensa di conoscere o di poter definire) il codice che consente di legare il significante ad un preciso significato. È quindi evidente che Jung finisce per tradire le sue stesse intuizioni in merito a ciò che divide il “simbolo con funzione pragmatica” dal mero segno o da uno dei tropi già menzionati.
Le caratteristiche del simbolo.
Quattro sono i tratti del simbolo o, meglio, del simbolo con “funzione pragmatica” desumibili dalla già citata definizione dei Typen del 1921.
L’intransitività semantica. Il simbolo, pur essendo carico di senso, non rimanda ad un significato noto o determinabile. Esso trattiene, infatti, momentaneamente “dentro di sé” il suo significato. Il simbolo non può, perciò, essere sostituito con un altro significante e non può essere creato (ossia, inventato) mediante connessioni note,86 essendo distinguibile dal semplice segno (o da altri tropi) solo finché cela il suo significato dentro se stesso. «Ogni prodotto psichico [afferma Jung] può essere concepito come simbolo»,87 ma solo a patto che esso conservi almeno per un certo tempo il suo carattere di «migliore espressione possibile in quel determinato momento per un dato di fatto sino allora sconosciuto o conosciuto solo in parte» e che mantenga il significato di «designazione anticipata» di qualcosa che ancora si sottrae al tentativo di specificarne gli elementi essenziali.88
La storicità. In secondo luogo, il simbolo (con funzione pragmatica) cessa d’essere tale nel momento in cui è ricondotto ad un significato determinato, trasformandosi così in un segno, in un altro tropo o in contenuto concettuale. Quando «ha dato alla luce il suo significato», quando insomma «è stata trovata quell’espressione che formula la cosa ricercata, attesa o presentita ancor meglio del simbolo in uso sino a quel momento, il simbolo muore».89 Ne deriva che, volendo dare un minimo di coerenza a questa affermazione, l’evento psichico suscitato dal simbolo non può che essere individuale, poiché, diversamente da quanto altrove sostenuto da Jung, i significati che la cultura attribuisce ai simboli semantici hanno sempre un carattere storico, nel senso che il codice che consente la loro esplicitazione in un significato noto è in ogni caso fissato dal “senso comune” di un’epoca o di una determinata cultura, oppure da un codice più o meno noto. Molte metafore ed altri tropi hanno per noi un significato solo perché la loro interpretazione è stata “fissata” da una determinata tradizione. Va da sé che qualsiasi figura visiva ed iconica è soggetta alla storicità socio-culturale, nel senso che i loro significati possono variare anche in modo non trascurabile a seconda delle epoche e dei contesti.
La coesistenza tensionale di contenuti psichici opposti. In terzo luogo, il simbolo con funzione pragmatica è, per Jung, caratterizzato dalla coesistenza tensionale di stati, elementi e contenuti psichici opposti tra loro, in parte consci e in parte inconsci. In assenza di questa coesistenza, il simbolo non sarebbe affatto caratterizzato da intransitività semantica. Come osserva Trevi, il simbolo si configura come «la più adeguata espressione di quel “non ancora” che il progetto comporta», ossia come la rappresentazione incerta ma «allusiva […] di una condizione, non ancora ospitabile nella coscienza», espressa dal processo psichico inconscio, vero e proprio «produttore di progetti che la coscienza non potrebbe formulare».90 Compito della composizione degli opposti svolta dal simbolo è, dunque, quello di «rendere attive e produttive le lacerazioni in cui la coscienza inevitabilmente incorre, sia per la natura dirimente e oppositiva della fondamentale modalità di pensiero che la domina, sia per l’inevitabile e costitutiva antinomicità dell’esistenza».91 In questo senso, il simbolo non è una “cosa” disgiunta dall’attività, bensì un evento psichico che, pur avvalendosi d’infiniti «oggetti occasionali», non può essere ridotto a questi.92
[3.3.1.] Un esempio: i mandala, spesso assunti da Jung come simboli del “Sé” (o, meglio, del Selbst), non sono affatto eventi psichici, ma piuttosto forme e attività fissate dalla cultura buddista per cercare di rappresentare visivamente qualcosa che gli occidentali hanno voluto interpretare come un “simbolo” del Sé. Ma ciò non comporta affatto, come Jung talvolta sostiene, che queste immagini siano consone alla sua concezione del “simbolo vivo”, giacché esse rimandano non già ad un evento psichico tanto possibile quanto non prevedibile, ma piuttosto ad una significazione culturalmente definita o, comunque, esplicitabile mediante un codice ad hoc. Anche un mandala può, ovviamente, svolgere la funzione pragmatica del simbolo descritto da Jung, ma solo se esso non sia un significante che rimanda ad un significato noto e, pertanto, “trattenga” per un certo tempo il suo significato celato.La capacità di suscitare azione e trasformazione. Infine, il simbolo ha la capacità di agire sulla coscienza che lo contempla senza rifiutarlo e, conseguentemente, di suscitare azione e trasformazione. Così concepito, il simbolo è, da Jung, connesso alla “creatività” del processo psichico inconscio e, al contempo, ad una disposizione della coscienza a riconoscere, ad intravedere più o meno confusamente, certe potenzialità, certi caratteri o, in breve, un senso (ma non un significato) a quanto ”proposto” dal processo inconscio.
Come abbiamo visto, per Jung l’origine del simbolo (con funzione pragmatica) non è mai del tutto cosciente né solo inconscio, ma scaturisce dalla «equilibrata cooperazione di entrambi i fattori».93 È appunto per tale “equilibrata cooperazione”, che il simbolo è distinguibile dai segni creati intenzionalmente e dai sintomi.94
Partendo dall’ipotesi dell’esistenza di una specifica capacità autoregolativa della psiche, volta innanzitutto alla differenziazione della coscienza dalla totalità psichica e al contempo all’integrazione tra il polo dell’Io e del “non Io”, il ruolo del processo psichico inconscio è, per Jung, quello di produrre o, per meglio dire, di proporre “oggetti” (linguistici e iconici) che sono in grado di costituirsi come significanti che, pur non rimandando ad un significato noto o esplicitabile, possono svolgere la funzione di strumenti di trasmutazione psichica laddove la coscienza che li osserva riesca a sopportare la tensione derivante dal non poterli decifrare mediante le sue modalità di funzionamento. L’evento simbolico non realizza finalità coscienti o progetti preesistenti, né può essere ridotto solo all’attività interpretativa della coscienza chiamata a tollerarne inizialmente l’allusività e, insieme, l’oscurità.
Considerato nel suo significato specifico e originale di evento psichico” il simbolo di Jung è individualmente creativo, poiché è, in potenza, lo strumento di una possibile trasformazione dei precedenti equilibri endo-psichici. Questo significato emerge chiaramente se si tiene presente che ciò che è anticipato, in modo tanto oscuro quanto allusivo, dal simbolo è non già «l’insieme delle generiche possibilità relative a ogni singola situazione umana, ma quella possibilità fondamentale che – specifica in ogni individuo – schiude in ogni individuo le sue possibilità autentiche».95
Bibliografia essenziale
- PIERI P. F. 1998, Dizionario junghiano, voce “simbolo”, Bollati Boringhieri, Torino.
- TREVI M. 1986a, Instrumentum symboli, in «Metaxù. Materiali e ricerche sul pensiero simbolico e zone di confine», n. 1., 1986. 1987b, Metafore del simbolo, Cortina, Milano.
- 1987a, Per uno junghismo critico, Bompiani, Milano.
- 1987b, Simbolo e simbolico. Oscillazioni di significato, in «Metaxù. Materiali e ricerche sul pensiero simbolico e zone di confine»,n. 3, 1987.
- 1990, Metafore etimologiche del simbolo ed altre congetture metaforiche, in «Metaxù. Materiali e ricerche sul pensiero simbolico e zone di confine», n. 9, 1990.
- 1991, Il concetto di “ponte simbolico” nel primo Jung, in «Metaxù. Materiali e ricerche sul pensiero simbolico e zone di confine», n. 12, 1991.
- 1995, Il problema del simbolo, in L. Aversa (a cura di), Fondamenti di psicologia analitica, Laterza, Bari 1995.
- «Metaxù. Materiali e ricerche sul pensiero simbolico e zone di confine», n. 12, 1991 (saggi, in ordine alfabetico, di L. Aversa, P. Barone, M. La Forgia, M. I. Marozza, A. Ruberto, E. V. Trapanese, M. Trevi).
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- Il concetto di simbolo in Jung. Variazioni di significato di E. V. Trapanese • 618 kB • 20 download