
2018 Nuova Serie Numero 0 Ricerche Teorico Cliniche
A CURA DELLA REDAZIONE Ricerca e terapia costituiscono un binomio inscindibile nel pensiero junghiano, tutto spostato sul momento centrale dell’esperienza. La rubrica ospita note, sintesi, riflessioni e quant’altro delle attività svolte dai gruppi di lavoro presenti all’interno del nostro Istituto.
Gruppo di ricerca: “Materiali fra Psicoanalisi e Fenomenologia”
In questi anni di lavoro (dal 2008 chi scrive) il nostro gruppo è arrivato ad accettare il fatto che la psicoterapia (come la psicologia, del resto) prima di essere ‘impresa scientifica’ o professione iper-specialistica è parte del nostro comprendere ordinario: un continuo tentativo di ‘descrizione’ del comportamento e della soggettività dell’altro che proponiamo continuamente a noi stessi che ha origine al di fuori dei confini di qualunque ‘teoria’. La capacità di cogliere una serie di segnali, ‘gestuali’, pre-riflessivi (ben individuati dagli studi portati avanti dalla prossemica e, più in generale, dalle teorie sistemiche) caratterizza le nostre interazioni quotidiane; la retorica, del resto, lo sa da molto tempo: ci sono gesti specifici dell’oratore che hanno un effetto immediatamente contagioso, creano le coreografie necessarie a veicolare, più o meno consapevolmente e strategicamente, il messaggio persuasivo in chi assiste. (cfr. Olbrechts-Tyteca – Perelman 2013).
Accanto a questa consapevolezza abbiamo acquisito però, abbastanza chiaramente, anche la dimensione della ‘storicità’ e quella della ‘spazialità’ del gestuale (a partire da tutta una serie di studi, principalmente ermeneutici e fenomenologici, che abbiamo frequentato in questi anni); i gesti non sono solo l’espressione di un corpo-cosa ma di una presenza che inevitabilmente cambia nel tempo ed è sempre, inevitabilmente contestualizzata[2]. Il repertorio gestuale è in costante rinnovamento perché viene modificato da tutte quelle ‘protesi mentali’ che continuamente la ‘tecnica’, intesa in senso lato, ci fornisce (basta guardare al cambiamento della gestualità legato all’uso del cellulare in strada: si compiono gesti che solo venti anni fa non esistevano affatto); Erving Goffman nella sua trattazione con la sua analisi drammaturgica ha scritto delle belle pagine in merito[3].
L’esempio per eccellenza, relativo a questo discorso è certo dato dal linguaggio; quest’ultimo inteso come ‘protesi tecnica’ che retroagisce, inevitabilmente, sulla gestualità degli individui facenti parte di un gruppo umano (si può fare l’esempio del gruppo di adolescenti e del loro gergo ma altrettanto efficacemente anche del gruppo degli ‘analisti’, come ripetutamente messo in evidenza da Wilfred Bion); qui si è posto inevitabilmente il problema di quanto il ‘gergo analitico’ ci influenza quotidianamente, a volte a nostra insaputa (ad esempio nella presa in considerazione del rapporto fra la parola e l’immagine). La nostra interrogazione in merito ha dunque fatto ampio riferimento alla filosofia del linguaggio, il tentativo è stato quello di recuperare delle illuminanti intuizioni di filosofi, linguisti e studiosi di estetica, ecc. come Ludwig Wittgenstein, Charles Peirce, Ernesto Grassi, ecc. che hanno indagato proprio sui limiti del linguaggio e sul rapporto fra questo e ‘la psiche’.
Su questo terreno ciò che sembra separare l’esperto psicoterapeuta dal profano non è certo la capacità di ‘penetrare psicologicamente l’altro’ attraverso degli strumenti tecnico- teorici, specifici di un ‘sapere astratto’ (del resto ormai privato dell’aura di ‘scientificità’, di qualunque tipo si tratti); molto più semplicemente (ma non semplicisticamente) si tratta di una capacità di rimanere attenti e sensibili agli ‘scarti’ – per dirla con François Jullien (1998) – che si impongono fra il nostro modo d’essere (strettamente legato a pratiche linguistico-gestuali) e quello di chi abbiamo di fronte, facendo riferimento al nostro modo di esprimerci, alle nostre esperienze, ai modi che abbiamo tirato fuori in passato per venire a capo di problematiche relazionali, ben consapevoli della differenza fra la nostra soggettività e quella del paziente per evitare facili ricorsi a un ‘empatia’ intesa troppo facilmente come un ‘mettersi nei panni dell’altro’. Sul ‘quando e sul come’ questi scarti si presentino in forma di ricordo, ‘rappresentazione’, ‘immaginazione’ e come questo ricordare sia strettamente legato all’affettività, cercherò di dire qualcosa più avanti in merito all’argomento oggetto di trattazione durante l’anno in corso.
Certo è che, almeno ai nostri occhi, questa capacità non si acquisisce attraverso un aumento di ‘conoscenza’, un’acquisizione di quello che viene chiamato ‘sapere che’ (che per uno psicoterapeuta si può intendere come la precisazione accurata di una teoria della tecnica) ma innanzitutto attraverso l’esercizio di una pratica quotidiana, un ‘sapere come’ che viene continuamente messo a punto tramite delle cautele procedurali apprese, anch’esse, empiricamente nello scambio con l’altro. Quelli che possiamo definire ‘gesti terapeutici’ si affinano, diventano più rapidi, più netti solo col tempo e trovano una loro forma singolare di espressione che, nel nostro lavoro, è sicuramente (ma non solo) linguistica. Le terribili esitazioni iniziali, accompagnate dalla ricerca di punti di riferimento esterni, vengono sostituite da un’adattabilità elastica che assume come compagni di viaggio il dubbio e una lieve ‘ansia’ e considera la ‘certezza’ degli enunciati, (di qualunque tipo di enunciati si tratti) un punto di arrivo, provvisorio, che si raggiunge in un gioco a due col paziente. Arrivati a questo punto, da azione finalizzata verso uno scopo univoco (‘guarire il paziente, alleviare la sua sofferenza’, sviluppare la sua consapevolezza, ecc. ecc.), la metafora più adatta per la psicoterapia sembra essere piuttosto quella della danza.
Detto questo e registrata la complessità della questione ci siamo interrogati sulla possibilità di distinguere il lavoro che facciamo da quello di un bravo agente immobiliare (a parte la parcella!). In un clima culturale volto al tecnicismo spinto, la tentazione è proprio quella di abbozzare una risposta che finisce per assumere dei risvolti ‘concretistici’, come se dietro la parola ‘psicoterapia’ vi fosse un’essenza ben individuabile o, peggio, solo una tecnica di cui impadronirsi in modo definitivo e non una pratica continua che mette in discussione ‘tutto l’uomo’ (come la danza appunto). Eppure in ambito psicoanalitico e, io direi soprattutto in ambito junghiano, molto si è fatto in proposito per vedere con cautela tali posizioni. Per Carl Gustav Jung, ad esempio, il significato del termine ‘psiche’ (come quello ‘psicoterapia’) è indiziale, non semantico, è processuale e pragmatico, non ontologico, è contestuale e storico, non universale (almeno nelle sue forme di espressione)[4]. Eppure, nonostante questa consapevolezza, è vero che, anche noi, come ‘l’agente immobiliare’ di cui sopra, non possiamo fare a meno di ‘cercare qualcosa’ o di avere una qualche finalità (a dispetto di tutte le cautele legate a sospensioni di giudizio o epochè fenomenologiche)[5]; lo facciamo ordinariamente e prudentemente noi e lo fa, probabilmente con meno cautele epistemologiche ed ermeneutiche, il nostro paziente (ad esempio quando sbircia su internet notizie che ci riguardano prendendole per fatti…). L’esigenza però rimane: non possiamo non crearci un’immagine di chi abbiamo di fronte e, per farlo, utilizziamo tutta una serie di strumenti empirici e conoscitivi dai quali, quando va bene, cerchiamo di farci soccorrere ma solo nel presente dell’interazione (senza farcene condizionare aprioristicamente). Con Bion direi che tentiamo di ricordare chi è il nostro paziente (nel presente) invece di ripetere automaticamente una pratica schematizzante[6]. Si tratta, in sostanza, di continuare a farlo rimanendo ‘psicologicamente vivi’ (ben consapevoli che la definizione linguistica di questa condizione della mente non sia affatto scontata)[7].
Da qui lo spunto per la tematica che vorremmo approfondire quest’anno; per farlo credo si possa cominciare a riflettere in prima battuta, su una questione apparentemente semplice che negli ultimi anni è invece diventata sempre più problematica: cosa significa ripetere un’azione automaticamente? E ancora: è ancora possibile individuare il confine dell’azione automatica attribuendola al mondo animale (rispetto all’azione volontaria e finalizzata che sarebbe caratteristica dell’umano) come da Aristotele in poi si è sempre si è tentato di fare?
La teoria di Freud è nota a tutti noi: l’azione inconsapevole si sostituisce al ricordo; le continue messe in scena a cui il terapeuta è chiamato a partecipare passivamente sono gli unici modi di ricordare che i pazienti conoscono. Freud rimane, da un lato, un determinista, un cultore della teoria dell’arco riflesso (la spinta al ripetere è di natura pulsionale, la ‘pulsione di morte’ guida la coazione a ripetere, l’uomo non può farci nulla se non ritardarla interponendole le opere dell’Eros); dall’altro contrappone a questa posizione una teoria implicitamente finalistica: il fine della ripetizione è quello di recuperare il ricordo riconnettendolo all’affetto da cui si è dissociato. Per Freud è il mezzo ad essere inadeguato: la coazione a ripetere deve essere sostituita dalla razionalità, vale a dire dalla consapevolezza affinché il paziente riconquisti quella intenzionalità che non gli è affatto data a priori; qui emerge il Freud allievo di Franz Brentano.
Oggi abbiamo piuttosto chiaro che queste concezioni risolvono un po’ troppo facilmente la questione del fare qualcosa, del ricordare e del ripetere. Per Freud faccio qualcosa perché ho una consapevole intenzione di farla o perché ho un fine razionale che mi guida. Ho sete, mi alzo a bere un bicchiere di acqua perché ho una rappresentazione mentale anticipatoria dalla quale prende origine la mia azione. Il paziente oppresso dalla coazione a ripetere non ha invece questa possibilità perché la rappresentazione-ricordo si è separata dall’affetto corrispondente. Ricordare per il paziente significherebbe recuperare la rappresentazione rimossa riconnettendola all’affetto. Questo evento libererebbe energia pulsionale e restituirebbe all’Io libertà libidica quindi potere di controllo sulle proprie azioni. Questa è una teoria elegante, dai confini netti, ben definiti. L’ordine emerge dal disordine in senso lineare e la razionalità è ben delimitata rispetto all’affettività.
Un pensiero diverso in merito ci veniva già da Ludwig Wittgenstein che nelle Ricerche Filosofiche fa dell’assenza di un piano interno (piuttosto che della sua presenza) l’origine dell’azione. In ambito psicoterapeutico è la teoria sistemica che ha preso a piene mani da questa idea. L’azione si genera come gesto ripetitivo in un dato contesto di gruppo (sistema familiare). Esso è determinato già in partenza dall’organizzazione del sistema e retroagisce sugli individui creando la rappresentabilità del gesto stesso, il suo significato e di conseguenza l’identità degli individui coinvolti (che è essenzialmente centrata sul ruolo da mantenere nel sistema stesso). In effetti, se prendiamo in considerazione la nostra quotidianità vediamo che essa è fortemente caratterizzata da una serie di ‘saper fare sociali’ ai quali non prestiamo più attenzione perché li abbiamo automatizzati: abbiamo una serie di routine comportamentali relative al luogo di lavoro, all’uscita con gli amici, alla possibilità di incontrare uno sconosciuto, ecc. ecc. Il corso della nostra giornata si svolge per buona parte ‘secondo copione’ per dirla ancora con Goffman.
Questo discorso che può apparire troppo contro intuitivo, ha trovato anche delle conferme in ambito neurologico: all’idea di una azione decisa in modo gerarchico-determinista da parte di una specifica area del cervello (funzioni superiori) si è sostituita un’idea di ‘competizione diffusa’ fra diverse aree del cervello che sono appositamente deputate a sollevare proprio le funzioni superiori dal peso della vigilanza e, di conseguenza, della scelta[8]. Con ragionevole probabilità possiamo supporre che la consapevolezza dell’azione è solo una tappa intermedia del processo, non il punto di origine. Sono tutte idee queste che, per tornare al quesito iniziale, ci invitano a diffidare della certezza ‘freudiana’ di poter identificare quando comincia un piano di azione perché, spesso senza darcene conto, siamo già immersi in un insieme di azioni dettate da copioni impliciti. Regole del gioco che ci danno indicazioni riguardo ai limiti e ai significati relativi a ciò che si può fare e non fare in un certo contesto sociale. Da questo punto di vista è l’istituzionalizzazione sociale che si regge sul bisogno di credere che chi ci sta di fronte ha intenzione deliberata di fare quello che fa. La presunta razionalità viene individuata più come giustificazione, a posteriori, dell’azione in corso, una sorta di rappresentazione da fornire a se stessi e agli altri rispetto all’impellenza di un’azione inizialmente priva di pianificazione che nasce prima di poterne definire i confini categoriali (definibili solo a posteriori).
Pur rilevando il limite di una concezione così ristretta dell’identità umana, limite che spero tenteremo di evidenziare durante l’anno, va anche segnalata l’utilità di questi schemi che ‘automatizzano l’azione’ e ci rendono liberi di rivolgere la nostra attenzione ad altro, ci aiutano ad affrontare la complessità del reale. Generando una semplicità che non è semplificazione (vedi Berthoz 2011). Posizioni del genere hanno avuto il merito di aprire a un modello di psicoterapia, radicalmente diverso da quello centrato sulla rimozione; si tratta di un modello che è invece fondato su quella ‘naturale dissociabilità’ della psiche che ben conosciamo. In questa visione i gesti in gioco nella coppia analitica non possono più essere ricondotti con certezza a una delle due soggettività o a una presunta ‘maggiore consapevolezza di uno dei due’ ma semmai segnalano proprio una differenza di esperienza legata alla capacità di armonizzare tutte le parti in gioco ricordandole nel presente per ‘averle già frequentate’, (eterogeneità di parti che nella loro autonomia non possono che essere ripetitive e contagianti). Alla visione meccanicistica freudiana, organizzata secondo una gerarchia lineare da ‘individuare’, si è sostituita una concezione probabilistica; all’immagine della scala gerarchica si è sostituita quella dell’albero. Proviamo a seguirne le tracce relative all’attività psicoterapeutica con qualche idea di Bion.
Anche Bion, come Wittgenstein, parte dall’assenza considerandola come il punto di origine della rappresentabilità del reale (che rimane sempre inconoscibile). L’esperienza della rappresentazione infatti toglie sempre qualcosa all’esperienza della concretezza. L’oggetto concreto e l’esperienza di esso vengono distrutti per creare lo spazio dell’equivocità. Ma perché si generi una rappresentazione distanziabile occorre prima generare uno spazio mentale; l’assenza non basta; per Bion, ci vogliono due elementi: l’assenza e la capacità di attesa. L’assenza, da sola, genera un’azione ‘predatoria’: porta a un ‘ravvisare’ qualcosa non a un ‘riconoscerlo dopo averlo sperimentato’, stimola una immediata ricerca di ‘pieno’, prendendo il posto della possibilità di generare una rappresentabilità dell’esperienza in corso. Allora a cosa serve l’attesa? A creare quello spazio mentale che ci qualifica come esseri umani. L’azione del robot (vedi tutte le difficoltà della robotica nel riprodurre le azioni umane e di conseguenza la specificità del controllo umano) è arrivata alla raffinata possibilità di ‘effettuare delle stime’ e in conseguenza di questa acquisizione riesce anche a ingannare gli animali (pensiamo ai droni di forma animale con i quali si girano modernamente i documentari) ma non può tollerare l’attesa. Provo a dire qualcosa in più.
La ‘qualità vitale’ che noi andiamo cercando nei nostri pazienti come psicoterapeuti (che probabilmente ci distingue da altre professioni ‘volte alla comprensione’ di cui si diceva sopra), mi sembra caratterizzata proprio da questa capacità di tenere nella giusta considerazione ‘l’attesa nell’assenza’. Noi siamo capaci di attendere il paziente a studio perché possiamo rievocarne il ricordo, solo in conseguenza di questo possiamo chiedere a noi stessi, mentre lo aspettiamo: ‘verrà o non verrà oggi?’
Ora, nella grandissima quantità di studi relativi alla memoria intesa come possibilità di rendere presente il passato ‘in assenza’ rimane scarsa la quantità di studi riguardo l’oblio. Eppure nella stessa teoria freudiana esiste un’intuizione relativa all’importanza della tematica: noi possiamo dimenticare veramente solo se abbiamo la possibilità di rievocare un ricordo (nel senso di rendere presente qualcosa di assente con tutte le difficoltà già individuate da Husserl stesso e poi evidenziate da Paul Ricoeur a differenziare l’immaginazione dalla rimemorazione). Un certo tipo di oblio (la rimozione al tempo di Freud o la dissociazione in tempi recenti) diviene il modo migliore per ‘conservare sotto ghiaccio’ qualcosa per sempre: per creare un fantasma. Questa tematica emerge con molta più chiarezza nella letteratura, (spesso negli studi moderni viene citato Borges e il suo Funes el memorioso). Lo stesso Husserl nelle sue raffinate analisi, si occupa di capire come nel presente permanga un qualcosa di appena passato (la ritenzione) o come nel presente si riattualizzi un’immagine (la rimemorazione) ma non tiene in sufficiente considerazione quello che negli ultimi anni appare sempre più evidente: ricordare, percepire, immaginare e dimenticare sono attività inseparabili. Qui sembra confermata la validità di un approccio antinomico: noi riusciamo a ricordare quanto meglio riusciamo a dimenticare. La stessa psicoanalisi parla di ‘arte del dimenticare’ e, riprendendo le idee di Ricoeur, di una possibile ‘etica dell’oblio’ che si sostituisca ai forzati rituali collettivi che invitano costantemente a non dimenticare. È abbastanza evidente, e spero ne parleremo, che solo la possibilità di dimenticare ci offre la possibilità di delegare tutta una serie di azioni e quindi di semplificare la complessità che ci circonda. Semplificare, come si comincia a capire sempre meglio, non è affatto semplice.
A partire da questa premessa mi vengono in mente almeno tre punti importanti che sarebbe bello approfondire durante l’anno:
- La capacità di semplificare (dimenticando) del paziente appare svilupparsi in relazione al proprio ambiente vitale: l’ambiente può ostacolare la dimenticanza sequestrando l’attenzione. Su questo punto la psicoanalisi degli ultimi anni si sta interrogando sul trans generazionale: la possibilità che tra generazioni passi tanto più facilmente tutto ciò che non è stato mentalizzato (qui le parole di Jung rispetto all’Ombra dei genitori che ricade sui figli suonano estremamente attuali).
- Il concetto di schema, a partire da Kant, necessariamente ritorna in relazione a questo discorso: molti organismi viventi hanno schemi simili, e quindi dimenticano e ricordano in modo Noi possiamo stabilire una qualche forma di rapporto con alcuni pazienti solo ‘per somiglianza’, perché il loro ripetere segnala schematicamente, non è segnico, non significa niente, si limita a guidare l’azione verso un modellamento immediato (induce una forte reazione caricata di controtransfert, ancora con Bion). Il paziente grave non perdona la mancata comprensione di questa necessità relativa al segnale inviato, segnale che può anche essere: non voglio comunicare come nell’autismo.
- Sempre più studi neurologici confermano che tale ‘semplificazione’ (qui intesa come aumento di connessioni neurali), è legata al sonno e al sognare. Anche qui le suggestioni di Bion: solo sognando continuamente possiamo rimanere svegli. Svegli, ovverosia capaci di dimenticare, ricordare e semplificare ciò che è troppo complesso.
Note
- [1] Psicologo, analista del CIPA.
- [2] Qui i nostri studi si sono soffermati in particolare sull’opera di Maurice Merleau Ponty di cui mi limito a citare un classico che abbiamo trattato: Merleau Ponty M. (2003).
- [3] Gli studi di Goffman in merito sono svariati. Mi limito a citare i classici: Goffman E. (2001) (dove viene sviluppato inizialmente il concetto di ‘analisi drammaturgica’ e Goffman E. (1974) dove questa e altre concezioni trovano uno sviluppo compiuto.
- [4] In proposito i nostri riferimenti, in ambito junghiano, sono stati principalmente quelli dei volumi 16° e 8° delle opere di Jung (1991).
- [5] Certo, rispetto al comprendere di Dilthey o di Jaspers, che si presumeva ‘oggettivo’, credo che gli studi ermeneutici ci abbiano molto aiutato a uscire fuori da una posizione francamente troppo riduttiva: oggi tutti noi sappiamo che individuare qualcosa nel nostro ‘comprendere’ i gesti di cui sopra (globalmente intesi) dell’altro è un’attività che non può che partire dalle nostre categorie interpretative, dal rapporto fra i nostri significati e i nostri significanti per dirla con Derrida.
- [6] Wilfred Bion, nel suo classico Apprendere dall’esperienza (1962), si riferisce all’altrettanto classico articolo di Sigmund Freud Ricordare, ripetere, rielaborare (1914).
- [7] In questo ci ha supportato la lettura di testi classici della psicopatologia fenomenologica. Mi limito a citare tre autori da noi molto frequentati nel corso di questi anni: Ludwig Biswanger (1999, 2001); Wolfgang Blankenburg (1998). Bin Kimura (2005).
- [8] In questa visione (ad esempio Etienne Koechlin) ci sono almeno tre aree cerebrali coinvolte nel prendere una decisione: le aree motivazionali (molto vicine al biologico di cui si occupano le strutture mediane del cervello); le aree emotive che ci portano a decidere per una ‘bella mela’ in base alla nostra esperienza passata; le aree cognitive. Detto questo lo studio si è esteso alla prova che tale scelta non è mai solo cognitivamente orientata (come si riteneva fino a pochi anni fa) ma frutto di una sorta di competizione fra ‘aree’ e viene sempre presa in dati contesti, quindi non è mai solo un affare individuale.
Bibliografia orientativa
- Berthoz A. 2011, trad. La Semplessità. Codice Edizioni, Torino. Bion W.R. 1989, trad. Apprendere dall’esperienza, Armando, Roma. Biswanger L. 1999, trad. Melanconia e mania, Boringhieri, Torino.
- Biswanger L. 2001, trad. Tre forme di esistenza mancata, Bompiani, Milano. Blankenburg W. 1997, trad. La perdita dell’evidenza naturale, Feltrinelli, Milano. Feyles M. 2012, trad. Studi per la fenomenologia della memoria, Feltrinelli, Milano.
- Freud S. 1914, trad. Ricordare, ripetere, rielaborare, in OSF, vol. 7°, Boringhieri, Torino 1988. Gargani A.G. 2008, Wittgenstein. Musica, parola, gesto, Feltrinelli, Milano.
- Gessa Kurotschka V. – Diana R. – Boninu M. (a cura di) 2010, trad. Memoria fra biologia, identità, etica, Mimesis, Milano.
- Goffman E. 2001, trad. Frame analysis, Armando, Roma.
- Goffman E. 2001, trad. La vita quotidiana come rappresentazione, Feltrinelli, Milano.
- Grassi E. 1998, Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, Guerini e associati, Milano. Jullien F. 1998, trad. Trattato dell’efficacia, Einaudi, Torino.
- Jung C.G. 1991, trad. La dinamica dell’inconscio, in OCGJ, vol. 8°, Boringhieri, Torino. Jung C.G. 1991, trad. Pratica della psicoterapia, in OCGJ, vol. 16°, Boringhieri, Torino. Kimura B. 2005, trad. Scritti di psicopatologia fenomenologica, Giovanni Fioriti, Roma.
- Merleau Ponty M. 2003, trad. Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano.
- Olbrechts-Tyteca L. – Perelman C. 2013, trad. Trattato dell’argomentazione, Feltrinelli, Milano. Ricoeur P. 2003, trad. La memoria, la storia, l’oblio, Raffaello Cortina, Milano.