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Commento a: Christopher Bollas “Se il sole esplode. L’enigma della schizofrenia”

Rivista annuale a cura del Centro Italiano di Psicologia Analitica Istituto di Roma e dell’Italia centrale

Invito alla Lettura

2016 Numero Extra Invito alla Lettura

A CURA DI FRANCESCO DI NUOVO E ROBERTO MANCIOCCHI La rubrica Invito alla lettura propone indicazioni in merito ai contributi più attuali e significativi della psicoterapia con uno sguardo attento agli attuali sviluppi del pensiero teorico; sarà ovviamente presente una forma di dialogo con la letteratura, la filosofia, le neuroscienze e le arti. La rubrica sarà, a seconda dei numeri, completata da una sezione di recensioni, nella quale alcuni psicoterapeuti commenteranno le più interessanti novità del panorama italiano e internazionale.

Commento a: Christopher Bollas “Se il sole esplode. L’enigma della schizofrenia”

Christopher Bollas Se il sole esplode. L’enigma della schizofrenia
Raffaello Cortina, Milano 2016
Trad. it. di Paola Merlin Baretter

Trovo estremamente stimolante poter presentare il lavoro di un clinico ‘pensante’ come Christopher Bollas che – con i suoi testi già pubblicati in passato ma, in particolare con quest’ultimo, appena uscito per Raffaello Cortina – dimostra, a mio modo di vedere, di essere uno dei più grandi psicoanalisti contemporanei.

Qui Bollas non strizza l’occhio a nessuna ‘scuola di psicoterapia’ particolare né, tantomeno, a una presunta ‘scientificità’ della psicoterapia ma, al contrario, cerca faticosamente e coraggiosamente di evidenziare quanto il lavoro psicoterapeutico con pazienti diagnosticati come ‘schizofrenici’, possa risentire troppo facilmente dell’attuale clima unilateralmente riduzionistico che riporta, a volte fanaticamente e irriflessivamente, lo psichico al cerebrale.

Il suo linguaggio trasporta chi legge in una condizione che assomiglia a una supervisione con uno psicoterapeuta esperto, che grato alle idee dei propri maestri, ne alimenta in profondità le intuizioni, le ridiscute e le rinnova alla luce del confronto con quelle particolari personalità che si trova ad incontrare nella sua attività quotidiana. Chi legge non può che rincuorarsi di fronte al tentativo di riportare una lunga esperienza che mostra la possibilità di uscire fuori da quello che appare come un automatismo ormai consolidato che, sempre più spesso, scatta nel trattamento delle psicosi: diagnosi, presa in carico farmacologica, contenimento in una struttura più o meno efficiente, il tutto condito con un sentimento di inevitabile ‘rassegnazione distanziante’ che volente o nolente finisce per isolare il paziente, anche quando (per un esordio precoce in adolescenza, ad esempio) potrebbe essere fondamentale trovare ascolto in un terapeuta disposto a una lunga, paziente, accoglienza.

Nella prima parte del testo Bollas tenta proprio un’operazione opposta a questa: riapre fenomenicamente lo spazio del problema schizofrenico sottolineando alcune importanti differenze come quella fra ‘follia’ e “psicosi”, con parole sue:

«Gli schizofrenici sono psicotici ma non sono folli. In generale la follia li spaventa moltissimo e possono addirittura diventare fobici rispetto alla possibilità di venire in contatto con essa (…) Gli scritti di Sofocle o Shakespeare non parlano di psicosi, bensì di follia (…) follia fa riferimento al crearsi di una situazione caotica provocata dall’acting-out di fantasie inconsce ».[1]

L’autore ci riporta così alla possibilità di presa in carico attraverso una talking cure non caratterizzata da ‘onnipotenza incosciente’ ma da una dolorosa coscienza (umanisticamente orientata) del fatto che la terapia non arriverà mai a celebrare un punto di arrivo, o il raggiungimento di una presunta ‘normalità’ ma potrà condurre il paziente (e il clinico) a rivedere una serie di assunti che caratterizzano la loro condizione umana. A partire da tale presupposto Bollas ci regala immagini dense della misteriosa e sfaccettata angoscia che questi pazienti provano così come le loro più ricorrenti strategie volte a tenerla a bada, affannandosi a costruire e ricostruire una nicchia di sopravvivenza in un mondo percepito soprattutto attraverso i sensi e non mediato dalla quell’insiemi di convenzioni che la cultura occidentale chiama ‘mente’.

In una seconda parte l’autore tenta un’impresa forse pretenziosa: quella di affrontare la problematica schizofrenica da un punto di vista teorico (impresa decisamente improba data la vastità della letteratura in merito anche se l’autore fornisce, in coda al suo libro, una bibliografia ragionata di radicale utilità).

In ogni caso la sua attenzione non può che essere, in tal senso, selettivamente orientata; in particolare si dirige verso la costituzione della particolare soggettività schizofrenica, verso la possibilità di comunicazione con una tale soggettività e, soprattutto, verso quella particolare capacità di «protezione della propria residua individualità» che lo schizofrenico porta avanti attraverso il riporre negli oggetti (animati e inanimati) proprio quelle funzioni che sarebbero in grado di consentirgli di «mentalizzare»[2].

La struttura dell’Io – dice Bollas «è una forma di memoria profonda […], la posizione parlante del sé». Alla sua organizzazione, alla sua grammatica, concorrono sia gli elementi ereditari che quelli ambientali, i processi istintuali insieme alle cure, alle regole, alle mancanze che vengono dai genitori, in una dialettica costantemente rivolta alla realizzazione di un compromesso. Così, via via, l’esperienza di questi negoziati si trasforma in sapere, si iscrive nell’Io come una sua traccia costitutiva ma questo – sostiene l’autore seguendo la traccia di un suo precedente testo[3] – non equivale a dire che il bambino sia del tutto capace di darsene una rappresentazione mentale, ovvero di pensarlo. Quando si verifica uno scompenso psicotico, la soggettività perde la capacità di trasformare l’esperienza in una narrazione, sia perché la mente schizofrenica smarrisce la possibilità di storicizzare e dunque di integrare le sue rappresentazioni mentali, sia perché diventa intollerabilmente dolorosa la frattura della relazione con quello che potrebbe diventare ‘passato’, facendo avvertire quella relazione come per sempre perduta. Diventando ‘schizofrenica’, una persona finisce così per generare una sorta di narrazione mitologica, nella quale la propria famiglia, gli individui più vicini, la sua stessa infanzia si caricano di significati nascosti che solo lei può svelare: il peso del dolore può venire spostato dalle esperienze vissute a un nuovo grandioso mondo inventato, di cui solo lo schizofrenico possiede la chiave. Per il terapeuta il problema centrale diviene: come comunicare con qualcuno proprio su quelle esperienze strutturanti il gioco linguistico stesso che sfumano nella sensorialità degli affetti? Bollas risponde che la terapia fondata sulla parola, incoraggiando la ricapitolazione di quanto è avvenuto nel recente passato del paziente, può porsi soltanto come obiettivo finale il ripristinare, quanto più possibile, l’egemonia narrativa dell’Io (che possa poi funzionare da collante per le parti scisse). Di fronte a una persona che sa di sapere qualcosa ma non l’ha ancora elaborata così da poterla pensare, l’analista dovrà funzionare in prima battuta (e per lungo tempo) solo da «costruttore di ricordi», dovrà cioè riallacciarsi a quei resoconti fattuali, cognitivamente registrati, per prendere su di sé quella funzione trasformativa del dato, di bioniana memoria, capace di conferire ai fatti un «passaggio per il cuore», consentendo al paziente di ri-cordare.[4] Tanto più preziosa, quindi, la testimonianza di chi sa quanto sia importante che il terapeuta si presti in una prima fase temporalmente indeterminabile, a farsi usare «come oggetto», lasciando inizialmente libero il paziente di «installarsi» nella sua mente ed esponendosi, di conseguenza, a quella esperienza drammatica che consiste nel restare presi nell’idioma del paziente, tollerando di non sapersi orientare, di non sapere dire chi si sia, e dove, nella relazione.

A partire da tali premesse, la terza parte conclude il testo attraverso il tentativo di descrivere un operare che tenta in tutti i modi di arrestare la caduta schizofrenica. Il lettore viene così condotto ‘nella carne’ dell’attività psicoterapeutica con la sensazione di essere sempre accompagnato dalle idee fondamentali di grandi maestri (W. Bion, H. Searles, D. Winnicott, M. Khan, per citarne qualcuno) non attraverso citazioni più o meno evocative ma attraverso sketch clinici nei quali traspare il modo in cui Bollas si pone di fronte al suo paziente, il modo in cui ‘trasforma’ l’esperienza in corso e il modo in cui arriva (o non arriva) a condividerla con la persona davanti a lui. Così, numerosi sono i riferimenti autobiografici, gli spaccati di vita quotidiana, le coraggiose aperture dello spazio analitico all’occhio critico del lettore riportati, non casualmente, dall’autore. Non a caso, credo, il saggio si conclude con una riflessione sulla vita e l’opera di W. Butler Yeats che sembra addensare, in un’immagine poetica, il tentativo portato avanti durante tutto il libro: quello di riflettere sulla condizione schizofrenica prendendo come punti fermi di riflessione l’affettività, il pensiero embrionale e il linguaggio (se è lecito separarli):

«La risoluta e strutturata disciplina della poesia consente ad alcune persone dotate di calarsi nelle profondità dell’immaginario e di riemergere attraverso forma e linguaggio in modi che ci consentono, leggendo, di fare esperienza delle strutture profonde della nostra esistenza. Forse noi siamo ‘normali’ soltanto perché abbiamo trovato il modo di denegare o scindere le immagini e le idee inquietanti, di liberarci di esse ».[5]


Note:

  • [1] Ivi, p. 23.
  • [2] Credo che il riferimento non dichiarato di Bollas in merito sia il concetto di «mentalizzazione» portato avanti da autori come P. Fonagy. Per approfondimenti vedi: Bateman A., Fonagy P. Il trattamento basato sulla mentalizzazione, trad. it. Raffaello Cortina, Milano 2006.
  • [3] Bollas C. L’ombra dell’oggetto. Psicoanalisi del conosciuto non pensato. Trad. It. Borla, Roma 1989.
  • [4] Il riferimento è alla funzione alfa bioniana, per approfondimenti vedi:  Bion W. R. Apprendere dall’esperienza, trad. it. Armando, Roma 1973.
  • [5] Bollas C. 2016 cit., p. 168.

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