
2015 Numero 4
Autenticità in analisi: cifre di aspetti extra transferali e controtransferali
La pratica analitica ruota su due mastodonti concettuali di gran densità, simulacri che meglio descrivono, anche nell’immaginario collettivo, quel mondo di esperienze che denominiamo con transfert e controtransfert.
Dopo strati geologici di autorevole letteratura sull’argomento, è sicuramente un atto di pura ignoranza avventurarsi in una riflessione a riguardo. A maggior ragione se l’unico contributo da offrire sono solo interrogativi, pur espressione di una traccia di esperienze cliniche che hanno lasciato dubbi e incertezze e su cui si è provato a ragionare una volta guadagnata una distanza temporale sufficiente.
Nel rivendicare uno sforzo a-teorico proprio di un’intenzione più osservativa e impressionistica, si perdonerà tanto l’emozione quanto i limiti nella chiarezza di quanto proposto.
Si partirà da una constatazione: l’inadeguatezza (teorica e clinica) di fronte alla sofferenza altrui. Non è casuale nella pratica analitica il riferimento sempre più frequente all’improvvisazione, quale modalità considerata più adatta a mostrare rispetto per le aree buie, abissali e d’incomprensibilità che del paziente c’interrogano. Naturalmente quest’arte dell’improvvisare indicherebbe quel nascere di uno stile, di un modo, di un atteggiamento analitico del terapeuta che sospende tutto ciò che ha appreso in precedenza in termini di stili, modi e atteggiamenti formali e da manuale, per abbracciare il proprio sé analitico, in una libertà di manovra il più consapevole possibile, in ogni caso mai priva di tensione e responsabilità.
La dura realtà ci dice però che nella clinica del disagio mentale ci si muove spesso tentoni e proprio per questo il senso di responsabilità assume intensità a volte soverchianti.
Rispetto a questi momenti, sembrerebbe ineludibile, oltre a riconoscere e comprendere la grande utilità del proprio controtransfert al fine del trattamento, parlare di autenticità.
Ammesso che si arrivi ad una definizione condivisa e univoca di ciò che si può chiamare autentico, proviamo a precisare, affinché il termine non rimanga in balia solo del buon senso.
Possiamo chiederci se autenticità nella cornice analitica alluda alla condizione classica in cui il paziente aderisce fedelmente alla regola fondamentale di dire sempre tutto, senza nascondere nulla, offrendo sogni da analizzare. Per l’analista invece, nello svolgimento della sua funzione finzionale, autenticità consisterebbe nella ricerca continua di un assetto mentale tale da promuovere consapevolezza, volto al chiarimento e collegamento di temi rimasti in ombra nella vita del paziente.
Sebbene quanto appena detto rimanga di imprescindibile importanza, l’impressione che sia insufficiente e che occorra un riferimento che si ponga anche al di fuori del contesto di cura quale tema extra-analitico è forte.
Il tema dell’autenticità in analisi presenta la sua problematicità e forse utilità in molti modi, e si accompagna spesso all’onestà del proprio atteggiamento verso una serie di esperienze di cui si proverà a dire.
Un piccolo richiamo alla storia della psicoanalisi ci aiuterà in questo scopo: C.G. Jung seppe comprendere meglio di altri e per primo, cogliendone tutta la sua irriducibilità, l’essenza dell’esperienza analitica quale «‘procedimento dialettico’, un dialogo, un confronto tra due persone» (Jung C.G., 1935, p. 7). Colpisce nell’umiltà della sua posizione il rifiutare l’iper- strutturazione di tanta psicoanalisi della sua epoca e di quella che ne sarebbe seguita, sebbene egli non abbia sottovalutato la straordinaria complessità che un confronto fra due persone sempre implica.
Oggi quest’evidenza è teoricamente accettata anche dagli sviluppi più proficui della psicoanalisi quando considera il fenomeno di transfert un’espressione relazionale conseguenza di un rapporto interpersonale tra terapeuta e paziente e non solo o soprattutto, un rivivere nel presente esperienze passate.
Esso è un indicatore tanto del comportamento e della tecnica del terapeuta quanto del comportamento del paziente. È dunque un fenomeno vivo ben lungi da un semplice metodo e dal poter essere ridotto a qualcosa di facilmente conoscibile. Così come il controtranfert non viene più considerato la cenerentola dell’analisi.
In questa esperienza che l’analisi induce ci si confronta, infatti, con percezioni del paziente che riguardano aspetti reali del terapeuta, spesso non facilmente eliminabili o controllabili, pena un atteggiamento fobico verso i propri sentimenti e stati d’animo, con un inevitabile irrigidimento e distacco dal proprio operare.
Il paziente può cogliere l’umore e la disposizione d’animo del terapeuta, talvolta i pensieri del momento, alcuni gusti e preferenze, timori, l’attitudine o meno ad annuire in risposta ai diversi temi proposti, il suo disappunto sebbene dissimulato, la posturalità in genere, lo sguardo e la motilità degli occhi e altre idiosincrasie che contribuiscono a costituire il clima di ogni seduta. Di contro, ogni scostamento da questa grammatica verbale-posturale mediamente prevedibile dalle antenne del paziente, viene annotato e ha un suo peso specifico nel processo. Nel bene come nel male.
Le percezioni che riguardano tutti questi aspetti non possono essere ridotte a creazioni né tanto meno a proiezioni del paziente. Colgono in pieno alcuni aspetti della personalità del terapeuta e si fanno veicoli d’informazioni cosiddette private e per questa ragione si fa fatica a pensare la relazione analitica nei termini dei soli confini tracciati dal transfert-controtransfert. A meno che non si sia pronti ad ammettere che essi coinvolgono un processo che, una volta attivato, sfugge ai recinti convenzionali di tempo e spazio. Questo pone un problema extra-analitico che chiama in causa l’intera vita del terapeuta, anche in quanto uomo. Il problema dell’autenticità a questo punto, sembra pienamente coinvolto.
Non sarà certamente casuale rinvenire nel testo junghiano questa sensibilità vivissima per la contagiosità che il processo analitico comporta. Ne capiamo bene anche il perchè: l’esperienza analitica è un’interazione in cui, specie nelle situazioni estreme, si è così spesso toccati nelle proprie debolezze e paure che, nonostante le analisi personali, le supervisioni e lo studio delle teorie, non è mai possibile pienamente controllare né sconfiggere. Anche quando le si riconosce chiamandole per nome, in particolari circostanze analitiche, riemergono con tutta la loro forza, lasciandoci senza strumenti analitici.
Sono momenti di buio, dove si teme di non farcela nel compito, di non poter reggere oltre; a volte è il corpo del terapeuta con le sue reazioni fisiologiche a sopravanzare qualunque sforzo di ricondurre a significazioni il solo pensiero di quel paziente o durante una particolare seduta. Una volta salutato il paziente, dietro la porta che si chiude si apre una lunga digestione che pervade anche la vita dell’uomo oltre che del professionista.
Il rammarico di Freud provato per l’equazione personale dell’analista e l’auspicio dell’eliminazione del suo controtransfert non ci meraviglia neanche oggi che le acquisizioni teorico-cliniche hanno fatto impallidire l’idea del fondatore, ma rende ancora bene la misura della fragilità e pericolosità del nostro fare e dire, che volendo dialogare con l’inconscio al tempo stesso lo teme.
In queste occasioni si sente la necessità di un sostegno anche emotivo, che si corre il rischio di tacitare troppo facilmente ricorrendo ad un nuovo ragionare o a un surplus di teorie da assimilare, a qualche mancanza tecnico-teorica da colmare, risolta la quale permetterà finalmente l’applicazione di un metodo affidabile.
Di là dall’indubbia utilità nel disporre di un’ampia e flessibile scelta tecnico-concettuale, rimane un’illusione pensare che sotto la protezione dello scientia est potentia, si possa rasserenare il turbamento del contatto con il disagio profondo dell’alterità del paziente e dei suoi patimenti.
Si è esposti alla propria solitudine e al confronto con la paura del paziente che lentamente si sovrappone alle nostre e comincia un lento trascinamento là dove c’è meno luce.
Esistono, naturalmente, anche altre attitudini psicoterapeutiche, più inclini ad una manipolazione retorica del linguaggio utilizzato, attraverso un uso strategico di esso e dei suoi giochi, al fine di guidare, convincere, e in definitiva ricondurre il paziente a controllare quegli aspetti morbosi sfuggiti di mano, che si son automatizzati; oppure approcci in cui l’autorevolezza del curante esercita un forte potere suggestivo: in questi approcci il distacco da chirurgo (altra metafora usata da Freud stesso) può essere più facilmente realizzato. Così come la disparità di potere esercitata.
Anche in questo caso, sembrerebbe il senso d’inadeguatezza a spingere verso un’idea forte, più direttiva, di cosa dovrebbe succedere in terapia, sancendo inequivocabilmente il disequilibrio tra le due figure coinvolte; e in ultima analisi appare che le ragioni siano tutte da una parte, quella di chi cura, attraverso ciò che sembra una negazione del peso e della tristezza che questo lavoro comporta e dove il focus è centrato per lo più sul come del paziente, trascurando, quando parzialmente se non del tutto, il suo perchè.
Qui si pone una scelta personale che riguarda il percorrere o meno una via più schermata, più rischiosa, che può portare ad una non indolore ridiscussione della propria idea terapeutica in funzione della sofferenza altrui, oppure una, in parte, placida accettazione del modello medico.
D’altra parte, nella psicoterapia analitica non si può fingere, pur volendo, di ridurre l’analista a una mera funzione poiché sappiamo quanto la sua personalità sia tutta coinvolta nel processo, né che lo sbilanciamento di potere tra le due figure in gioco sia così ovvio come si vorrebbe credere.
Sarà certamente capitato di aver provato un senso di insofferenza di fronte alla necessità formale di disparità di status che la condizione analitica quasi prescrive come necessaria; se non altro per giustificare il compenso per il lavoro prestato che rinvia ad aspetti più pratici e quantificabili.
È una tensione questa che, a prima vista, non si avrebbe difficoltà a collocare nella sfera della moralità e forse lì confinarla. Ma poi sconfina continuamente nel lavoro analitico. Ars totum requirit hominen; sopratutto quando l’opus è arduo.
Autenticità è anche il domandarsi che tipo d’uso stiamo facendo del potere attribuitoci, senza che questo sia accettato come condizione scontata, impedendo che accechi la nostra sensibilità a riconoscere nel paziente, sebbene sofferente, più ragione di noi, o quando la sua intuizione si riveli più profonda della nostra, così come la sua sensibilità.
Occorrerebbe anche considerare sempre a quali radici culturali l’analista attinge nel confrontarsi con l’alterità spesso spiazzante dell’altro: una cultura urbana e metropolitana avrà difficoltà a comprendere una cultura contadina e viceversa, così come le differenze di ceto sociale. Queste premesse potrebbero tradursi in un dis-allineamento, in un ostacolo all’ascolto se non attentamente considerate, comprese e sentite.
In questi momenti occorre anche il coraggio di dismettere il proprio arrocco teorico, le proprie consuetudini affettive attribuite agli altri e direi anche le barriere linguistiche, per tornare al genuino dialogo tra due individui, ad imparare dal paziente, affinché quello che facciamo non si riduca ad una simulazione iper-realistica di un atteggiamento analitico.
Un altro momento che coinvolge il tema dell’autenticità, è l’esposizione di una storia clinica. Sappiamo quanto sia delicato e complicato riuscire a rendere in minima parte agli altri cosa davvero sia successo, ma sopratutto rendere conto, anche a se stessi, di come ci si sia ritrovati ad andare dove non si voleva, dei propri errori, degli intensi conflitti sperimentati, delle incertezze che il paziente ha sollecitato e di come i ferri del mestiere si siano rivelati puntualmente insufficienti. È indubbiamente anche una questione di pudore personale, per quanto ci si sforzi nel produrre una comunicazione scientifica, sapendo che in ogni caso ci si espone al giudizio, si spera genuinamente disinteressato, della propria comunità scientifica di riferimento. A tale proposito, non si può nascondere una punta d’incredulità rispetto a quanto si legge da autori di fama internazionale, i cui resoconti clinici talvolta trovano una difficile rispondenza nella pratica analitica. È come se si continuasse a dire quello che sappiamo fare e molto raramente quello che non sappiamo fare che invece rivestirebbe un’enorme importanza per il miglioramento del lavoro.
Così anche senza scomodare Freud e Jung, nel ritornare a ciò che non ha funzionato, che ci ha lasciato in dubbio e perplessi, si è tentati di aggiustare, migliorare quelle descrizioni che riguardano forse più il paziente, trascurando lo sguardo su se stessi, anche ricorrendo a qualche mirabile carpiato teorico per spiegare quello che non abbiamo capito né all’epoca né poi e che spesso rimane velato ma pur sempre ferita aperta.
Oppure siamo pronti a seppellire una situazione indigesta dietro qualche definizione, sperando di trovare nel linguaggio l’ancora di salvezza; frasi come ‘il paziente non ha retto’,’non era pronto’, hanno più che spesso una credibile fondatezza, ma va anche riconosciuta quanto faticosa sia la disponibilità ad esercitare il beneficio del dubbio sul proprio lavoro.
Ad un’attenta riflessione forse ciò che sembra più evidente è ancora una volta questa relazione fra potenza e impotenza, fra possibilità e limite, fra dicibile e indicibile, in uno sforzo continuo di semplificare per comunicare, per capire. La percezione della complessità del lavoro e il senso d’inadeguatezza che ne segue tuttavia rimangono sempre.
Torniamo di nuovo ad esempi più illustri: quante volte si elogia nella letteratura junghiana, lo Jung che incoraggia a non vergognarsi della ferita del medico, dei sentimenti provati, del medico colto in fallo dal paziente la cui onestà diviene strumento di cura dell’altro? Che fine fanno queste inconfessabili, coraggiose verità nelle esposizioni cliniche, dato che questa fragilità e inadeguatezza dell’analista puntualmente scompare dietro edifici teorici solidissimi e know-how di provata efficacia?
L’analisi didattica, fortemente voluta da Jung, serviva certamente a superare i nuclei complessuali e conflittuali del futuro analista ma non aveva la funzione di normalizzarne e uniformarne l’atteggiamento, tanto meno spingerlo a temere fobicamente i propri sentimenti o reazioni.
Qualora s’inciampasse nell’esperienza di un transfert negativo, apparentemente giustificato dal non aver incarnato un ruolo atteso dal paziente, per un presunto abuso di autenticità personale sentita come imprescindibile modalità di lavoro, si sperimenterebbe anche il limite al trattamento allorché l’avvicinamento del terapeuta viene interpretato come una minaccia piuttosto che opportunità di cambiamento. Laddove invece, una maggiore prevedibilità dell’analista, consistente nell’incarnare la figura diffusa dalla vulgata psicoanalitica, spaventasse meno il paziente, ci si potrebbe interrogare sulla classica opacità del terapeuta, esemplarmente condensata dalla modalità del rispondere ad una domanda scomoda con un’altra domanda che pur tanto disappunto scatena, o nel procedere analizzando principalmente sogni, quale modalità preferibile per garantire il benessere di chi chiede aiuto.
In fondo bisogna porre una grande attenzione a quelli che sono i bisogni di chi soffre psichicamente, anche quando questi sono espressi nelle forme più difensive come fuoco di sbarramento per congelare o disinnescare il lavoro.
Forse, nei casi più gravi, è giusto mettere da parte profonde convinzioni personali per provare ad essere un semplice strumento in mano al paziente. Uno svuotamento personale per guardare fino in fondo dentro il disagio dell’altro. Un fare davvero spazio. Più facile a dirsi che a farsi, purtroppo.
Così l’ineliminabilità dell’equazione personale è davvero una risorsa problematica, specie quando il paziente è a conoscenza di quelle regole ritualizzate che trovano nel distacco affettivo, nell’analogia dello specchio, nella neutralità dell’analista, le sue figure più note.
Forse è opportuno chiedersi dove può essere cercata una cultura e poi una consuetudine di atteggiamento all’umiltà, alla prudenza, al rispetto per tutto ciò che non capiamo dell’altro e di noi. O risolviamo tutto questo sempre con la solita onnivora volontà di potenza dello spiegare più che comprendere? La nostra posizione di curanti contempla questa possibilità fino in fondo, nella cornice ambigua che va sotto il nome di professionalità?
Certamente non si può dubitare della necessaria finzionalità della funzione analitica, ma ci si può chiedere quale ne sia il limite. La neutralità del terapeuta allora è un mito che indica una prospettiva a cui aspirare o è un autoinganno analitico?
Probabilmente all’insuccesso terapeutico non si dedica abbastanza attenzione né comprensione. Si congeda l’insuccesso come frutto di una mancata adesione ai principi guida senza chiedersi criticamente se essi stessi siano il frutto di una serie di sconfitte terapeutiche, tuttavia occasionalmente raccontate, poco condivise e quindi mai meditate.
Eppure è nelle parole di Freud stesso che troviamo ammissioni essenziali, secondo cui la tecnica analitica « non può neppure apprendersi nei libri e certamente non la si può scoprire da sé senza molti sacrifici di tempo, sforzi e di insuccessi.» (Freud S., 1910, p. 435). Jung è ancora più esplicito a riguardo: «Durante la mia pratica quasi trentennale di psicoterapeuta, ho totalizzato un numero considerevole di insuccessi, che mi hanno colpito più dei successi. Chiunque […] può riportare in psicoterapia successi, dai quali però apprende poco o niente perché servono principalmente a confermarlo nei suoi errori. Gli insuccessi invece sono esperienze estremamente preziose, in quanto non soltanto ci aprono la via verso una verità migliore, ma ci costringono altresì a mutare metodi e punti di vista». (Jung C.G. 1929, p. 47)
Forse, così come nella teologia esiste la branca negativa che procede nel demolire tutto ciò che Dio non è, facendo da contraltare alla sfrontatezza di un sapere che Lo definisce per affermazioni, occorrerebbe una teoria negativa della cura, che non è semplicemente l’inverso dell’altra.
Tuttavia, c’è del buono in questo scacco: la prometeica ambizione analitico-retorica getta la sua maschera e l’innocenza delle intenzioni viene sconfessata.
Perché l’esperienza analitica rimane luogo antinomico per eccellenza, dove le direzioni intenzionali non sono univoche e dove i partecipanti sono ad un tempo contemporaneamente soggetto e oggetto.
È un processo conoscitivo paradossale e se funziona, quando funziona, è perchè il suo valore giace sull’ardire di com-prendere la complessità incommensurabile della psiche umana e non semplicemente suoi aspetti parziali.
BIBLIOGRAFIA
- Thomä H. e Kächele H. (1985), Lehrbuch der psychoanalytischen terapie, trad. Trattato di terapia psicoanalitica, Boringhieri, Torino 1996.
- Jung C.G. (1958), Praxis der Psychotherapie, trad. Pratica della psicoterapia, Boringhieri, Torino 1993.
- Freud S. (1910), Zur ‘wilde’ Psychoanalyse, trad. La psicoanalisi selvaggia, in Opere 1905-1921, Newton Compton, Roma 2004.
- Baudrillard J. (1981), Simulacres et Simulation, trad. Simulacra and simulation, The University of Michigan Press 1994.