
2013 Numero 2
Assenza di vita, assenza di morte. Il rischio della vita psichica
Colpito dalla natura astratta dell’assenza; e tuttavia è bruciante, lacerante.
Il che mi fa capire meglio l’astrazione: è assenza
e dolore, dolore dell’assenza – forse dunque amore?
Roland Barthes, 2009, p. 44
Il vuoto e l’assenza
Vorrei iniziare questo intervento con una definizione del termine assenza a partire dal linguaggio ordinario, linguaggio che è, per lo più, il punto di partenza che prediligo per impostare un argomento: poiché se, come diceva Austin, il linguaggio ordinario non è certamente l’ultima parola, esso è però la prima e serve egregiamente nei casi della vita, molti dei quali sono difficili e complessi. E dunque anche se l’assenza è, per il pensiero filosofico e scientifico contemporaneo, un argomento con le corna, come invece direbbe Jung, credo che chi lavora nell’ambito della talking cure, sia pure con teorie della mente estremamente sofisticate, non possa sottrarsi a una ricognizione almeno iniziale dei modi in cui il linguaggio ci presenta le cose di cui ci occupiamo.
Nel linguaggio ordinario, l’assenza non è il vuoto, e non è neanche la mancanza, anche se con questi due concetti è strettamente imparentata. Se cerchiamo la sua definizione su un dizionario, troviamo che per assenza si intende esser lontani da un luogo dove si dovrebbe essere o si è abitualmente, e che il suo contrario è presenza (1).
Stando a questa definizione, l’assenza ci rimanda dunque a un antefatto, cioè a qualcuno, o a qualcosa, che è stato in un luogo dove ora non è più: l’assenza è propriamente la condizione che resta là dove egli, o esso, non è più. E dunque, se passiamo a esaminare l’area semantica e il valore più specificamente psichico dell’assenza, troviamo che questi si connotano intorno alle conseguenze della perdita, alla complessità della sua evoluzione, alla difficoltà a fare i conti con i suoi resti. Conseguenze che, con una semplificazione anticipatoria che ci porta però nel cuore del problema, potremmo provvisoriamente individuare in una modalità decisamente catastrofica (cioè nell’impossibilità che si possa psichicamente realizzare la percezione di una condizione di assenza, oppure nella genesi di un vuoto deficitario nel luogo dell’assenza), e in una modalità elaborativa (cioè nella comparsa, in quello stesso luogo, di una serie di fenomeni elaborativi della perdita, che condurranno —questa è la tesi che vorrei appoggiare—alla nascita delle immagini e della vita immaginativa in genere). Cioè, intendendo quest’ultimo passaggio nel linguaggio specifico della tradizione psicoanalitica, essi condurranno all’elaborazione del lutto, ovvero alla capacità di avere a che fare con la perdita attraverso il fantasma. Ed è soltanto in riferimento a questi ultimi fenomeni che si configura specificamente la dimensione e la valenza psichica dell’assenza.
Risulta dunque subito evidente, già da questa prima ricognizione, che quando parliamo di assenza stiamo già connotando in senso favorevole l’evoluzione della perdita; di contro, quando abbiamo a che fare con quei fenomeni catastrofici, di troppo-pieno o di troppo-vuoto, ci stiamo muovendo nell’ambito di lesioni gravi dello psichismo, delle quali la psicopatologia, psicoanalitica e fenomenologica, si è largamente occupata, poiché si riconnettono a quei fenomeni psicotici, deliranti o melanconici, collegati con l’impossibilità di elaborare la perdita. La madre che apparecchia la tavola per il figlio morto, la fidanzata abbandonata che prepara il corredo per il suo prossimo matrimonio sono esempi classici della negazione, che conduce a rinnegare un pezzo di realtà —la realtà dell’assenza— riempiendo con il troppo-pieno del delirio l’intollerabile e irrappresentabile troppo-vuoto della perdita. Altrimenti, ma in modo forse ancor più tragico, il permanere del buco vuoto come attrattore caotico del pensiero distrugge inesorabilmente la possibilità di insediare alcunché nel luogo della perdita, impedendo —come scrive lucidamente Giuseppe Martini nel suo ultimo libro, al quale rimando per un approfondimento di questi fenomeni psicotici— di trasformare il vuoto in assenza (Martini G. 2011, pp 74-96). In questi casi, dunque, lo spazio dell’assenza non si costituisce proprio, dal momento che la perdita lascia, al posto dell’oggetto, un buco pieno di vuoto che attrae, imprigiona e lede profondamente la soggettività, impedendo ogni suo movimento e incollandola ai suoi morti. E a questo vuoto mortifero, alla sua potenzialità erosiva della soggettività, alla sua capacità di impedire la costituzione della dimensione psichica dell’assenza sono dedicate molte ricerche e molte teorizzazioni attuali, su patologie che sfidano le classificazioni psicodinamiche strutturali con le quali siamo abituati a confrontarci, su quelle che alcuni hanno definito figure del vuoto —melanconie e neomelanconie, anoressie, bulimie, dipendenze— nelle quali risulta evidente che il danno nella costituzione della soggettività non è semplicemente legato alla perdita di un oggetto, quanto piuttosto alla perdita del legame vitale con l’essere. Come scrive Jaques André, specificando con chiarezza la differenza tra genesi del vuoto e genesi dell’assenza, in questi casi si configura una perdita « “non dell’oggetto, ma dell’essere, un’emorragia di sostanza vitale: l’oggetto-madre è il correlato dell’assenza, l’essere-madre quello del vuoto”» (2).
Vale forse la pena di specificare che il vuoto caotico di cui stiamo parlando non ha niente a che fare con altre accezioni più creative, originarie o generative (il vuoto alla Bion, per intenderci), e neanche con il vuoto come discontinuità dell’essere. Si tratta piuttosto di un caso particolare tra le molteplici valenze polisemiche del termine vuoto (il vuoto è meglio detto al plurale, poiché come dice Lucio Russo, è una figura cangiante, i vuoti sono più esercizi di stile che oggetti di teoria (Ivi p.105): un caso in cui al vissuto soggettivo del sentimento di vuoto corrisponde una sorta di amputazione della funzione psichica generativa della capacità di allontanarsi dal morto. Si tratta dunque di un paradossale vuoto-pieno, che potremmo considerare la conseguenza di una deiezione del lutto, di un fallimento che, per utilizzare una splendida espressione di tanti anni fa di Ernesto De Martino, non consente di far passare i morti con ciò che passa, non consente cioè di consegnare al passato la perdita liberando con ciò lo spazio intersoggettivo. Resta però a caratterizzare questa specifica modalità il suo essere un antonimo dell’assenza, un vuoto cioè che si oppone all’assenza: e credo sia altamente significativa la ricorrenza, in psicoanalisi, di molte figurazioni che, riprendendo la freudiana antinomia tra melanconia e lavoro del lutto, la reiterano in ambiti concettuali differenti: basti citare la lacaniana opposizione tra vuoto forclusivo e vuoto del lutto, o la bioniana distinzione tra nothing e not-thing (3).
Viceversa, quando riusciamo ad avere a che fare —nel pensiero, nel linguaggio o nel sentire— con l’esperienza dell’assenza siamo già in una condizione molto elevata del funzionamento umano, direi addirittura con la condizione più sofisticata e specifica dell’animale uomo: con quella capacità cioè che ci consente di perdere e di sopravvivere alla perdita dei nostri oggetti d’amore, non morendo, o almeno non morendo del tutto, con essi, ma sentendo fino in fondo la loro assenza e trasformando i nostri legami con essi in tracce che ci conducono altrove. Stiamo parlando ovviamente del freudiano lavoro del lutto, e del destino itinerante della pulsione che riconosce la contingenza degli oggetti: ma, in modo molto più profondo, stiamo parlando del legame inestricabile tra la morte e la vita, della struttura costitutiva della temporalità per la nostra esistenza, del radicamento di ogni forma di creatività nella perdita della presenza e del legame simbiotico con gli oggetti. In questo senso, l’esperienza dell’assenza contiene in sé il germe della nascita psichica, di quel passaggio cioè che consente di sostituire il legame fisico-percettivo con l’oggetto con il gioco rappresentazionale intrapsichico, aperto e infinito, nonché di evocare oggetti irrevocabilmente perduti attraverso la parola, liberandosi da ogni forma di concretezza indicativa, e da ogni presenza oggettuale, attraverso l’astrattezza dei segni. Proprio in questo senso, già molti anni fa Pierre Fédida aveva riconosciuto nell’assenza la condizione fondamentale della vita psichica, nonché la dimensione specifica dell’analisi. In apertura di L’absence —il libro in cui ha espresso nel modo più incisivo una concezione dell’assenza derivante dalla sua esperienza di psicoanalista ma specialmente dalla sua formazione fenomenologica a contatto con figure quali Binswanger, Tatossian, Tellenbach, Maldiney e Kuhn— egli esordisce dicendo che << L’assenza dona un contenuto all’oggetto e assicura all’allontanamento un pensiero» (4). Ma, si affretta subito ad aggiungere, a questa assenza non si può dare un nome, non si può trasformarla in un’ assenza di, poiché essa è priva di un contenuto che possa essere reso oggetto di pensiero, è senza tempo né luogo, estranea a ogni tentativo di sistematizzazione, costituendosi piuttosto, e perennemente, al negativo come conoscenza mancata.
Fédida dunque, esaltando il valore negativo dell’assenza, ne parla proprio come dello spazio intersoggettivo, generativo, in cui si libera la possibilità di avere a che fare con una traccia non rappresentazionale, inesausta, dell’oggetto perduto: una traccia capace di alimentare il movimento psichico, agendo come un pungolo che stimola alla formazione di rappresentazioni. Una traccia che, nel suo rimanere perennemente allusiva, si apre un percorso attraverso quelli che Fédida definisce gli strati sordo-muti del linguaggio; una traccia che, fornendo soltanto un sentore del passato da cui proviene e al quale non appartiene, consente di dischiudere quella dimensione di presente reminiscente, caratteristica dell’analisi, nella quale propriamente la condizione di apertura generata dall’assenza lascia emergere una capacità vitale.
Assenza di vita, assenza di morte
Il discorso dell’Assenza è un testo con due ideogrammi: vi sono
le braccia levate del Desiderio, e vi sono le braccia tese del Bisogno.
Roland Barthes 1977, p.36
Credo che dobbiamo però guardarci dal rischio di parlare in modo idealizzato dell’assenza. Personalmente sono convinta che la vita psichica si costituisca su una radicale fragilità, su una carenza irrisolvibile, e che a ogni passo, nei riguardi di un insulto o di una svolta evolutiva, si abbia a che fare con un rischio, con la possibilità del fallimento. E dunque, anche al di fuori delle aree gravemente psicopatologiche, in cui il buco vuoto impedisce la costituzione dell’assenza, penso che quei fenomeni irreparabili, di troppo-pieno, o di troppo vuoto, che impregnano il luogo dell’assenza siano esperienze inaggirabili nella maturazione individuale: e sono proprio queste esperienze che ci impediscono di parlare in modo idealizzato dell’assenza, e che ci confrontano invece con le dinamiche più devastanti del dolore umano. Perché se, per non morire, dal punto di vista della pulsione gli oggetti ai quali essa si lega debbono essere la sua parte più variabile e intercambiabile, per l’essere senziente la specificità dell’amore è talmente assoluta da escludere ogni sostituibilità dei suoi oggetti, nella considerazione della loro unicità e nel sentimento che la loro perdita è anche, almeno un po’, la propria morte.
Per questo, ho parafrasato nel titolo del mio intervento un celebre testo di André Green, che in fondo restituisce proprio la bipolarità rischiosa dell’esperienza psichica della perdita, quel punto chiasmatico in cui la morte e la nascita possono davvero scambiarsi il posto.
E, per rappresentare in modo un po’ enfatizzato questo rischio, vorrei avvicinare tra di loro due topoi fondamentali del pensiero psicoanalitico a proposito della perdita, due autentiche narrazioni delle origini, che hanno a che fare con quello che può capitare a un bambino nel momento in cui si confronta con la perdita della madre: la depressione anaclitica di René Spitz e il gioco del rocchetto di Sigmund Freud. Naturalmente, dal punto di vista evolutivo e clinico, queste due situazioni non hanno assolutamente niente in comune. La depressione anaclitica colpisce nel primo anno di vita un bimbo preverbale, che ha goduto di una presenza affettiva valida per i primi mesi della sua esistenza, e che viene letteralmente abbandonato, senza sostituti validi, da una madre che non torna più. Pur adeguatamente nutrito, il bimbo regredisce e lentamente muore. Ma di che muore? Sappiamo che Spitz non rinunciò a intendere questa sindrome dal punto di vista della teoria pulsionale, intrapsichica, anche riconoscendo la sua profonda diversità dalla depressione dell’adulto per l’immaturo sviluppo delle istanze egoiche e superegoiche. Pur valorizzando l’importanza della madre, che rappresenta l’intero ambiente affettivo e simbolico dell’infante, Spitz pensava che quando la carenza oggettuale rende impossibile la scarica delle pulsioni aggressive, defuse dalla libido, il lattante rivolge l’aggressività contro se stesso, l’unico oggetto che gli resta. Successivamente, dopo le ricerche di Harlow e di Bolwby, l’interpretazione delle sindromi carenziali e da ospitalismo si concentrò sui bisogni di attaccamento, sulla ricerca del calore e della morbidezza, sull’importanza del contatto sensoriale per mantenere una vitalità psicofisica. Un viraggio, questo, che ha creato non pochi problemi, e che è stato inteso come una via d’uscita dalla psicoanalisi, poiché privilegia l’ambito percettivo realistico piuttosto che la complessità rappresentazionale, oltre che una concezione psicopatologica a origine carenziale e una forma di terapia con finalità riparative, assolutamente giocata sul piano della presenza accudente del terapeuta: in sintesi, la proposta di una psiche e di una terapia piena di bisogni, ma senza fantasma. Sappiamo che Winnicott offrì una svolta decisiva nel proporre, nell’originario essere insieme della coppia madre-bambino, l’emergenza della componente affettivo-sensoriale in strettissima correlazione con quella rappresentazionale: nel volto della madre il bimbo coglie non soltanto l’immagine di sé, ma anche il sentimento di vitalità che l’accompagna. Se pensiamo da questo punto di vista all’infante che perde la madre, ci è subito chiaro che egli non perde soltanto il suo oggetto, né soltanto la protezione del caregiver: piuttosto, è come se il bimbo anaclitico andasse verso la morte per un’emorragia legata alla perdita di un organo vitale che ha in comune con la madre, un organo che consente —sulla base della stimolazione affettivo-sensoriale, mediata dagli organi di senso, visivi, olfattivi, tattili, sonori e modulata dalla tonalità affettiva— di formare delle immagini di sé basate sul sentimento vitale condiviso. E dunque, il bimbo muore perché i suoi sensi, amputati non solo del suo oggetto d’amore, ma anche delle risonanze affettive e simboliche che si formano nell’intersoggettività, gli dicono che è morto.
Di contro, il gioco del rocchetto del nipotino di diciotto mesi di Freud, anche se diversamente interpretato da ogni corrente psicoanalitica, è divenuto in generale rappresentativo della capacità di sostenere l’assenza della madre attraverso la comparsa della rappresentazione simbolica, del linguaggio e del gioco attivo: potremmo, in un’ottica winnicottiana, dire che esso rappresenta la capacità di far fronte all’assenza e di rimanere da soli attivando dentro di sé le risorse immaginative (la capacità rappresentativa della scena abbandonica), la capacità d’azione (la trasformazione del vissuto passivo dell’abbandono nell’attività del gioco) e le funzioni linguistiche (il fort-da con il quale il bimbo costituisce una rudimentale narrazione dell’evento). Tutto nel migliore dei modi, dunque, nel senso che in questo gioco, inventato da un bambino che sa trasformare la perdita in assenza, veramente sembra che l’allontanamento lasci dietro di sé la capacità di pensare, e di sviluppare la vita psichica.
Ma un altro grande maestro che si è, anche lui, recentemente assentato, Jean-Bertrand Pontalis, con la sua consueta modalità di guardare le cose della teoria con uno sguardo primariamente diretto all’osservazione delle cose della vita, in una brevissima riflessione ci consegna uno spunto per intravedere un legame molto più profondo tra la felice risposta evolutiva del piccolo Ernst e la tragedia dei bimbi anaclitici, ritrovando un intreccio di ambedue queste vicende dietro il costante tentativo umano di rispondere all’assenza. Nel prospettare l’ipotesi che nel corso della nostra vita in fondo noi non facciamo altro che ripetere all’infinito il lancio del rocchetto, cercando di fare in modo che il filo ce lo riporti qui, Pontalis enfatizza il ruolo di quel filo. « Per quanto fragile, egli scrive, quel filo è ciò che ci collega all’altro, alla vita. Se si rompe —la vita è attaccata a un filo— è la morte. Cosa avrebbe provato quel bambino se il rocchetto non fosse tornato nella sua mano? » (Pontalis J. B. 2000, p.70). Ecco che all’improvviso il gioco del bambino assume un tono più drammatico: il grido di giubilo del piccolo Ernst perde quel carattere di trionfo autocratico, autosufficiente, per mostrare il lato più angoscioso, il rischio di non farcela, di perdere l’aggancio con quella vita che non siamo in grado di vivere mai completamente in modo autonomo, in perfetta separazione. La frase di Pontalis sposta il baricentro psichico da una presunta autosufficienza del mondo intrapsichico, sostenuto dalla vita rappresentazionale, a quel tra intersoggettivo, a quello spazio della presenza umana fra sé e l’altro, definito da Bin Kimura aïda (Kimura B. 1992, p.5), in cui risiede la generatività di un autentico sentimento di sé. L’accento si sposta così sul filo, sul legame, sulle tessiture che, radicate nella paticità, ci fanno comprendere che la nostra vita rappresentazionale galleggia, si nutre e si modula sul sentimento dell’essere-con-l’altro. Per un verso tutto ciò ci conduce a riconoscere, con un Kimura ispirato da Kierkegaard, che l’io, con tutte le sue capacità, non è mai un possesso sicuro, ma è un rapporto che si costituisce continuamente e inesauribilmente nello spazio intersoggettivo dell’aïda. Ma, per un altro verso, riconosciamo in questo spostamento della capacità vitale nello spazio intersoggettivo anche la fragilità e l’esposizione di questo esistere. Per cui perdere l’altro, colui al quale la nostra sensibilità ci lega, non può non essere sentito anche come rischio di perdere la dimensione intersoggettiva da cui dipende il sentimento di vitalità del sé. Al di sotto della più evoluta, sofisticata elaborazione simbolica dell’assenza, c’è sempre un bambino anaclitico, che rischia semplicemente di morire di dolore, in quello stato di impotenza, di abbandono senza risorse, che Freud, definendolo Hilflosigkeit, riconosceva tipico della prima infanzia, ma che forse ricompare, in ogni fase della vita, a segnare indelebilmente ogni importante esperienza di perdita.
Veniamo così a riconoscere che l’esperienza dell’assenza si costituisce sempre su un punto terribilmente ambiguo, originando da una perdita in cui rischiamo sempre di perderci, o di inaugurare quel dolore insanabile nella sopravvivenza che ci consente però di continuare a vivere con i nostri morti.
Dove lei non è
Nell’ottobre del 1977, Roland Barthes perde l’adoratissima madre, con la quale aveva sempre continuato a convivere, da solo o con il fratellastro, a partire dalla morte in guerra del padre, avvenuta quando egli aveva soltanto un anno. Dal giorno della morte e per i due anni successivi, Barthes comincerà a tenere un diario del lutto, annotando su foglietti appositamente preparati i suoi vissuti. Per la prima volta, il grande intellettuale è disarmato, non esibisce in alcun modo il lutto, mentre sperimenta una sorta di dissociazione tra il suo continuare a lavorare (scrive in quegli anni il suo capolavoro, La camera chiara, dedicato alla memoria della madre, in cui sviluppa l’argomento della presenza assente nella fotografia) e uno stato d’animo desolato, abitato dalla « presenza dell’assenza, incollato ad essa» dalla consapevolezza di vivere irrevocabilmente, nell’appartamento comune, come pure in ogni altro luogo, dove lei non è (è il titolo della pubblicazione in italiano del diario).(Barthes R. 2009, p.71)
Scrive Barthes: <<Lei non c’è più, lei non c’è più, per sempre e totalmente. È qualcosa di opaco, senza aggettivo – vertiginoso perché insignificante (senza interpretazione possibile >> (Ivi, p.80).Gradualmente, Barthes nota che l’emotività passa in secondo piano, ma non il dolore: << Il mio stupore […] proviene da ciò che, a dire il vero, non è una mancanza (non posso descriverlo come una mancanza, la mia vita non è disorganizzata) ma una ferita, qualcosa che fa male nel cuore dell’amore” (Ivi, p.67). Ma sì, la mia «vita» va bene, non ho nessuna mancanza fenomenale, eppure, senza nessun turbamento esteriore, senza «incidenze», una mancanza assoluta: per l’appunto, non è il «lutto», è piuttosto la tristezza pura –senza sostitutivi, senza simbolizzazione>> (Ivi, p.146).
E proprio questa sorta di doppio binario avanza con il passare del tempo nella vita di Barthes, la sensazione cioè che, mentre la vita continua, la perdita non si ripara. Resta in questa assenza il sentimento di un che di insostituibile, irriducibile e insignificante, che può però, nel tempo, divenire sopportabile: << Mi sono sempre (dolorosamente) stupito di potere –finalmente- vivere con la mia tristezza, il che significa che essa è, alla lettera, sopportabile. Ma –forse- è perché bene o male (ossia con l’impressione di non arrivarci) posso parlarla, fraseggiarla. La mia cultura, il mio gusto della scrittura, mi danno questo potere apotropaico, o d’integrazione: io integro, grazie al linguaggio. La mia tristezza è inesprimibile, e tuttavia dicibile. Il fatto stesso che la lingua mi fornisca la parola «intollerabile», realizza immediatamente una certa tolleranza >> (Ivi, p.177).
Non c’è che il linguaggio, dunque, ad aiutare a sostenere il lutto, anche se proprio questa circostanza diviene rivelatrice dell’incapacità del linguaggio a coprire interamente l’esperienza umana, dell’impossibilità di arrivare a parlare, o a parlare direttamente, dell’assenza.<< Oh, che paradosso! A me, così «intellettuale», o almeno accusato di esserlo, a me, così fittamente intessuto di un incessante meta-linguaggio (che peraltro difendo), lei indica sovranamente il non-linguaggio>> (Ivi, p.211).
Fino a che, verso le ultime pagine del diario, una conclusione: << Non si dimentica, ma qualcosa di atono si installa in noi>> (Ivi, p.229).
Quello che colpisce profondamente in questi appunti di Barthes è la frequente ricorrenza di termini quali insignificante, non simbolizzabile, indicibile per descrivere il dolore dell’assenza, insieme alla costante rivendicazione della sua tristezza, un sentimento che Barthes rifiuta di confondere con il lutto. Questa tristezza è la semplice testimonianza di uno stato, di un sentimento vitale affondato nella corporeità, che non impedisce affatto l’elaborazione psichica (egli non è identificato al morto, né si può considerare un melanconico), ma esprime piuttosto l’insanabilità e l’insostituibilità della perdita per la vita sensibile (5). Non si dimentica, né tanto meno è possibile confondere l’impronta—quella ferita nel cuore dell’amore— lasciata nella nostra sensibilità da chi ci ha lasciato: un profumo, un timbro di voce saranno immediatamente ed elettivamente capaci di riempire d’immagini dell’assente lo spazio vuoto dell’assenza. Quel qualcosa di atono, di informe resta là, affondato nella sensibilità corporea, a costituire un sottofondo d’accompagnamento agli strati più formati e rappresentativi della nostra capacità di significare, testimoniando, nello stesso tempo, l’impossibilità di risolvere interamente i fenomeni della vita psichica nella significazione.
Mentre scrive il suo saggio più creativo sulla struttura dell’assenza, Barthes l’addolorato, Barthes l’anaclitico resta, nella sua sensibilità, incollato alla sua perdita. Ed è in questo stato che scrive la cosa più importante: <<Non sopprimere il lutto (la tristezza) (stupida idea del tempo che abolirà) ma cambiarli, trasformarli, farli passare da uno stato statico (stasi, intasamento, ricorrenze ripetitive dell’identico) a uno stato fluido>> (Ivi, p.144).
Nascita di immagini
Perché la domanda più importante è proprio questa: è possibile mettere in movimento quel qualcosa di atono, è possibile che in quel fondo insignificabile, in quell’indicibile che allude alla desolazione e al silenzio della morte si insinui un soffio vitale, un’attività che trasformi la decomposizione in fermento vitale, la pietrificazione in levità? Inutile dire che questa è in fondo la scommessa del nostro lavoro, giocata davvero su qualcosa che non sappiamo se potrà mai avvenire, ma di cui comunque cerchiamo pazientemente di coltivare le condizioni. Quel misterioso salto che, per dirla con Ricoeur, trasforma l’angoscia in creatività, o, secondo Jankélevitch, distingue il mortifero indicibile da un ineffabile su cui c’è infinitamente e inesaustivamente da dire è in qualche modo implicito nel proposito di Barthes, di trasformare la stasi in qualcosa di fluido, senza negare il lutto. Questo stesso processo è stato descritto da Fédida —nel suo ultimo scritto pubblicato in vita, che rappresenta l’elaborazione clinica della sua lunga ricerca sull’assenza—come un punto chiasmatico, a partire dal quale è sempre possibile un’evoluzione della perdita o verso la depressione, attraverso l’identificazione con un morto o con la morte, o verso la depressività, che equivale alla capacità della vita psichica di sopravvivere alla morte attraverso una vita fantasmatica che si nutra dell’assenza dell’oggetto amato (6). Credo però che le suggestioni più intense su questo passaggio ci siano date dall’interpretazione di Georges Didi-Huberman in un piccolo testo che rappresenta la sua personale elaborazione degli scritti e dell’assenza dell’amico e maestro Pierre Fédida .Un testo in cui si compie un certo slittamento verso una fenomenologia delle immagini rispetto al linguaggio ancora metapsicologico di Fédida, valorizzando l’influenza sul suo pensiero degli studi di Erwin Straus sulla sensibilità, di Viktor von Weizsäcker sul patico, e di Ludwig Binswanger sul contenuto timico. In questo senso, Didi-Huberman enfatizza l’esigenza di andar oltre l’economia simbolica freudiana, come pure oltre l’economia significante lacaniana, includendo in una teoria dello psichico i fenomeni della sensibilità legati alla vita del corpo, con tutte le loro modalità non rappresentazionali, non linguistiche, indistinte, ma comunque capaci di emanare influssi e generare atmosfere altamente influenti, capaci di configurarsi in forme e di influenzare le parole: un modo che tende a situare la genesi del senso su uno sfondo paticamente coinvolto piuttosto che su una semiotica intellettualmente disinvolta, già predisposta a significare. (Didi-Hubermann G. 2005, pp. 32,33-61)
Thymos è il termine che Didi-Huberman, riferendosi al mondo greco, sceglie per andar oltre la dicotomia psiche-corpo, per indicare una materia vitale in movimento capace di esalare fumi; il verbo thymiaô si riferisce propriamente al modo in cui il sangue sparso sul terreno dall’animale o dal nemico morto continua per un po’ a fumare sul terreno, ma rimanda anche alle celebrazioni funebri o sacrificali in cui era d’uso bruciare materie che liberavano profumi. Ed è proprio dagli effluvi, ritmi, soffi, odori, gesti, generati dai corpi morti depositati dalle nostre perdite nella sfera sensibile che dipende la possibilità di popolare lo spazio dell’assenza con la vita delle immagini.
In questo senso, è esemplare il commento di Didi-Huberman all’episodio descritto da Fédida in L’absence, per mostrare la possibilità che la nascita di immagini, attraverso il gioco, rischiari il lutto e rimetta in moto la vita psichica. Due ragazzine mettono in gioco il lutto della madre, partendo dalla rappresentazione dell’essere esse stesse morte; ma dall’immobilità irrigidita della prima scena, in cui si rappresentano avvolte in un gelido sudario, passano rapidamente a inventare qualcosa di simile a una coreografia, a una festa della morte, in cui il lenzuolo-sudario diventa il protagonista di una serie di trasformazioni accompagnate da varie fasi emotive, di urla, rabbia, piacere, riso, e movimento scatenato. Da immagine raggelata —univoco sudario— il lenzuolo diventa materia di metamorfosi, cioè materiale operatorio, creatore di diverse forme possibili: abito, casa, bandiera, per finire in allegri brandelli. Non è solo il lutto a trovarsi “temporalizzato”, come scrive Fédida, è anche il mondo a trovarsi “agito da una mobilità nuova” e aperto a una possibilità di parola. Il dolore psichico disarticolato si è fatto organizzazione scultorea della superficie (il lenzuolo lavorato con le mani, in drappeggi multipli), ma anche organizzazione coreografica dello spazio (la “farandola scatenata” che accompagna questa metamorfosi) da cui alla fine potrà erompere la parola […] L’aria libera un movimento, quello di un vento che prenderà forma nell’abito fattosi drappeggio, nella bandiera agitata, nella danza sfrenata delle due bambine (Ivi, pp 24,25)
Quel qualcosa di atono, quella materia raggelata e pietrificata, nel gioco comincia a fumare, a esalare vapori e movimenti, fino a far volare in aria quel lenzuolo, che propriamente non significa niente, che è materia in movimento: nel movimento, e nelle sue risonanze sensoriali, si configura un’immagine, che certo non è la cosa, e non è neanche la sua rappresentazione, ma della cosa è piuttosto<< l’emanazione, la sua aria, il suo odore, il suo alito: la sua prossimità materiale e insieme la sua distanza>> (Ivi, p.61).
E dunque, se di qualcosa l’immagine è rappresentazione, lo è piuttosto dell’assenza, dello iato, dell’intervallo che separa la presenza troppo piena di un corpo morto dalla capacità volatile, indistinta e metamorfica delle immagini. Per questo si può dire che le immagini mettono in scena un’assenza, e con ciò la rendono visibile. Le immagini vivono grazie al paradosso che mettono in scena, la presenza di un’assenza, o viceversa (7).
In conclusione
Questa tavola rotonda prometteva un confronto sul tema dell’assenza tra la psichiatria fenomenologica, la psicologia analitica e la psicoanalisi, e io debbo ancora esprimere in che modo mi sembra che il discorso che ho svolto conservi una continuità con il pensiero junghiano: o forse, rimanendo in tema, farei meglio a dire una traccia, proprio nel senso di un’immagine reminiscente. Jung aveva perfettamente chiaro il legame delle immagini con il fondo patico, la loro differenza dalle rappresentazioni, la loro estraneità all’interpretazione linguistica, la loro vaghezza e oscurità, il loro costituirsi come modulatori sensibili del senso, il loro essere dinamismi organizzatori dell’attività psichica. A volte, le immagini sono entrate nella sua psicologia come un troppo-pieno, una positività, quasi una rivelazione iconica di una realtà più vera: direi che in questa considerazione c’è un lutto mancato, una presenza senza assenza che molte volte gli è stata rimproverata, e che ha arrestato il dialogo con le correnti psicoanalitiche e fenomenologiche che si sono occupate di questi stessi temi. A volte invece, quando le immagini, nel suo pensiero, si fanno emanazioni indirette del polimorfismo dell’esperienza sensibile, diventano portatrici di atmosfere, stati d’animo, tonalità affettive che si sviluppano nello spazio dell’assenza, animando la vita psichica con la loro differenza iconica. Questo accade quando Jung, psicologo della complessità, rende ragione alla discontinuità dell’esperienza umana, introducendo il negativo, l’assenza, la non conoscenza, l’alterità e l’irriducibile estraneità come elementi essenziali dello psichico. Quando ad esempio Jung si oppone a Freud dicendo che il sogno non significa nulla, lascia entrare nello spazio psichico un’immagine provocatoria, interrogante, che, se viene luttuosamente accolta dalla coscienza come rappresentazione dell’assenza, e se il logos gli presta ascolto, è in grado, come direbbe Fédida, di aprire la parola e di nutrirla delle sue assenze.
Certamente, veniamo qui a contatto con quel polimorfismo del pensiero junghiano che lo ha sempre mantenuto sulle linee di confine, che gli ha fatto frequentare quegli spazi ambigui tra fenomenologia e psicoanalisi rendendolo spesso simile al famoso ferro di legno di Medard Boss: quel polimorfismo che chiede oggi a noi, come direbbe Mario Trevi, di esprimere un’adesione e una distanza, compito che, credo, sia però il miglior modo per sviluppare la vitalità di una tradizione in un confronto aperto con la propria epoca.
Note
- 1 – Il dizionario continua dicendo che è poco elegante intendere con assenza la mancanza, per la quale sarebbe meglio utilizzare penuria, insufficienza, scarsezza. Vuoto invece vuol dire che non contiene nulla, o che non contiene quanto dovrebbe.
- 2 – «Se il vuoto può essere riferito alla mancanza di qualcosa o di qualcuno, esso segnala innanzitutto una difficoltà di contenimento, una perdita non dell’oggetto, ma dell’essere, un’emorragia di sostanza vitale. L’oggetto-madre è il correlato dell’assenza, l’essere-madre quello del vuoto.» J. André, Un essere manca, in L. Rinaldi, M. Stanzione (a cura di) “Le figure del vuoto. I sintomi della contemporaneità: anoressie, bulimie, depressioni e dintorni”, Borla, Roma, 2012, p. 29 (corsivo mio).
- 3 – Seguendo il modo in cui M. Recalcati riprende la frase lacaniana “Il lutto è il rovescio della forclusione”, con vuoto forclusivo s’intende una perdita nell’ambito del simbolico, che lascia il posto a un ritorno invasivo del reale. Nel lutto invece una perdita reale lascia il posto al simbolo che ne organizza l’assenza. La mancanza è il prodotto della simbolizzazione del vuoto, che si apre al desiderio. Nel vuoto, invece la mancanza si dissocia dal desiderio. M. Recalcati (2012) Neomelanconie, ivi, p. 80. Scrive F. Conrotto: «Bion, nella sua formulazione di una teoria del pensiero, ha distinto la possibilità di tollerare l’assenza, che ha definito come not-thing, l’assenza, da un’impossibilità di tollerare l’assenza e ha utilizzato per questa situazione la parola nothing, senza trattino […] il soggetto è incapace di tollerare l’assenza e trasforma l’assenza in non-cosa, cioè positivizza l’assenza. In qualche maniera il vuoto diventa, tra virgolette, un pieno, diventa qualcosa che c’è e non qualcosa che non c’è» F. Conrotto, Dibattito, ivi, p.56.
- 4 – P. Fédida, L’absence, Gallimard, Paris, 1978, p.9 (traduzione mia)
- 5 – Sull’insostituibilità della madre, ma forse in generale sulla componente di insostituibilità implicata in ogni vera perdita, mi piace ancora citare J.B. Pontalis «Ma ci sono sostituti materni? Per quanto insoddisfacente sia stata è unica. Mi dico che il solo essere insostituibile, e ancor meno interscambiabile, forse addirittura immortale, è (se non la nostra) la madre, e a mia madre minuscola, attribuisco, dò, la maiuscola». J.B. Pontalis (2000), Finestre, cit.
- 6 – P. Fédida (2001) Il buon uso della depressione, Einaudi, Torino, 2002, p. 55
- 7 – Come scrive H. Belting, «esse sostituiscono l’assenza di un corpo con un diverso tipo di presenza. La presenza iconica mantiene ancora l’assenza del corpo trasformandola in ciò che si deve definire assenza visibile. Le immagini vivono grazie al paradosso che mettono in scena, la presenza di un’“assenza”, o viceversa. » H. Belting (2005) Immagine, medium, corpo. Un nuovo approccio all’iconologia. In A. Pinotti, A. Somaini (a cura di), “Teorie dell’immagine”, Cortina, Milano, 2009, p. 87.
Bibliografia
- André J., Un essere manca, in L. Rinaldi, M. Stanzione (a cura di) “Le figure del vuoto. I sintomi della contemporaneità: anoressie, bulimie, depressioni e dintorni”, Borla, Roma, 2012.
- Barthes R. (1977), Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi, Torino, 1979.
- Barthes R. (2009), Dove lei non è. Diario di lutto, Einaudi, Torino, 2010.
- Belting H. (2005) Immagine, medium, corpo. Un nuovo approccio all’iconologia. In A. Pinotti, A. Somaini (a cura di) “Teorie dell’immagine”, Cortina, Milano, 2009.
- Conrotto F., Dibattito, in L. Rinaldi, M. Stanzione (a cura di) “Le figure del vuoto. I sintomi della contemporaneità: anoressie, bulimie, depressioni e dintorni”, Borla, Roma, 2012.
- Didi-Huberman G. (2005), Gesti d’aria e di pietra, Diabasis, Reggio Emilia, 2006.
- Fédida P., L’absence, Gallimard, Paris, 1978.
- Fédida P. (2001) Il buon uso della depressione, Einaudi, Torino, 2002.
- Kimura B.(1992), Scritti di psicopatologia fenomenologica, Fioriti, Roma, 2005.
- Martini G., La psicosi e la rappresentazione, Borla, Roma, 2011.
- Pontalis J.B. (2000), Finestre, E/O, 2001.
- Recalcati M. (2012) Neomelanconie, in L. Rinaldi, M. Stanzione (a cura di) “Le figure del vuoto. I sintomi della contemporaneità: anoressie, bulimie, depressioni e dintorni”, Borla, Roma, 2012.
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- Assenza di vita, assenza di morte. Il rischio della vita psichica di M.I. Marozza • 539 kB • 20 download