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Archetipi e fenomenologia: quale rapporto?

Rivista annuale a cura del Centro Italiano di Psicologia Analitica Istituto di Roma e dell’Italia centrale

QCJ 2014

2014 Numero 3

Archetipi e fenomenologia: quale rapporto?

La psicologia analitica di Jung é nota al grande pubblico per la sua teorizzazione piú controversa e problematica: l’inconscio collettivo e la teoria degli archetipi.

Quanto di notevole, peculiare, moderno si trova nel pensiero dello zurighese é spesso passato in secondo piano, oscurato dalla potenza metastorica della presunta psychologia perennis che una parte della sua riflessione schiudeva, saturando a volte l’orientamento delle ricerche future, con il rischio che la stessa disciplina da Jung fondata patisse un isolamento o una scarsa considerazione nei dibattiti in seno alle scienze umane.

Ma nonostante il suo relativo isolamento culturale, la psicologia analitica ha dimostrato, per coloro che hanno avuto e che avranno la pazienza e l’interesse di studiarla a fondo, di poter dire molto e in modo innovativo, non solo al mondo psicologico. Penso innanzitutto a contributi quali la concezione del simbolo, la teoria dei complessi a tonalità affettiva, la tipologia, l’atteggiamento analitico non riduttivo, l’equazione personale, la sincronicità, una sensibilità ermeneutica radicale e la consapevolezza epistemologica annessa allo spinoso problema metodologico in psicologia. Tuttavia questi temi hanno faticato a farsi largo rispetto alla potenza altamente evocativa di una psiche arcaica e dei suoi contenuti.

D’altra parte, della teoria archetipica si é detto di tutto; si é scomodata ora la metafisica, ora la religione, la filosofia e l’antropologia, l’etologia e la biologia, la sociologia, l’alchimia e persino l’occultismo. Segno che l’inquietudine sul tema é enorme.

Oggi sentiamo vivo il pungolo di una declinazione nuova delle preziose intuizioni ereditate, e il ravvivarle in un fare che non sia la scimmiottatura di un rassicurante presunto sapere rimane un esercizio critico fondamentale.

Ciò ammesso, non  voglio sottrarmi al compito di chiedermi se gli archetipi costituiscano un punto di riferimento nell’empiria analitica della professione.

Nel tentare di rispondere vorrei ri-assumere brevemente i principali scritti di Jung sul tema per dare la misura della complessità del problema. La prima cosa che propongo all’ attenzione è lo stile dello zurighese: la prosa di Jung é densa, contorta, contradittoria, oscura, a volte suona come un sermone, a volte come una fulminante riflessione di rara acutezza introspettiva. A volte dottissima, erudita e storica, altrove generica e teatralmente suggestiva. Questa prosa che appare tribolata, tradisce un suo procedere itinerante che non appare una strategia narrativa che incede obscurum per obscurius, quanto piuttosto sembra essere espressione di un’intima inquietudine.

Jung si serviva di ogni appiglio conoscitivo, cercando nella tradizione culturale dell’umanità il tramite adatto a rendere la distanza fra esperienza e comunicabilità scientifica, alla ricerca di un linguaggio ‘diverso’.

Non sono mancati autori che hanno visto in questo rifarsi dello psichiatra svizzero a conoscenze pre-illuministiche e pre-moderne, il tentativo sui generis di una epoché fenomenologica, cioè di una sospensione di tutti i pre-giudizi conoscitivi del proprio tempo, in particolare dell’idea cartesiana che separa l’oggetto indagante dall’oggetto indagato, che L. Binswanger ebbe a definire ‘cancro di ogni psicologia’.

Medard Boss, pur ammettendo che l’opera junghiana presenta un’ingenua predisposizione alla sensibilità fenomenologica, ne critica il naturalismo della concezione dell’inconscio, affermando che non puó esistere ‘un ferro di legno’, cioè non puó esserci uno junghismo fenomenologico.

Eppure, attraverso una considerazione critica di Jung e non rimanendo semplicemente alla sua vulgata, si noterà come un atteggiamento fenomenologico sia facilmente rinvenibile nei suoi scritti, nei seminari, nelle lezioni; ma a patto di essere dei buoni lettori di Jung.

Possiamo semplificare anche dicendo che in Jung  esiste un dialogo tensionale tra almeno due anime che si attraversano, si inseguono e a volte si combattono.

Vediamone la prima.

Non è un segreto che molte delle critiche mosse da Jung a Freud e al suo impiano teorico furono pressappoco ripetute dal movimento fenomenologico, che si opponeva al naturalismo della psicoanalisi. Come non è difficile notare negli scritti meno teorici e piú orientati alla clinica un atteggiamento che potremmo definire fenomenologico-esistenziale. Quante volte infatti Jung ci invita a rimanere nell’esperienza del paziente, all’ineffabilitá del vissuto, alla molteplicitá dei suoi progetti individuali, unici e mai riducibili al ‘nient’altro che’ cosi caro a Freud. E ancora, a scrollarsi di dosso le teorie che accecano piú di quanto non permettano di vedere fino al rischio di cadere nell’irrazionalismo, a concepire l’analisi come un atto esistenziale anti-intellettualistico, dove l’ im-mediatezza esperienziale rivendica la sua pre-categorialità, di come il processo analitico coinvolga la partecipazione e compromissione totale dell’analista, fino ad affermare che anche l’analista é in analisi, anticipando tematiche e dibattiti sul tema del cosiddetto controtransfert.

Un’empiria dunque che travalica il modello medico e rifugge ogni semplificazione reificante.

Forse è da questo atteggiamento e dalla sua prudenza verso l’umano che nasce in Jung vivissima una domanda che va alla radice stessa della scienza psicologica e ne scuote fortemente le fondamenta, mettendone continuamente in dubbio l’aspirazione a costituirsi a scienza. E’ questo un atteggiamento ermeneutico radicale, che problematizza la natura della conoscenza prodotta e le possibilitá epistemologiche di una scienza che, se da una parte teorizza l’inconscietá di gran parte dello psichico, dall’altra è obbligata ad affidarsi ad esso quale unico strumento adatto a condurre l’indagine conoscitiva. Un paradosso.

La seconda anima di Jung ha un’ambizione diversa e sembra antinomicamente incarnare lo sguardo a-temporale con cui Jung provava a declinare le esperienze cliniche e le teorie. In questa seconda intenzione Jung si pone chiaramente il problema del superamento delle differenze.

Possiamo anche immaginare che una visione più oggettiva, quale l’ipotesi di invarianti immaginali detti archetipi, potesse costituire per Jung una soluzione volta all’attenuazione della vertigine conoscitiva e alla dispersività a cui il relativismo clinico esponeva. In fondo, l’ipotesi degli archetipi come ‘modelli situazionali a-priori’ rispondeva all’ esigenza di una fondazione scientifica della psicologia per sottrarla alle battaglie teoriche e al variegato declinare dell’esperienza umana che pure Jung rivendicava, ma, al tempo, l’ipotesi di un principio impersonale avrebbe ricondotto a un’unitá la molteplicità, nello sforzo immane di sondare l’anima dell’uomo.

Accanto allo psichico soggettivo ve n’è dunque uno oggettivo che sorpasserebbe i punti d’osservazione parziali. Inoltre, tale ipotesi imporrebbe allo psicoterapeuta di dilatare le sue competenze in campi ‘infinitamente lontani dalla medicina’, schiudendo così un’innegabile ambizione insita nella psicologia analitica, quella cioè di delineare un’ ontologia umana, un’idea di Uomo. Cosi, possiamo ravvisare nell’ipotesi degli archetipi un tentativo di scongiurare il riduttivismo e la monotonia interpretativa a cui ogni teoria condannerebbe.

D’ora in poi, sembra dirci Jung, la psicoterapia dovrá chiedere il sostegno di tutte le scienze dello spirito. In questo sterminato campo d’indagine, in cui ha spazio anche la ricerca linguistica, Jung propone un punto di vista piú alto, che include le singole, parziali prospettive grazie a una sorta di sacrificio della prospettiva egoica e della sua parzialità, al fine di assumere, in questo sforamento, il non-Io come soluzione delle contraddizioni.

Allenarsi a questo potrebbe costituirsi come l’impegno di una vita, oltre che la via più onesta nella ricerca dell’oggettività.

Per provare a giustificare queste due anime junghiane di cui si è accennato vi è un altro aspetto da considerare: Jung sembrava convinto che l’unico modo per una teoria di rimanere fedele al suo oggetto di ricerca ( la psiche) senza violentarlo, fosse di assumere la profonda antinomia della psiche stessa.

Jung sembra dirci che una teoria psicologica non puó, suo malgrado, raccontarci dello psichico se non come suo pallido riflesso, presentando spesso antinomie, perché una cosa è l’esperienza psichica, altra cosa la sua traduzione in teoria, considerato che il procedere razionale non può andare oltre una visione necessariamente monoculare dei fenomeni.

Mario Trevi, uno dei padri della psicologia analitica italiana e autore di una revisione critica ineguagliata dell’opera di Jung e, purtroppo, quasi sconosciuto sul piano internazionale, ebbe a dire rispetto a questo tema, che in Jung il discorso sulla psiche come oggetto di studio si interseca continuamente con il discorso della psiche, il soggetto indagante; e i confini tra i due momenti sono spesso indistinguibili e questo si rifletterebbe nell’opera rendendola così poco sistematica e difficile. Secondo Trevi dunque, Jung porta alla luce un radicale ‘conflitto di interessi’ in psicologia, dove l’indagante è anche l’indagato.

Non é quindi la sistematicitá la qualitá piú peculiare di Jung, data la sua ostinata diffidenza verso sistemi teorici onnivori e inglobanti. Poi peró, l’ermeneuta radicale, colui che sembra addirittura ardire a mettere in discussione la possibilitá stessa di una psicologia, propone la teoria degli archetipi cioè il rischio del trionfo della de-soggettivizzazione, il ruolo secondario della vita individuale, quasi un epifenomeno di un inconscio a-temporale e universale, la riduzione dell’Io a oggetto del vero soggetto psichico: l’inconscio collettivo.

Come ha fatto notare un altro grande studioso dello junghismo, Paolo Francesco Pieri, le assonanze con lo strutturalismo antropologico di C. Levi-Strauss sono significative. Tuttavia il grande antropologo non mancó di criticare l’inconscio collettivo junghiano, sebbene ci si chieda se lesse mai attentamente Jung. L’altra obiezione che muove Pieri, rispetto a questa liquidazione frettolosa di Jung da parte di Levi-Strauss, é di natura piú squisitamente psicologica: il fondatore dell’antropologia strutturale non stava forse proiettando su Jung le perplessitá che la sua stessa teoria poneva nei termini di critica radicale dell’umanesimo a vantaggio di una concezione sincronica della storia, ove la libertá umana ne risultava fortememente limitata?

Tornando ad aspetti più pratici che le questioni sin qui sollevate coinvolgono, possiamo chiederci come la presenza di queste due identità vengano poi tradotte nell’ atteggiamento concreto del terapeuta verso la specifica problematica o preoccupazione del paziente.

Appare abbastanza evidente l’invito per l’analizzante a mantenersi su un doppio registro di funzionamento: si ascolta il contenuto di quella sofferenza che rimane per il paziente il cuore del suo messaggio, ma non si perde mai di vista l’aspetto formale, per cui la prospettiva del terapeuta tiene presente, a un livello di astrazione più alto, anche l’aspetto comparativo che gli permette di osservare quella specifica difficoltá, amplificandola a livelli universali, assumendone le conquiste e le problematiche dell’intera umanità.

Starà al terapeuta capire quando è piú opportuna per il paziente, un’amplificazione del suo tema nel mare magnum della storia oppure una circoscrizione più angusta del contesto, piú utile, per esempio, laddove l’urgenza richieda di rafforzare i confini di un Io troppo fragile, scarsamente demarcato e troppo permeabile a ogni suggestione. Di questo Jung era pienamente consapevole ed è macchiettistico pensare che il suo operare concreto non prevedesse queste fondamentali accortezze quando il suo testo è pieno di queste raccomandazioni.

Ciò detto, sebbene le neuroscienze e lo studio del genoma abbiano escluso la possibilità di un’eredità filogenetica della specie homo sapiens basata su contenuti specifici, è altrettanto vero che le stesse neuroscienze, l’antropologia culturale, la psicologia evolutiva e la psicolinguistica hanno avviato ricerche che sembrano convergere su un punto fondamentale: la confutazione dell’idea che alla nascita l’uomo sia una tabula rasa in qua nihil scriptum est. L’ipotesi semplificante di Skinner secondo cui l’apprendimento generale fosse basato sul meccanismo premio-punizione si è rivelata infondata. Pertanto, se da un lato l’ipotesi junghiana degli archetipi rimane indimostrabile laddove ambisce a sostenere l’ ereditarietà di immagini specifiche o temi tipici, dall’altra lo studio del genoma suggerirebbe che quanto ereditato consisterebbe nella possibilità, nella potenzialità strutturante data soprattutto dalla dimensione combinatoria dei geni e non da contenuti specifici. Inoltre, ciò che il genoma consentirebbe, in continua interazione con l’ambiente, è piuttosto ‘il campo del compatibile’, modulando la variabilità culturale possibile. Veniamo al mondo con dotazioni anche molto complesse che sembrano riguardare il modo come noi apprendiamo, e anche, da un punto di vista evolutivo, che cosa possiamo apprendere più facilmente che altro: per esempio, una maggiore predisposizione allo scambio sociale e al meccanismo della predazione sembrerebbero ‘equipaggiamenti’ mentali altamente pre-disposti e più facili dell’acquisizioni di competenze computazionali; rispetto a molte specie animali, tutta la differenza consisterebbe nella cifra simbolica annessa alla capacità rappresentativa di simili pre-disposizioni.

Forse un primo modo per sottrarci dall’impaccio sta nel poter distinguere, senza ambiguitá, come per altro Jung stesso precisò, le immagini tipiche dalla forza strutturante che starebbe loro dietro. Perchè in fondo l’idea di organizzatori esperienziali vuoti, dimensioni formali e non contenutistiche sarebbe meno problematica della tematizzazione degli archetipi come immagini primordiali ereditate. Troverebbero inoltre una credibilità in ambiti di ricerca fenomenologico-gestaltici, laddove si parla di strutture trascendentali, rispetto alle quali autori come L.Binswanger, sensibili alla fenomenologia heideggeriana, hanno dedicato la loro ricerca psichiatrica, individuando nel concetto così denso e ambiguo di ‘evidenza naturale’ l’autenticità di un essere umano, riassunta in pochi, essenziali temi quali l’ascesa, la caduta, lo stare insieme, il percorrere.

Questo apre un campo di ricerca che assume il tema archetipico in una dimensione fenomenologica, almeno di quella parte della fenomenologia alla ricerca di una fondatività attraverso lo studio delle strutture trascendentali, cosicchè anche i temi mitologici e favolistici divengono oggetto di studio poiché si fanno portatori dei modi e delle forme tipiche dell’essere uomini e non dei loro contenuti.

Inoltre, ho sempre l’impressione che quando si parla di archetipi se ne colga più spesso l’aspetto positivo e luminoso ma molto meno quello inquietante e angoscioso legato al tratto costrittivo, vincolante e coattivo che Jung stesso sottolineò più volte. Giova forse ricordare che nell’elaborazione matura di Jung, archetipo indica una costituzione psichica in cui una forza formale arcaica e primitiva orienta la percezione, l’immaginazione e l’azione solo verso certe possibilità e non altre, contro ogni sforzo della ragione e della volontà.

Appare essere questo un filone di ricerca possibile per capire se i vincoli imposti dalla struttura archetipica della psiche, data per buona l’ipotesi, siano anch’essi sensibili a qualche tipo di evoluzione, al fine di una loro maggiore plasticità e minore rigidità.

In altri termini, può avere senso chiedersi, per sfuggire a un inevitabile innatismo dal gusto metafisico, se sia possibile contrastare queste forme, rendendole più evolute, e se questo tipo di lavoro, ammesso che sia possibile, esporrebbe sempre a un grave conflitto patologico, come sembrerebbe suggerire il testo junghiano?

Jung afferma che la struttura archetipica è una cristallizzazione di azioni e reazioni che nei millenni son divenute parte della psiche umana a causa del ‘solco’ neurale (mnemonico?) creato dalla loro incidenza e ripetitività che ha insistito su alcuni circuiti e non su altri. Sembrerebbe alludere quindi a un’incidenza quantitativa sullo psichico.[1] Ma non è chiaro se la tipicità della reazione è già ampiamente prevista dal ‘codice innato’ che offre giocoforza un ventaglio di scelta limitato oppure se la ristrettezza delle ‘reazioni tipiche’ sia legata piuttosto a una sostanziale indifferenziazione patica, il cui appello orienterebbe il cognitivo su poche basilari, essenziali opzioni. Tuttavia, l’idea di un sistema emotivo generale è stata criticata da diversi autori[2] che sembrano attestarsi attorno all’ipotesi di diversi sistemi emotivi, specificamente stimolati da azioni ripetute quantitativamente e che per tale ragioni sono state selezionate come le migliori o le più probabili a essere chiamate in gioco poiché garantirebbero un’efficienza in termini di sopravvivenza della specie.[3]

Ci si può anche interrogare se questa limitazione non nasca piuttosto da dimensioni più di carattere atmosferico, addirittura minerarie e vegetative, sempre le stesse sul nostro pianeta: il sole, l’acqua, il fuoco, la pietra, l’albero. In fondo arcaicità, può anche alludere a una cosalità psichica, l’ essere una cosa tra le cose[4], o per dirla in un modo più evoluto, una participation mystique. Ma rimarrebbe comunque aperto il problema della psiche che si pone sempre e solo come ‘trasduzione’ riflessa e mediata del mondo naturale e mai come sua riproduzione fedele.

A rigor di logica un’evoluzione ulteriore sarebbe possibile e immaginiamo che l’analisi, nel suo promuovere l’instancabile dialogo fra due reciproche alterità quali la coscienza e l’inconscio, abbia anche umilmente una parte in questo ipotetico svincolarsi dal motivo tipico o dalla reazione tipica, affinché fra 3000 anni, gli uomini del futuro non si ritrovino a sfilare, ancora una volta,date certe condizioni storico-economico-sociali, con la mano alzata, onorando oscuramente un saluto appartenuto alle legioni di Roma antica e poi ai nazi-fascismi del XX secolo.

Ad una attenta considerazione, parte della risposta può forse essere inferita dalla riflessione proposta da Jung in Risposta a Giobbe, dove più che la modifica della struttura archetipale viene tratteggiato un atteggiamento della coscienza rispetto al monstrum che è il Sé, laddove, tuttavia, si faccia un esercizio non metaforico del linguaggio che Jung utilizza per denominare i fenomeni psichici, ma lo si consideri espressione di strutture soggiacenti. Rimane questo un tema che non è possibile né abozzare né approfondire in questo scritto.

Anche M. Foucault, con il suo metodo archeo-genealogico mutuato da Nietzsche in modo assolutamente peculiare, si è interessato, sebbene su un piano diverso da Jung, agli aspetti impersonali del pensiero umano, individuando però fuori dalla mente umana[5] quell’impersonalità che suggeriva, di volta in volta, le pre-condizioni che rendono pensabili certi pensieri in alcuni periodi storici. Credo che anche in lui fosse viva la stessa inquietudine di Jung che si riassumeva in una domanda che rimane preziosa anche per noi: in che misura l’Homo sapiens è davvero un sistema aperto?

Assumere questa dialettica tra individuo e specie, tra soggettivo e oggettivo, tra diacronico e sincronico in cui il primo è epifenomeno del secondo ha una sua coerenza logica interna molto forte fintantochè il concetto rimanga una sfida euristica, che scompare non appena Jung, e spesso capita, finisce per cedere alla suggestione da lui stesso evocata e cioé reificando l’ipotesi dell’archetipo, trasformandola in ipostasi, in realtà.

E’ abbastanza ovvio che tale scivolamento può costituirsi come un pericolo più che una risorsa per la ricerca e condannerebbe alla mera ripetizione del già noto, oppure alla scoperta di nuovi presunti archetipi e sotto-archetipi, con il fine di animare ed espandere il dicibile sull’umano.

Non è questa la mia posizione personale anche se ci sono validissimi autori in Italia e nel panorama internazionale che hanno concentrato la loro ricerca su questi aspetti.

Trovo invece ancora di preziosa utilità l’ipotesi di archetipo allorché viene assunta per sottrarsi alla superficialitá di teorie che diventano mode, che Jung considera proiezioni di singoli aspetti ipostatizzati, auspicando, nel momento più riflessivo, un procedere piú impersonale. Sopratutto quando lo psicologo pone attenzione all’aspetto descrittivo e osservativo nella clinica, al fine di ricercare, e non già trovare preconfezionati, ‘temi tipici’ applicabili come rigida griglia interpretativa ai fenomeni psichici.

La distanza che esiste fra ricercare e trovare è grande ed è la stessa che esiste fra  percorrere e attraversare, come ci ricorda mirabilmente M. Foucault nell’introduzione al bellissimo saggio di L.Binswanger  ‘Sogno ed esistenza’. L’ attraversare concepisce il territorio come spazio geometrico dove niente di inatteso è pensabile, dove luoghi e distanze sono stati già ampiamente previsti. Il patico ne è escluso, così come l’inatteso.

Il percorrere, al contrario, non si figura il passo successivo in termini pianificanti: infatti, quando si percorre un territorio sconosciuto non si sa dove si va; si rimane esposti a intemperie, smarrimenti, sorprese, gioie e terrori. E’ la vita e l’esperienza di essa. E’ il luogo dell’incontro con l’indefinito e con il patico.

Dal mio punto di vista l’archetipo reca in sè una vocazione di comparazione e ci ricorda che facciamo parte di una specie che sente, pensa e si adatta irriducibilmente a modi che non possono che essere quelli umani.

Cosi concepita l’ipotesi dell’archetipo alluderebbe a una interezza esperienziale, in cui il rapporto tensionale fra identitá e molteplicitá si costituirebbe come modello di tendenza asintotica verso la totalitá.

In conclusione, penso che essere junghiani oggi non consista nel nominare junghianamente i fenomeni psichici; ombra, anima, animus, coniuctio oppositorum, vecchio saggio, unus mundus e cosí via, tanto per rimanere ai piú noti.

Forse  all’inizio di una formazione analitica l’essere accomunati da un linguaggio comune può rappresentare un’appartenenza e il lasciapassare per un diritto di cittadinanza. Poi invece si scopre che una vera cittadinanza prevede una babele di linguaggi. Per quanto difficile e faticoso possa essere districarsi in simile Babele, penso sia necessario, per non rimanere nel riflesso di realtà, anche teoriche, che non esistono piú. Vorrei a tale proposito anche ricordare che Jung stesso dichiaró di essere, fortunatamente, solo Jung e non uno junghiano, perché non era obiettivo dello psichiatra svizzero trasmettere un sapere che si riducesse a un monotono prontuario linguistico e simbolico.

E’ invece ció a cui il linguaggio allude o puó dire appena, il vero oggetto a cui mirare, cioè quanto di nuovo e di ulteriore sappiamo vedere. E’, dunque, la capacitá di confrontarsi apertamente con l’esperienza altrui e personale la grande eredità di Jung da raccogliere.

Certamente non bisognerebbe mai forzare un Autore al di là di quello che ha realmente detto o voleva dire attraverso re-interpretazioni retrospettive che finiscono, il più delle volte, per essere letture sintomali, ma è altrettanto vero che si ripaga male un maestro se non si utilizza il suo pensiero vivificandolo, misurandolo con sfide culturali e concettuali nuove, al limite anche deformandone le intenzioni, se con quell’atto ne guadagniamo in conoscenza. Non per uno spirito di rinnovamento ad ogni costo ma per  scoprirne la vivacità interna e inespressa di quello stesso pensiero (Benjamin).

Pertanto tutte le psicoterapie dinamiche si trovano oggi ad interpretare i nuovi disagi di questa societá e modernitá liquida, per dirla con Bauman, assumendo con coraggio il cambiamento e lo spirito del tempo.

Le metapsicologie sono crollate, il mondo si è rimpicciolito ed ampliato al tempo stesso. E’ cambiato, cambia incessantemente e non sappiamo pienamente come. Credo quindi che un richiamo a un nuovo atteggiamento pionieristico e di genuino interesse per queste nuove realtá passi attraverso il recupero di uno spirito di ricerca.

In ultima analisi, essere junghiani oggi e parlare di archetipi significa ricordare al narcisismo del nostro ego che siamo una piccola parte di un universo e di un mondo psicologico e fisico di complessitá spaventosa, che in gran parte ci pre-esiste, condizionandoci enormemente ma che certamente contribuiamo a costruire. Allo stesso tempo ricordo a me stesso che nonostante le differenze, tale mondo continua ad esser costruito e da sempre sperimentato in base all’uguaglianza sostanziale della specie culturale Homo sapiens.


Note

  • [1] Qui si aprirebbe un altro fronte del dibattito sulla distinzione fra Psiche e mente, che magari riprenderemo altrove.
  • [2] J. LeDoux (1996), The emotional brain: the mysterious underpinnings of emotional life,Simmon and Schuster, London.
  • [3] E. Goodwyn, Approaching archetypes: reconsidering innateness
  • [4] M. La Forgia e M. Marozza, L’altro e la sua mente
  • [5] In tutta onestà anche il concetto di Psiche proposto da Jung finisce per assumere un’ ampiezza cosmica attraverso la chiara abolizione della demarcazione fra soggetto e mondo. Fino ad immaginare lo psichico come una proprietà dell’universo e non dell’uomo, visione che verrà fatta propria da Hilmann che ne estremizzerà le conseguenze nella sua Psicologia archetipica.

Bibliografia

  • C.G. Jung (1934-54), Gli archetipi dell’inconscio collettivo,Opere, vol IX, Boringhieri, Torino, 1997.
  • Binswanger (1930), Sogno ed esistenza, SE, Milano, 1993.
  • La Forgia,M.I. Marozza, L’altro e la sua mente, Fioriti, Roma, 2000.
  • I. Marozza, Jung dopo Jung, Moretti & Vitali, Bergamo, 2012.
  • Trevi (1980), Per uno junghismo critico, Fioriti, Roma, 2000.
  • F. Pieri, Jung e lo strutturalismo, Seminario inedito, CIPA, Roma, 1977.

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