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Angiola Iapoce in dialogo con Mario Colucci e Pierangelo Di Vittorio

Rivista annuale a cura del Centro Italiano di Psicologia Analitica Istituto di Roma e dell’Italia centrale

La follia: modelli della psiche e approcci terapeutici La psicologia analitica a 100 anni dalla nascita di Franco Basaglia

2024 Nuova Serie Numero 5 Monografia Franco Basaglia

Angiola Iapoce in dialogo con Mario Colucci e Pierangelo Di Vittorio

A.I. L’adesione al pensiero fenomenologico rappresenta una costante nell’elaborazione teorica e nella pratica psichiatrica di Franco Basaglia, per il quale la sospensione del giudizio, l’epochè, è considerata in funzione della possibilità di costruire una cultura critica che (con le parole vostre) «non è affatto un rifiuto del sapere ma della sua postura padronale, della sua istituzionalizzazione, di tutto ciò che la fa funzionare come un orologio, ovvero come una verità assoluta».

Questa “cultura critica” mi sembra che in Basaglia prenda due direzioni: 1) il rifiuto di ogni sapere che si ponga come inattaccabile, come assoluto e non sottoponibile a critica; 2) l’applicazione della epochè alla malattia mentale, con la “messa tra parentesi” della malattia mentale stessa, un passo questo che non implica alcuna negazione dell’esistenza della malattia mentale – Basaglia non l’ha mai fatto; si tratta piuttosto di applicare una sorta di astuzia della ragione che presuppone “un profondo sapere della malattia e una consapevolezza altrettanto profonda delle sue costruzioni cliniche e istituzionali”.

Potete articolare questa tematica che è così fondamentale nel pensiero di Franco Basaglia?

 M.C. Si tratta di un’operazione intellettuale sofisticata che al tempo stesso conduce a una posizione trasparente del terapeuta: bisogna essere in grado di acquisire sapere e poi di spogliarsene, perché è proprio in questo atto di svestizione che ci si può aprire al sapere dell’Altro. Basaglia sa bene che il sapere è strettamente intrecciato a una possente impalcatura di poteri istituzionali e per questo è consapevole che l’opera di destrutturazione del sapere non può che essere un’operazione da condurre con grande sagacia, in quanto è destinata a incontrare enormi resistenze. Inoltre, bisogna considerare che c’è anche una perdita di ruolo da parte dello psichiatra, una discesa dal piedistallo di prestigio e autorevolezza su cui si è installato per andare a calpestare il terreno infimo abitato dagli internati psichiatrici: questi non sono solo malati, ma esclusi sociali, reietti dimenticati ai quali il sapere della psichiatria ha assegnato un’etichetta diagnostica e relegato ai margini della città. Ma in questi margini rischia di finire relegato anche lo stesso psichiatra.

L’operazione, come è evidente, si fonda sul creare nessi tra teoria e pratica, tra conoscenza delle cose e azioni per trasformarle. Non si tratta affatto di stabilire un primato della teoria sulla pratica, quanto di spostarsi agilmente sul sentiero che va dalle azioni trasformative verso i saperi critici in un movimento di andata e ritorno: non abbandonando il terreno della verifica, ma uscendo dalla retorica dei cosiddetti discorsi evidenti e ripercorrendo quel cammino che sappia situare le pratiche nel contesto culturale relativo al suo tempo e al suo luogo. Questo serve a mettere in luce la genealogia dei giochi di verità e le relazioni di potere che li hanno determinati e a esercitare una forma di pensiero critico. D’altra parte, quando Basaglia chiede di fondarsi sulla pratica, non sta demonizzando la teoria, non sta rifiutando l’atto di ricerca e conoscenza, semmai sta cercando di fare spazio a un altro modello di sapere, un “saper fare” che mette la teoria alla prova, verificandola attraverso un’esperienza quotidiana di confronto con la pratica di cura.

A.I. Dare voce all’altro sospendendo il proprio sapere: potrebbe trattarsi di un tratto che accomuna tanto la psicoanalisi quanto la psicologia analitica, tanto Freud quanto Jung (da notare che entrambe hanno la loro ragion d’essere nella dimensione inconscia…).

Si potrebbe vedere in questo un cammino parallelo a quello delle discipline psy che hanno l’inconscio nella loro concettualizzazione e che lavorano con esso?

M.C. Anche Jacques Lacan la pensava così: quando lo psicoanalista è convinto di possedere un sapere con il quale poter dire il vero su ciò che l’altro è, siamo fuori dalla psicoanalisi. Lo psicoanalista deve fare un atto di destituzione dal suo sapere, ossia partire dalla scelta di «ignorare ciò che sa» (Lacan 1974, p. 343) e dalla consapevolezza «di non poter sapere quello che fa» (Lacan 2008, p. 365), tanto da esercitare un’astensione, un “silenzio”, che non impone al soggetto un sapere padrone, ma gli rinvia la domanda e gli suggerisce di dirigersi verso ciò che non sa, ciò che non è stato detto e ciò che resta da dire[1]. Il sapere è dell’Altro: bisogna rinunciare all’idea stessa che sia pieno e completo e non invece sempre attraversato da una mancanza irriducibile.

 A.I. In una conversazione tra Franco Basaglia, Franca Ongaro e Michele Risso[2] si raccoglie tutta l’inquietudine di Franco nel passare all’Ospedale di Trieste, è la sua difficoltà ad affidare parte del suo lavoro ad altri psichiatri, magari “giovani”. La difficoltà concerne sempre la capacità di mantenere quel ruolo di contrasto alle posizioni di potere che contraddistingueva il suo operato. Il risultato però era che Basaglia si caricava così di tutto il peso della innovativa struttura manicomiale, con una dedizione completa alla causa. È quel tratto etico del “sacrificio” di Basaglia, la cui dedizione totale e assoluta alla causa del manicomio lo ha forse anche condotto ad una morte prematura. Ma non si tratta soltanto di un dispendio “fisico” di energie, si tratta piuttosto di disperdere incessantemente la propria prerogativa di esperto e il proprio ruolo di potere.

Su questo introducete il concetto di “dissipazione”, facendo riferimento a Georges Bataille. La dissipazione è doppia: la prima riguarda l’operatore psichiatrico, il suo sacrificio tanto fisico che di dispersione della propria identità; la seconda dissipazione è rivolta alla distruzione delle istituzioni totali e di quei saperi disciplinari che sono ad esse collegati. “Occorre disperdere il proprio sapere e l’identità che lo sostiene”.

 M.C. Dissipazione è un termine che ho usato nel seminario Follia e Paradosso che si è svolto a Trieste quasi 30 anni fa. Perché usare Bataille? All’epoca, venivo dalla lettura di un testo che si chiama La nave che affonda (ripubblicato da me e Pier Aldo Rovatti con una nostra prefazione nel 2008 presso Raffaello Cortina). Un testo molto bello, un’intervista tra Franco Basaglia, Franca Ongaro, Agostino Pirella e un giornalista romano che si chiama Salvatore Taverna, il quale ha una sua esperienza come ricoverato all’interno di luoghi psichiatrici, segnatamente cliniche psichiatriche romane, dove passa diversi periodi senza mai finire in manicomio (siamo prima del 1978). Taverna poi incontra Basaglia, si interessa alla sua azione e lo intervista. In questa intervista la voce di Pirella ci fa capire che alla fine c’è stato un esercizio di dissipazione di sé nelle esperienze di deistituzionalizzazione a Gorizia, ad Arezzo o a Trieste. In altri termini, c’è stato davvero uno sperpero di energie, di vite completamente dedicate alla causa, un investimento nella lotta antistituzionale che ha inciso sulla carne di coloro che ne sono stati protagonisti.

E questo, secondo me, faceva il paio con una dissipazione dei luoghi e dei saperi della psichiatria: da un lato, distruzione del ruolo dello psichiatra come soggetto di conoscenza e sacrificio della sua energia vitale alla causa, dall’altro, distruzione del sapere psichiatrico, “fuoco” al manicomio e demolizione dei luoghi istituzionali.

Questa impresa è stata all’insegna della perdita, da non considerare solo in senso negativo. All’epoca mi capitò fra le mani Bataille, il suo libro sulla dèpense (1992), che apprezzai molto e che mi fece capire come la perdita può inaugurare una possibilità, quella di creare pensiero, legame sociale, come avviene con il Potlatch delle popolazioni indigene, quando attraverso lo spreco dei beni si crea l’alleanza fra le tribù e si esorcizza la violenza. C’era quindi un aspetto creativo e propositivo, nonostante fosse all’insegna di un dispendio della propria vita, del ruolo, del prestigio, del sapere, del potere.

Questa è una cifra importante di tutto il movimento antiistituzionale: gli psichiatri hanno rinunciato a molte cose ed è singolare osservare come oggi facciano una corsa a riprendersele attraverso l’università e il suo sapere accademico oppure attraverso le aziende sanitarie e il loro potere manageriale, quello dei protocolli e della gestione dei bilanci. Per questo tu [Angiola Iapoce] sottolinei in maniera molto opportuna questo tema della dissipazione, perché – c’è poco da fare – è stata anche una cifra del lavoro di deistituzionalizzazione, che ha funzionato in quanto è stato all’insegna della perdita: perdita non fine a se stessa, sia chiaro, ma come stile di chi vuole decostruire la padronanza della postura psichiatrica che fino allora aveva dominato, attraverso il manicomio, il sapere psichiatrico, la clinica universitaria, etc.

A.I. Riguardo al “voto di povertà” – la sottrazione del sapere tramite la sospensione di ogni giudizio, di matrice fenomenologica – mi ha rimandato al pensiero di Walter Benjamin, in particolare il suo scritto Esperienza e povertà. Lo scritto è del 1933, anno cruciale della storia, e Benjamin stava soggiornando a Ibiza. Le sue condizioni fisiche erano molto precarie, aveva perduto le principali fonti di reddito (la situazione politica non lasciava spazio al pensiero dei dissidenti) e anche la salute ne risentiva: fame e malattia erano le condizioni di colui che i locali chiamavano el miserable.

L’associazione tra Benjamin e Basaglia si è insinuata nei miei pensieri a proposito del rapporto tra passato e presente, specialmente avendo come punto di riferimento un pensiero critico radicale. Per quanto riguarda Benjamin il tema è così centrale che meriterebbe un discorso a parte che ci porterebbe lontano. Mi limito a citare dal testo del 1933 sopra menzionato il passo in cui Benjamin, ipotizzando un futuro “antropologico” dopo il nazionalsocialismo, dice: «[gli uomini] anelano a liberarsi dalle esperienze, anelano a un ambiente in cui possano far risaltare la loro povertà, quella esteriore e alla fine anche quella interiore, con tanta purezza e nitore che ne esca fuori qualcosa di decente» (2018, p. 56-57). Ritorna quel tema della “povertà” e il suo doppio ruolo di deprivazione e possibilità.

Si potrebbe dire che Basaglia inquadra questa tematica all’interno di un soggetto costitutivamente contraddittorio: il soggetto della conoscenza, il soggetto del sapere?

P.D.V. Nella Prefazione al volume Il giardino dei gelsi curato da Ernesto Venturini, un testo del 1979, quindi successivo alla legge 180, Basaglia parla del “momento felice” in cui, «disarmati e privi di difese», gli operatori possono aprirsi a un “incontro diretto”, cioè non mediato «dalla malattia e dalla sua interpretazione», e grazie al quale può finalmente «emergere la soggettività di chi soffre di disturbi psichici» (Basaglia, in Venturini 1979, Prefazione). In quest’affermazione – vertiginosa per l’accostamento paradossale di un’estrema condizione di indigenza, di nudità, e della felicità – si coglie il nesso tra radicalità e povertà che potrebbe essere un po’ il nucleo segreto, il motore profondo dell’esperienza di Basaglia. Qui riemerge, infatti, chiaramente, la matrice fenomenologica, con la radicalità filosofica che le è propria. Ma tale matrice riemerge dopo quel fondamentale strappo che ha portato la fenomenologia a oltrepassare lo specchio, ossia dopo la rinuncia del soggetto del sapere alla sua volontà di verità rispetto alla follia, e alla costruzione di un nuovo legame sociale con chi soffre di disturbi psichici il cui esito legislativo è la riforma 180.

La radicalità di Basaglia non va perciò intesa staticamente, non va fissata in un momento o in una serie di momenti slegati tra loro, ma andrebbe piuttosto considerata in modo dinamico: la matrice fenomenologica e il suo “oltre” pratico e politico, continuando a inseguirsi, a scavalcarsi e ad accavallarsi, come nella trama di un tessuto, hanno dato luogo a un processo che si presenta come un formidabile intensificatore di povertà: al voto di povertà dell’epochè husserliana si è sommato il voto di povertà della concreta messa tra parentesi del sistema manicomio-malattia mentale, a cui si è poi sommato il voto di povertà successivo alla legge 180, dove, oltre alla vecchia identità di psichiatri manicomiali, bisognava rinunciare anche alla nuova identità di militanti contro il manicomio. Ed ecco che questo stato di massima povertà, di nudità, diventa per Basaglia il momento felice di un nuovo inizio, caratterizzato da un indistinguibile intreccio fenomenologico e pratico, clinico e politico: l’alba nella quale, dopo aver sgombrato il campo da tutte le incrostazioni scientifiche e istituzionali, e da tutte le identità statutarie, sia tradizionali sia militanti, sarà finalmente possibile aprirsi all’incontro con la “soggettività di chi soffre di disturbi psichici”.

Ripeto, c’è qualcosa di estremo, di vertiginoso e perciò difficilmente “tenibile” in questa posizione di Basaglia. E di certo non è stato facile, per chi è venuto dopo, mantenersi sul filo di questa condizione di estrema, iperbolica sospensione. Tuttavia, da tale posizione-limite di Basaglia si può almeno recepire l’appello a non sedere al posto dei vincitori, a non sentirsi appagati, a non occupare la posizione di chi detiene le “buone” risposte, per sperimentare invece la felice condizione di essere sempre un po’ sospesi nel vuoto e di continuare a interrogarsi in modo radicale.

M.C. La nozione di “dissipazione” ci insegna proprio che le risposte non bastano se le domande non restano aperte. L’ “utile” è un fattore importante, da perseguire, ma ha un fine relativo ed è monco se non è accompagnato dalla perenne domanda su di sé e sul proprio operare. Doppia dissipazione significa anche doppia ingiunzione che è richiesta al tecnico del sapere pratico per situarsi nelle istituzioni e fuori di esse, e significa anche doppio legame per cui il tecnico è sottoposto a due imperativi che possono essere anche in contraddizione tra loro. In breve, c’è una prima ingiunzione di Basaglia che dice di fare attenzione al particolare, di lavorare sullo specifico della propria situazione istituzionale, di rispondere ai bisogni reali dell’utente per restituirgli quella soggettività che il potere brutale del manicomio gli ha negato: non bisogna fare astrazioni intellettuali, né vagheggiare mitologie rivoluzionarie, ma agire pratiche reali e concrete di intervento. C’è poi una seconda ingiunzione di Basaglia, apparentemente antitetica alla prima, che suggerisce di uscire dall’ambito limitato della psichiatria e di allargare lo sguardo al generale della società per non restare confinati dentro situazioni specifiche. In altri termini, il rischio di una lotta limitata al particolare è quello di chiudersi in un’identità tecnica esclusiva che porta avanti solo una gestione del quotidiano e una semplice trasformazione positiva dell’istituzione, ma non attacca la logica repressiva e disumanizzante del potere su scala più ampia, in seno alla società capitalistica. Basaglia propone una vera militanza intellettuale che consenta una presenza culturale riconoscibile del tecnico all’interno del dibattito politico, per favorire un confronto allargato con esperienze appartenenti a campi disciplinari diversi. Da questo punto di vista, l’attenzione costante al particolare è fondamentale ma non può diventare assoluta, se non si vuole frustrare l’operatore e schiacciarlo in una routine lavorativa che non è sempre esaltante.

Abbattere i manicomi, costruire centri di salute mentale, cooperative di lavoro, strutture residenziali, disalienare il folle e restituirgli dignità e diritti, tutto questo è necessario ma non sufficiente. Oggi c’è un continuo richiamo da parte degli operatori al valore delle pratiche contro ciò che è tacciato di intellettualismo. Credo, tuttavia, che oggi, dietro il rifiuto della dimensione teorica, ci sia da parte degli psichiatri un certo atteggiamento di disimpegno, un sottrarsi a mettersi in discussione, sia sul piano culturale sia politico, intorno a quelle questioni fondamentali che riguardano la salute, la malattia, la normatività, l’esclusione sociale.

Il gesto “intellettuale” di Basaglia è stato in questo unico e fondamentale, è un esercizio che sottrae un pezzo al sapere tradizionale della psichiatria, perché non sia più un sapere pieno, assoluto e tronfio di sé. È la testimonianza di un saperci fare con la perdita di sapere, con il suo “buco”, e di una ricerca fuori dal sapere, nelle pratiche, di qualcosa che possa permettere al sapere di sopravvivere. Il sapere non è meno importante delle pratiche, ma le pratiche funzionano quando ci si priva con metodo del sapere che si è acquisito.

 A.I. Oggi siamo dentro questo sapere-potere della medicalizzazione della malattia, per meglio dire, della follia.

Mi sembra di aver capito dai vostri scritti, e anche da quello che ricordo in alcuni suoi stessi scritti, che Basaglia in qualche modo attribuisca un’origine storica al costituirsi del “malato mentale”, a catturarlo e fissarlo all’interno del sapere medico: ma anche il sapere medico ha una sua origine, e come tutto quello che ha un’origine può avere anche una sua trasformazione, una sua fine. E tutto ciò è storia.

Anche questo incontro con la sofferenza è qualcosa che fa uscire dalla specificità psichiatrica? Fa uscire dalla specificità psichiatrica in senso fenomenologico? Ci si riesce a giocare, nel mezzo, tra specificità psichiatrica e incontro con la sofferenza in senso più umano?

M.C. Non sono molto d’accordo su questa definizione di malattia come esperienza che nasce solo da un’origine storica. Negli anni Sessanta, soprattutto in quegli scritti del periodo in cui stava a Gorizia, gli anni dal ’64 al ’66 più o meno, Basaglia traccia un percorso, quello che si sta seguendo a Gorizia per smontare il manicomio e la diagnosi, cioè per decostruire l’istituzionalizzazione della malattia. Ma proprio in quegli scritti ci sono dei passaggi che spiegano che Basaglia non nega la malattia, anzi afferma chiaramente che essa esiste. Questo è il primo livello: la persona perde la sua libertà, innanzitutto perché ha una malattia. La malattia inficia la libertà. Poi, su questa perdita di libertà, causata dalla sofferenza, se ne sovrappone un’altra, che è quella causata dall’istituzione. Per Basaglia dobbiamo distinguere la perdita di libertà che deriva dalla malattia da questa sovrastruttura che è l’istituzionalizzazione, altrimenti il malato tenderà a confondere l’una con l’altra: la distruzione dell’istituzione manicomiale – e di tutte le istituzioni psichiatriche – è ciò che può permettere di lavorare sulla malattia.

Questa è una posizione di Basaglia che non sempre è stata ripresa, proprio perché ha prevalso l’idea, o meglio lo slogan, la libertà è terapeutica: elimino l’istituzione e questo automaticamente costituisce una cura. Basaglia dice qualcosa di più complesso: elimino l’istituzione, ma non è semplicemente questo l’atto che cura. Sopprimere l’istituzione mi permette di curare perché mi apre spazi di azione. La libertà è terapeutica perché permette di incontrare la sofferenza e di agire.

A questo punto come si procede? Bisogna riconoscere che Basaglia, da un punto di vista terapeutico, ha introdotto il metodo fenomenologico e la comunità terapeutica, ma ha parlato anche di psicoterapia, come risulta in testi quali Ansia e malafede o Corpo Sguardo Silenzio o altri ancora in cui si delinea chiaramente il gesto basagliano come metodo di cura che si costruisce nell’incontro con l’altro. Certo, Basaglia impiega anche metodi terapeutici psichiatrici tradizionali – escluse le tecniche di shock e di contenzione – come i trattamenti farmacologici. È evidente che non è mai stato contro i farmaci, anzi li usa, però è fermo nel sostenere che il farmaco non deve mai essere usato come mezzo di repressione. Inorridisce quando le persone vengono legate a letto e sedate dai farmaci. Coloro che legano dicendo: “Leghiamo così non diamo farmaci”, mistificano la realtà, perché quello che accade è che costoro legano e nello stesso tempo somministrano anche i farmaci. Basaglia contesta questo uso del farmaco al servizio del potere, come mezzo per sedare il conflitto e la contestazione.

Per Basaglia, la dimensione della sofferenza del malato è fondamentale, poi a un certo punto l’urgenza della distruzione del manicomio diventa prevalente. Qui si crea l’equivoco, cioè che la cura del malato stia solo nella sua liberazione dal giogo istituzionale. Ma Basaglia non intendeva questo. È chiaro che sospende tutti i saperi, ma questa è la contingenza del “momento felice” in cui diventa possibile progettare la rifondazione dei saperi. Purtroppo, Basaglia non riesce ad articolare questo punto, perché nel 1980 muore due anni dopo la promulgazione della Legge 180.

Oggi possiamo fare delle ipotesi su quello che si sarebbe potuto fare dopo. La mia opinione è che nel momento in cui sospendi i saperi, per poi riarticolarli e ricostruirli, non puoi metterli tutti sullo stesso piano. Questo è un problema che non è stato sufficientemente affrontato e approfondito. I saperi hanno delle differenze, che ritroviamo anche in Basaglia, per il quale il punto di vista fenomenologico non ha lo stesso valore del sapere biologico. Tutto il lavoro sull’enigma della soggettività è per Basaglia un lavoro importante. Certo, questo non risolve il problema dell’internamento manicomiale, però è evidente che ci sono dei saperi più in linea col gesto basagliano. Per essere chiari, non c’è dubbio che Basaglia dia maggior peso a Minkowski e a Foucault piuttosto che alla farmacologia. Questo non viene chiarito nel dopo Basaglia a causa di un generico antiintellettualismo portato avanti da alcuni suoi eredi. Ma si tratta di una trappola, perché così si è persa l’opportunità di continuare quel prezioso annodamento tra teoria e prassi che costituisce l’autentico capitale della sua impresa.

Dopo la morte di Basaglia non si fa abbastanza su questo punto: non è sopravvissuto negli anni un centro studi internazionale all’altezza della sua rilevanza intellettuale, non c’è una scuola di formazione capace di coniugare approcci diversi e anche estranei al mondo delle discipline psy, né una presenza significativa in ambito universitario per contrastare il monologo della psichiatria biologica; in generale, non si è strutturato un progetto di “dissenso culturale” in grado di tenere viva la preziosa originalità dell’esperienza italiana di deistituzionalizzazione; soprattutto, si è dimenticato che, per fare un buon lavoro in salute mentale, bisogna anche dotarsi di una formazione culturale allargata a quei saperi – filosofia, sociologia, psicoanalisi, teoria sistemica, pensiero della complessità, etnopsichiatria, analisi genealogica dei processi di riforma e delle esperienze più proficue dell’antipsichiatria, ecc. – che storicamente sono stati capaci di contestare i dogmi della psichiatria e di stimolare una capacità di riflessione critica.

P.D.V. Questa “equivalenza” dei saperi dipende dal fatto che, nella salute mentale italiana nata dall’esperienza del movimento antistituzionale, e in modo speculare rispetto al lascito del movimento francese della psicoterapia istituzionale, la vera partita non si gioca sul piano clinico, ma su quello socio-politico. Se fai delle buone pratiche di salute mentale, tu stai curando. Siccome però un po’ di tecnica ci deve comunque essere, allora fai un cocktail di modelli diversi, che si equivalgono e possono essere assemblati pragmaticamente, perché la priorità resta sempre l’intervento di carattere socio-politico. Insomma, l’aspetto propriamente clinico è sempre secondario, svolge una funzione gregaria e non è mai veramente interrogato come tale. In questo modo però, surrettiziamente, i nuovi modelli tecnici hanno finito per prendere il sopravvento, perché questa è la realtà della salute mentale mainstream. Se vogliamo, è il prezzo del mito di Davide che alla fine riesce a sconfiggere Golia (un po’ come si è pensato di “redimere” il mercato attraverso il modello dell’“impresa sociale”, mentre la realtà è un po’ diversa). Ovviamente, non si tratta di accettare il mainstream, di assecondare cinicamente i rapporti di forza; si tratta piuttosto di non coltivare illusioni che riducono la nostra reale forza di contestazione, finendo per rafforzare la realtà che abbiamo la pretesa di trasformare.

A.I. Potresti, Mario, approfondire il “gesto” basagliano. Come si struttura davvero una terapeutica che lavora molto sulla distanza, sull’intervallo, sulla capacità di tutelare lo spazio dell’altro?

M.C. Il gesto terapeutico di Basaglia è una sorta di pendolo che oscilla tra clinica e politica, tra sospensione della parola ed esercizio della negoziazione. La sospensione della parola non significa semplicemente restare zitti e lasciar parlare l’altro. Significa piuttosto fare spazio al silenzio dentro di sé. Significa resistere al fascino della propria parola e all’urgenza di dare una risposta. Significa sospendere le parole usuali, i saperi consueti che ci balenano nella mente, chiudere il serbatoio dell’esperienza professionale per non attingere più alle risposte già date, quelle a portata di mano – una spiegazione razionale, un farmaco efficace, un progetto di riabilitazione – addentrarsi nel silenzio, come in un territorio inesplorato. Prendere tempo. Rallentare. Attendere che qualcosa si riveli dalla parte dell’altro.

Tutto questo assomiglia alla sospensione tipica dell’epochè fenomenologica e nasce dalla necessità di non lasciarsi travolgere da ciò che già si sa sulla malattia, da quel rapido installarsi davanti agli occhi di schemi logori di idee e di gesti reiterati che inquadrano quella persona lì – quell’Antonio, quella Francesca – come “uno psicotico”, “una depressa”, perfettamente allineati nella schiera anonima degli psicotici e dei depressi, ebbene bisogna sostare sulla soglia delle parole della psichiatria, non pronunciarle, magari non pensarle: le definizioni, le diagnosi, le classificazioni…

Fare silenzio nel gesto terapeutico vuol dire far posto alla parola dell’altro, prendersene cura, soprattutto quando questa ci appare fuori dal nostro mondo di certezze. Vuol dire introdurre un tempo di pausa, che è anche un tempo di stupore di fronte alla parola dell’altro, all’estraneità della sua logica, che arriva di soppiatto, imprevista, dall’apparenza minacciosa e senza governo. Tempo di pausa, ossia tempo di attesa, prima di far entrare in scena le evidenze di una quotidianità che pretendiamo essere naturale nel suo funzionamento.

Il gesto di Basaglia sta tutto nella capacità di saperci fare con la distanza che ci separa dall’altro, di abitarla senza occuparla e senza farsene padroni. In questa distanza, il silenzio è un’esperienza fondamentale, qualcosa di più profondo della semplice astensione dalla parola e dal giudizio, intervallo indispensabile per tutelare la propria intimità, spazio per proteggersi dall’invasione dell’altro.

Ma nel gesto di Basaglia non c’è solo la sospensione della parola, c’è anche l’esercizio della negoziazione. Negoziare è l’altra faccia del fare silenzio e comunque si fonda sempre sul rispetto della parola dell’altro. Negoziare significa mettersi all’ascolto delle ragioni dell’altro che chiede, reclama, esige, ma che, talvolta, disturba, offende, aggredisce: l’altro che non ci sta, che non acconsente, che è riottoso, l’altro che per Basaglia rappresenta il primo fondamentale interlocutore, colui che resiste alla disciplina istituzionale e che fa valere la sua voce di persona all’interno di un sistema che lo vuole ridurre a semplice malato. Basaglia inaugura una vera e propria clinica della negoziazione, che si propone una ricerca rigorosa di un percorso di risoluzione della crisi e di cura della persona sofferente nel rispetto della sua dignità e dei suoi diritti, da anteporre sempre a esigenze di controllo sociale e a istanze di sicurezza.

Nella stagione attuale senza manicomi questa pratica della negoziazione esige una formulazione attenta, soprattutto quando è necessario un intervento forte e deciso, per esempio quando occorre infrangere un ostinato ritiro sociale per una grave condizione di psicosi (immaginiamo la situazione drammatica di un trattamento sanitario obbligatorio per rispondere a una condizione di solitudine, abbandono, sporcizia, magari all’interno di un’abitazione spaventosamente ricolma di oggetti accumulati). Come salvaguardare, dinanzi all’urgenza del fare, l’intervallo che è indispensabile al soggetto per difendere il proprio esile perimetro personale? Se si perde la capacità di fare epochè, che fine fa la ragione dell’altro? Come trovare il tempo giusto dell’azione e il modo di passare da questa pausa di silenzio a una parola prudente? Quale metrica dei significanti è opportuna per entrare con leggerezza in questa zona di sospensione del linguaggio? Come incedere adagio senza che, allo stesso tempo, l’esitazione sia scambiata per inoperosità, senza che la lentezza diventi inerzia? Come si tutela la distanza in questa situazione? Quale spazio dell’altro sopravvive alla furia di una normalità da ristabilire, alla violenza della ragione, sia pure la ragione della salute mentale, dell’inclusione sociale, della piena cittadinanza, della restituzione dei diritti?

Non è facile rispondere a queste domande perché quel trattamento sanitario obbligatorio può costituire un’azione necessaria e legittima. Come pure è necessario e legittimo cercare con pazienza e tenacia di ottenere il consenso di una persona al trattamento, e, quando non ci riusciamo, di farci carico del suo rifiuto, e di tutelare la sua libertà con il paradosso dell’obbligo, facendo valere il suo diritto a essere curata. Comunque vada, dobbiamo essere consapevoli che siamo su un crinale scivoloso, quello che separa la sofferenza della persona dalle regole della città, e dobbiamo accettare che l’equilibrio è instabile perché bisogna instancabilmente negoziare tra le sue parole “folli” e le nostre presunte “normali”.

A.I. La follia, con la sua oscurità e imprendibilità, deve continuare a interrogare i saperi già costituiti e strutturati, nonostante la storia del pensiero occidentale abbia fatto della follia e delle altre esperienze-limite, di cui uno dei principali vati è stato Bataille, un oggetto di conoscenza. Giocando sul doppio enunciato “follia” o “malattia mentale”, voi operate con un “taglio differenziale” con cui i due termini configurano il rimando continuo tra le stratificazioni storicamente e socialmente determinate della “malattia mentale” e il continuo sovvertimento della follia che ha in sé quella a-razionalità che sempre scappa dalle maglie della storicizzazione.

 P.D.V. Basaglia usa il termine “malattia mentale” perché ne riconosce la realtà storica, il fatto cioè che la follia sia stata a un certo punto codificata come malattia mentale, e che questa codificazione non sia solo una questione di scienza, ma anche di istituzioni, di leggi, di relazioni concrete di potere, oltre che di rappresentazioni sociali. Per questo aggiunge sempre il significante follia, per riattivare quell’eccedenza di cui dicevamo, l’eccedenza della follia come esperienza, come prova. Nelle Conferenze brasiliane, enuncia questa celebre frase: “Non so che cosa sia la follia, la follia è una condizione umana”. Ebbene, in un intervento a Montréal del 1973, Foucault fa un’affermazione illuminante: “La razionalità sociale è refrattaria ad accettare un’esperienza della follia che sarebbe una prova di verità senza il controllo del potere medico”. Qui risuonano per me tanto Bataille quanto Basaglia, perché in fondo di questo si tratta: ridare forza all’esperienza, alla condizione umana della follia, farne anche una prova di verità, eccedente rispetto al potere-sapere medico. Ovvero, più in generale, giocarsi una partita di verità “ai limiti” dell’umano.

M.C. Qui si potrebbe mettere in discussione una certa lettura che è stata fatta del senso dell’esperienza di deistituzionalizzazione a Trieste: Franco Rotelli, successore di Basaglia alla guida del Dipartimento di salute mentale, sosteneva che l’azione fondamentale degli psichiatri a Trieste non era stata tanto la deistituzionalizzazione del manicomio, quanto la deistituzionalizzazione della follia, cioè l’aver dimostrato che in fondo la follia è una costruzione.

L’ultima intervista di Rotelli, rilasciata cinque giorni prima della morte, è molto significativa al riguardo (Saraceno, Gallio 2023): ciò che cura non sono i centri di salute mentale, ma gli artisti, il teatro, i pittori, la musica ecc. Su questo punto non sono d’accordo. Gli artisti sono importanti, ma questa idea della cura mi sembra ingenua, soprattutto non rappresenta Basaglia. Non è la follia una costruzione, semmai la psichiatria quando riduce la follia a sola malattia. Quando Basaglia dice: “io non so che cosa sia la follia”, si pone rispetto alla follia in un atteggiamento di sospensione per il quale la follia è al suo fondo un enigma, qualcosa che comporta una grande sofferenza e a cui devo cercare di dare ascolto e un aiuto adeguato. Su questo punto non possono esserci ambiguità, altrimenti l’eredità di Basaglia rischia di essere dimenticata perché per lui la follia resta comunque una fonte di interrogazione, che non si affronta solo sul piano artistico o socio-politico della liberazione, ma anche su quello clinico di una cura che possa dare aiuto.

P.D.V. Oggi dovremmo cercare di fare un po’ di chiarezza sull’eredità di Basaglia, mostrarne le contraddizioni e le sfaccettature, cosa che, negli ultimi quarant’anni, non si è fatto, perché Basaglia è diventato la bandiera sotto la quale si raccoglievano indistintamente posizioni diverse. Il nodo principale, che impedisce di fare chiarezza, è probabilmente l’esperienza di Trieste. Da quando, nel 1971, è chiamato da Michele Zanetti a dirigere l’ospedale psichiatrico, Basaglia c’è e non c’è a Trieste: c’è, perché è pur sempre lo psichiatra che dirige il manicomio; non c’è, perché sta emergendo in modo dirompente il suo ruolo politico, che ne sollecita continuamente la presenza altrove, su altri tavoli. Trieste è quindi anche la scena di uno sdoppiamento o di un raddoppiamento della leadership, e oggi, per fare chiarezza sull’eredità di Basaglia, bisognerebbe in primo luogo ridare a Cesare quel che è di Cesare. O meglio, bisognerebbe ridare ai Cesari quel che è dei Cesari: da un lato Basaglia, dall’altro il gruppo di giovani psichiatri giunti a Trieste sulla spinta del ’68, e dal quale emergerà la leadership di Franco Rotelli. Chi conosce l’ambiente triestino sa che non c’è nessuna novità, nessuno scandalo a dire questo, giacché è proprio quello che non si è smesso di ripetere, magari sottovoce, in tutti questi anni, e cioè che l’esperienza di Trieste è stata molto meno basagliana di quello che si tende a credere. Il problema è che proprio la dirigenza triestina ha alimentato questa credenza, coltivando questa confusione, questa ambiguità, e creando così il mito di una continuità, quasi teleologica, tra l’istituzione negata e l’istituzione inventata, per intenderci. Questa pretesa continuità rende oggi molto opaca l’eredità di Basaglia, e molto difficile e problematica la possibilità di discuterne apertamente.

In particolare, la posizione, secondo noi poco o per nulla basagliana, e che Rotelli ha difeso fino alla fine, è che l’emancipazione dei folli, ossia la possibilità di ridare loro “potere”, in senso sociale e politico, il pieno potere di cittadinanza, dipenda dalla possibilità di emanciparsi dal “sapere” stesso, perché il sapere sarà sempre qualcosa che sovradetermina i loro bisogni. Questo tuttavia è un formidabile vulnus. Se pensiamo per esempio all’etnopsichiatria critica, oggi in prima linea nella presa in carico di quell’inestricabile mix di sofferenza soggettiva e di contestazione politica che è l’esperienza dei migranti, ci rendiamo conto al contrario di quanto il “sapere degli altri” sia centrale, e di come esso funzioni da pivot per continuare ad articolare e intrecciare la dimensione clinica e quella socio-politica. Ora, quello che noi proviamo a fare, ormai da vari anni, è ricentrare Basaglia su questo nesso clinico-politico: le pagine del libro in cui Mario articola la capacità di “fare silenzio” dinanzi alla sofferenza delle persone, con quella di “negoziare” con loro la possibilità di partecipare al gioco sociale, delineano le coordinate di quella che potrebbe essere oggi una clinico-politica basagliana (cfr. Colucci, Di Vittorio 2024b, pp. 63-70).

Più in generale, il sapere degli altri è l’insurrezione dell’eccedenza: non si sarebbe mosso nulla nelle nostre società senza i movimenti di contestazione, senza il femminismo, senza la cosiddetta antipsichiatria, senza l’emergere della questione razziale e della questione di genere. Pensiamo per esempio al Black Marxism, alla contestazione, da parte del sapere nero, del marxismo bianco che dimentica o cancella l’irriducibile eccedenza della questione razziale. I saperi degli altri, i saperi “minori”, per dirla con Deleuze e Guattari, rompono l’assedio in cui siamo intrappolati, liberando nuove energie critiche e creative. Sono i granelli di sabbia che inceppano il sistema, i buchi da cui il sistema cola fuori, fuggendo altrove. Per questo misconoscere i saperi degli altri significa privarsi della forza che permette di trasformare la realtà.

 M.C. Basta ripensare alle assemblee di Gorizia, dove nascono tantissime cose, lì c’è qualcosa di veramente inedito, in cui Basaglia e il suo gruppo dimostrano un’abilità straordinaria, perché fanno un’operazione molto rischiosa: in fondo, si tratta di persone internate, spesso da molti anni, alcune affette da quello che oggi viene chiamato un disturbo delirante paranoideo. Ebbene, Basaglia e i suoi da un lato fomentano la loro aggressività, la loro conflittualità contro l’istituzione, proiettando filmati su Martin Luther King e le manifestazioni dei neri oppure su Auschwitz per parlare della violenza sugli ebrei, ed esplicitando il messaggio: “Guardate, voi siete come loro, siete degli esclusi!”. L’internato, che vive il contesto manicomiale, è portato a dire: “Io sono come quelli dei film, anche voi ce l’avete con me”. Dall’altro lato Basaglia non dimentica che quelle persone soffrono anche di un disturbo, e che rispetto al mondo patiscono già di un vissuto di persecutorietà. Questo processo di istigazione si muove, quindi, sul filo del rasoio, perché, nel momento in cui si fanno montare il conflitto e le ostilità reciproche tra curanti e curati, si stimola anche una sorta di pensiero paranoico che potrebbe diventare impermeabile al dialogo (Colucci 2022). La complessità del gesto di Basaglia e del suo gruppo sta nell’elaborazione continua di tale pensiero, tramite un esame critico delle contraddizioni e il contributo della voce di tutti, per tenere insieme la percezione individuale di una sofferenza mentale con la coscienza collettiva di un problema sociale. Lo sforzo è quello di tenere insieme sia la clinica che la politica attraverso un’operazione di “dosaggio” dei due campi: cerca di asciugare la clinica a vantaggio della politica, anche se la clinica fa resistenza e comunque continua ad avere la sua importanza. Questo, secondo me, non si è capito. La politica non sopprime completamente la clinica: non è vero che l’internato non è più matto, ma è solo escluso. Può esserlo in alcuni casi, ma non in tutti. Gli internati sono matti ed esclusi, perciò è fondamentale mettere la quota di follia presente in una cornice diversa; come pure mantenere in equilibrio il rapporto tra clinica e politica.

P.D.V. Ma è proprio questa tensione tra clinica e politica che può oggi “infastidire” la razionalità gestionale in cui siamo immersi, insabbiati.

M.C. È così, non si può semplicemente dire a una persona: “Guarda che ti stanno sfruttando, ti stanno facendo una violenza istituzionale”, e credere che con questo spostamento si sia risolto il problema.

P.D.V. L’unico modo, oggi, per scalfire l’attuale configurazione socio-antropologica, l’uomo a una dimensione della razionalità manageriale, consiste nel reimmettere nella nostra vita articolazione, tensione, complessità. Sotto la maschera della burocratizzazione, la nostra esistenza è saturata da tale razionalità, sia nella sfera privata sia nella sfera pubblica, e questo rende il tempo della vita, come direbbe Benjamin, continuo e omogeneo: un tempo che è catastrofe.

Spesso gli operatori dicono che “non hanno tempo” per incontrarsi, riflettere, discutere e magari immaginare di cambiare le cose. Si tratta allora, oggi come ieri, di rubare il tempo a chi ce lo ruba, per porsi insieme domande, per investire sulla complessità, per far circolare discontinuità ed eterogeneità nel sistema.

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 A.I. Ritornando al “ruolo” dello psichiatra, si parlava prima di “vertigine identitaria”. Ora, la vertigine identitaria trascina con sé inevitabilmente un’altra questione, che è quella della constatazione del fatto che vivere e pensare è anche contraddirsi, ci si apre cioè al posto che occupa la contraddizione all’interno del pensiero e della vita, al suo “valore”, e con ciò si profila la problematica della “verità” all’interno di figure contraddittorie. Se prendiamo Foucault, specie quello dei suoi ultimi anni, per lui la verità coincide con l’opinione ma senza che questo generi una deriva relativistica. «Quando per esempio qualcuno vede un amico che sta commettendo un errore e rischia di incorrere nelle sue ire dicendogli che sta sbagliando, costui sta agendo da parresiastes [colui che dice la verità]» (p. 7). Questa verità è vera in quanto sua verità che è stata espressa a rischio del pericolo, in questo esempio di rompere il legame di amicizia, ma a volte le circostanze mettono anche a rischio la propria vita.

Il nesso tra contraddizione e verità è molto denso e diluirlo implica un impegno intellettuale e personale di grande impatto.

Se il posto di Basaglia è sempre a fianco degli esclusi, dalla parte dei “poveri”, per lasciare lo spazio necessario alle voci che dissentono, ai perdenti, la sua lotta al potere è sempre tesa ad esplicitare quella che è l’unica verità sui rapporti umani che sempre si intrecciano al potere: che è la verità della contraddizione.

Tensione, contraddizione, complessità… sembrano essere queste le parole che possono dar senso a un’idea di verità, e anche questo punto segue la linea di Foucault.

Io mi sento di articolare questo discorso, che è di estrema importanza e di estremo valore, con un’altra questione che ritengo altrettanto fondamentale e che apre ad un campo ancora in parte da dissodare: è la questione degli affetti, dell’affettività.

Io ho dell’affetto una concezione molto ampia che comprende tutto ciò da cui un essere umano è “affetto”, quelle dimensioni passive, patiche (da pathos) che ricoprono l’intera gamma delle esperienze psichiche. Bataille ne ha descritto gli aspetti più estremi, quelli dell’erotismo, della criminalità, della follia, a cui si possono aggiungere le esperienze interiori del sublime e delle ascesi mistiche. Si tratta di punti-limite ma che, ridotti quantitativamente, ci riguardano nel quotidiano.

Tensione, contraddizione, complessità… sembrano queste parole chiave anche per Jung. Psicologia complessa voleva essere il primo nome da dare alla sua teoria, a cui poi preferì Psicologia analitica, con cui oggi noi la conosciamo. Il “complesso a tonalità affettiva”, che è una formazione bio-psico-sociale e che rappresenta l’“unità psichica minimale”, pone inevitabilmente Jung in una posizione di “complessità” antiriduzionistica.

Sotto il mantello della “complessità” noi possiamo mettere molto, innanzitutto quella questione del “tempo” di cui parlava Di Vittorio, possiamo cioè distendere la nostra azione di “cura” e intraprendere una “via lunga”, per dirla con Ricoeur. Certamente, gli affetti oggi sono la sfera psichica che avrebbe maggior bisogno di attenzione e di “tempo”, almeno secondo me. Ma anche gli affetti hanno, per così dire, un sapere (e potere) già istituzionalizzato. Penso al ’68, ai tanti film sulla “vera” struttura su cui si reggono i rapporti nella famiglia, sui sentimenti di aggressività, di odio, che muovono più o meno apertamente l’impostazione dei legami famigliari. Ricordo lo sconvolgimento provocato dal film I pugni in tasca, che ha rappresentato una vera e propria rivoluzione tanto sul piano formale quanto per i contenuti espressi, sia pure al loro estremo. Così come all’epoca ricordo i tanti libri sulla “morte della famiglia”, sui “frammenti di un discorso amoroso” e così via.

Penso che uno dei punti difficili della posizione di Basaglia possa essere quello della possibilità di tenere insieme radicalità di pensiero e di azione in nome della fondamentale verità della contraddizione, da un lato, e i legami affettivi, specialmente quelli che pertengono alla sfera privata, dall’altro.

Negli Atti del Convegno del ’77 del Reseau di alternativa alla psichiatria (1980) viene accennato, brevemente ma significativamente, che l’istituzione che fa assistenza si pone come «elargitore di beni mentre in realtà lascia pressoché inalterata la situazione dei bisogni» e poi in modo molto significativo il testo continua: «fare assistenza significa scegliere di trattare ogni caso di bisogno separatamente, interpretando le cause dello stesso come dovute e legate esclusivamente all’individuo, avulso da un contesto socio-economico ed ambientale […], di conseguenza addossando completamente al privato la causa del proprio stato di disagio, sostenendo valori moralistici spettanti solamente al nucleo, come il dare e provvedere sempre e comunque ai figli ed agli altri membri» (p. 196, corsivo mio).

Insomma, cosa accade se sentimenti e verità entrano in contraddizione, essendo necessario salvare entrambi? Cosa pensate voi su questo continuo rimando che mai si acquieta, sulla costante “eccedenza” della follia, pensate che abbia a che fare con il pathos degli affetti, intesi in quel senso ampio di cui parlavo sopra?

Dopo aver ricevuto il Nobel nel 1957, Albert Camus disse ad alcuni studenti che gli chiedevano del padre morto nella battaglia della Marna: “Credo nella giustizia, ma prima della giustizia proteggerò mia madre”. Metteva in luce la centralità dell’individuo e il valore degli affetti al di sopra di ogni lotta, sia pur ritenuta giusta, ma che può rovesciarsi nel suo contrario. Summum ius, summa iniuria

 P.D.V. La questione è complessa e mettendo in gioco proprio il pathos, tocca la mia personale esperienza e quindi anche la questione dei “limiti”. Pur lavorando a stretto contatto con gli operatori psi-, a causa del mio profilo culturale, in particolare della postura storico-critica mutuata da Foucault, ho sempre cercato di non oltrepassare il limite, e forse per questo, per tenermi un po’ a distanza, ho sviluppato una certa “allergia” per l’approccio psicologico. Successivamente però, per una serie di circostanze, ho “sconfinato” e considero questo sconfinamento un’esperienza per me molto “formativa”. In questo modo, si è aggiunto un elemento fondamentale al mio bagaglio: il riconoscimento della “sofferenza” (del pathos) dell’altro.

Tale riconoscimento mi ha sempre posto problema, a causa della sua fondamentale ambivalenza: mentre si tende una mano all’altro che soffre, proprio a causa di tale sofferenza si tende a prenderlo per mano, a metterlo sotto tutela; l’insidiosa tutela di un sapere sull’altro, a partire da una sofferenza codificata come “malattia” o come “disturbo”, ecc.

Un giorno però mi sono posto la seguente domanda: la mamma che, secondo la teoria di Bateson, invia messaggi contraddittori a suo figlio, destinandolo all’impotenza e al fallimento, lasciandogli la follia come unica via d’uscita, e sviluppando su di lui un’inesorabile forma di controllo, di dominio, ebbene, perché lo fa? Qui è scattato il riconoscimento della sofferenza dell’altro, o se si preferisce qui sono entrato in risonanza con il pathos dell’altro (cioè qui ho cominciato, letteralmente, a “com-patire”): forse, mi sono detto, questa mamma lo fa perché è anche lei portatrice di sofferenza; forse prova a esercitare una forma di ipercontrollo, perché in realtà non padroneggia nulla, perché è fragile, persa, perché lei stessa si sente esposta al fallimento e all’impotenza. Lo stesso si può dire per la paranoia: anch’essa può nascere su un fondo di grande incertezza e insicurezza.

Insomma, si capisce come la consueta analitica del dominio, dell’assoggettamento, di tutte le forme di ipercontrollo (che oggi hanno a mio avviso molto a che fare con la paranoia e i double bind schizogeni circolanti nello spazio sociale) è stata bucata da una prospettiva supplementare, che la ampliava nel momento stesso in cui la metteva in perdita. Questa prospettiva, per quello che ho potuto sperimentare, è precisamente la posizione psi– come riconoscimento del pathos dell’altro. Attenzione, questo non significa accomodarsi in tale posizione; non significa evacuare il disagio, perché la posizione psi-, ed è questa la vera scoperta che mi porta oggi a “simpatizzare” con chi la occupa quotidianamente, resta fragile, rischiosa, altamente problematica. Ciò che per me è stato formativo, è stato riconoscere che non è uno spazio assicurato, garantito, pacifico, ma al contrario il terreno mobile, incerto, di una scommessa decisiva e mai risolta una volta per tutte.

A partire dal riconoscimento della sofferenza dell’altro, si aprono infatti due strade: seguendo la prima, posso costruire sulla sofferenza dell’altro un sistema teorico-diagnostico che mi serve, sia per mettere a distanza la sua sofferenza, trincerandomi in una corazza difensiva, sia per organizzare una forma di tutela, esercitando su di lui un eccesso di potere (lui è il malato, e siccome io sono qui per curarlo, posso tutto su di lui); seguendo la seconda, posso invece fare della sofferenza dell’altro l’“estrema” risorsa per preservare e rinsaldare il legame con lui (persisto nella relazione con te, anche se ti detesto e mi piacerebbe tanto sbatterti fuori della mia vita). Anche qualora la rottura del rapporto ci apparisse come la cosa più giusta da fare, il pathos dell’altro, che ci affetta, può diventare la linfa per continuare a nutrire il rapporto.

Ovviamente questa biforcazione è lo spazio di un’oscillazione inesauribile: pur prendendo una strada, l’altra continua a esistere, e non posso quindi mai essere del tutto “padrone” della strada che sto percorrendo. Ed è proprio questo, mi sembra, a fare della posizione psi– una scommessa rischiosa e interminabile.


Concludiamo qui l’intervista/conversazione che è stata per me un’esperienze estremamente vitale, in cui ho rivisitato il mio passato personale e quello di un’epoca lontana, constatando che non è qualcosa di morto e di inerte ma che si ripropone, non solo con l’inevitabile nostalgia del ricordo di un momento di grande impegno e di crescita, ma anche con il rafforzamento, oggi al presente, della consapevolezza che ci si può, e anche ci si deve, defilare rispetto al mainstream culturale, in nome di fatti ed esperienze che continuano a chiedere di essere espressi e con questo dicono il loro valore.

Desidero così esprimere il mio grandissimo ringraziamento ai due intervistati, Mario Colucci e Pierangelo Di Vittorio che hanno accolto la nostra proposta, ci hanno raccontato la loro esperienza con grande disponibilità e ci hanno partecipato del loro pensiero con riflessioni acute e profonde che contribuiscono in modo determinante e significativo a tenere in vita l’esperienza di Franco Basaglia.


Note

  • 1 – Complessa l’argomentazione lacaniana su questo punto e numerosi i riferimenti: Lacan 1974, 2008, 2013; Colucci, Di Vittorio 2024a, pp. 253-256.
  • 2 – Questa conversazione è stata recentemente pubblicata a cura di Marica Setaro (Basaglia 2024).

Bibliografia

  •  Atti e documenti del Reseau di alternativa alla psichiatria 1980, Il circuito del controllo. Dal manicomio al decentramento psichiatrico, Edizioni Cooperativa Libraria-Centro Culturale Via Gambini, Trieste.
  • Basaglia F. 2024, Fare l’impossibile. Ragionando di psichiatria e potere, a cura di M. Setaro, Donzelli, Roma.
  • Bataille G. 1992, La parte maledetta, tr. it. di F. Serna, Bollati Boringhieri, Torino.
  • Benjamin W. 2018, Esperienza e povertà, trad. e cura di M. Palma, Castelvecchi, Roma.
  • Colucci M. 2022, Clinica e politica della paranoia, in Aa.Vv., L’altro che è in noi. Soggetti e istituzioni, in «aut aut», n. 395, pp. 74-84.
  • Colucci M., Di Vittorio P. 2024a, Franco Basaglia. Pensiero, pratiche, politica, Meltemi, Roma.
  • Colucci M., Di Vittorio P. 2024b, Franco Basaglia. Un intellettuale nelle pratiche, Feltrinelli, Milano.
  • Foucault M. 1996, Discorso e verità nella Grecia antica, Donzelli, Roma.
  • Lacan J. 1974, Varianti della cura-tipo, in Id., Scritti, trad. di G. Contri, Einaudi, Torino, vol. I.
  • Lacan J. 2008, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi, 1959-1960, trad. di M.D. Contri, Einaudi, Torino.
  • Lacan J. 2013, Proposta del 9 ottobre 1967 sullo psicoanalista della Scuola, in Id., Altri scritti, trad. di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino, pp. 241-256.
  • Saraceno B., Gallio G. 2023, Il futuro delle politiche di salute mentale nell’ultimo dialogo con Franco Rotelli, in «aut aut», n. 399, pp. 169-195.
  • Venturini E. 1979 (a cura di), Il giardino dei gelsi. Dieci anni di antipsichiatria italiana, Einaudi, Torino. 

 

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