
2020 Nuova Serie Numero 1 Il Grande Schermo: risonanze analitiche
A CURA DI CATERINA ROMAGNOLI Le immagini, con la loro indeterminatezza simbolica e con gli spazi vuoti in esse contenuti, rappresentano una delle chiavi per aprire la porta dell’inconscio. In questa prospettiva il cinema è una delle arti favorite per questa lettura. La rubrica Il grande schermo ospita emozioni e riflessioni sulle due espressioni immaginali: lo sguardo del cinema e lo sguardo della psiche.
Nostalghia
I pensieri che seguono intendono proporre, nella forma di una breve ed essenziale presentazione, alcuni spunti di riflessione sul film propostoci nell’ambito delle attività del Cineforum del CIPA, Nostalghia di Andrej Tarkovskij.
A mo’ di premessa, inizierò, sul piano di una linea di riflessioni più diretta e personale, con alcune suggestioni provenienti dal vivo della mia esperienza analitica.
Molti anni fa, dovendo scrivere la mia tesi per diventare analista del CIPA, scelsi come tema la nostalgia: tema in vero a me molto familiare, essendo io venuta dall’Austria a vivere in Italia. Allora, il sentimento di nostalgia per me era in gran parte non consapevole, ma nasceva da un sentimento vago di lontananza e dalla mancanza di qualcosa che appariva irraggiungibile. Notavo, fin da quel tempo, che esso prendeva forma soprattutto attraverso vari canali sensoriali: la vista di un lago alpino, il sapore di un dolce, l’odore del muschio durante una passeggiata nei boschi, il ricordo di un particolare tema musicale, lo scaldarsi in una fredda giornata d’inverno vicino a una stufa di maiolica.
Per lo svolgimento della tesi, scelsi di far riferimento alcuni autori junghiani che si erano occupati del tema: Mario Jacoby, Marie Luise von Franz, James Hillman. Ma è stata la mia esperienza di analista con pazienti sofferenti di nostalgia, la malattia dolorosa del ritorno impossibile, che ha ampliato il mio sguardo. Di conseguenza non mi rifarò al pensiero di questi autori, cercherò piuttosto di utilizzare qualche riflessione nata dal mio lavoro clinico. Faccio una premessa: io lavoro molto frequentemente con pazienti stranieri, utilizzando sia la mia madre lingua tedesca, sia quella inglese con pazienti di nazionalità e di culture diverse.
I pazienti stranieri portano in analisi il loro sentimento di nostalgia, anzi molte volte è proprio la nostalgia a divenire il tema centrale del lavoro analitico.
Cercherò adesso di dar voce a questa particolare esperienza interiore.
Molti di questi pazienti sono venuti in Italia per motivi legati a particolari circostanze di vita, di lavoro, di studio; la cosa più immediata è quindi che essi trovino nella realtà esterna il motivo del loro allontanamento dal paese di origine. Tuttavia, mano a mano che il lavoro analitico procede, la loro storia viene però narrata differentemente. Essi si rendono conto che anche quando erano nel loro paese vivevano sentimenti di estraneità, alienazione e di non appartenenza al gruppo originario, compresa la loro famiglia. Da questo punto di vista, il trasferimento in un paese straniero appare come la conseguenza di questo stato psicologico di non appartenenza, nascendo dunque dal bisogno di trovare un luogo che possa dare un senso alla loro vicenda. Compare, allora, la strana percezione che, stando all’estero, lo stesso sentimento di estraneità inconsapevolmente provato in patria diviene veramente consapevole; e così, essendo riferito ad una realtà esterna, esso si fa più ragionevolmente sopportabile e condivisibile con altri ‘esiliati’, che si trovano nella stessa condizione.
Come mi disse una volta una paziente:
Quando qui a Roma vado con l’autobus e guardo gli italiani, così diversi nella loro gestualità, la loro lingua quasi cantata, la loro corporeità così espressiva, mi sento di non appartenere a questa realtà, ma è un sentimento che mi è noto da sempre e che qui trova una sua giustificazione, perché io non sono italiana.
Come giustamente ha notato la mia paziente, non è solo la lingua che è diversa, ma anche il linguaggio non verbale, la gestualità. Mentre l’apprendimento della lingua è un atto cognitivo – per cui posso studiare i vocaboli e la grammatica – che fa parte della memoria esplicita –, la gestualità s’inscrive in un altro registro. Si tratta, infatti, di qualcosa che s’impara da piccoli, per imitazione, e che rientra nella nostra memoria implicita, per cui ci vuole molto più tempo, da adulti, per impadronirsi di una nuova.
L’unica cosa che i pazienti stranieri si possono portare con se stessi dalla propria patria è la loro madre lingua. Molti poeti che hanno scelto di vivere in un altro paese hanno sottolineato l’importanza della loro madre lingua all’estero, l’unica àncora di sicurezza. Come dice Antonio Prete nel suo articolo L’assedio della lontananza, per uno scrittore, per un poeta, è la lingua la sola patria (Prete 1992, p. 26). Da qui, l’importanza per i pazienti stranieri di poter fare l’analisi nella propria madre lingua. I casi più interessanti sono i pazienti bilingue che si possono esprimere in tutte e due lingue e che in certi momenti particolari della terapia saltano da una lingua all’altra. Altro caso è quello dei pazienti di madre lingua tedesca che scelgono me come analista proprio perché di madre lingua tedesca, ma che poi invece cominciano la terapia parlando in italiano. Spesso, solo dopo un lungo periodo di analisi essi proseguono la terapia nella nostra comune madre lingua. Io, da parte mia, non scelgo mai la lingua, ma mi adeguo alla lingua scelta dal paziente.
Questi pazienti, che hanno scelto apparentemente in modo volontario di lasciare il loro paese, in verità vivono una condizione psicologica analoga all’esilio con tutte le emozioni dolorose di perdita, separazione, sradicamento e nostalgia. Come nel caso dell’esilio politico, anche in quello volontario manca la speranza del ritorno, del nostos. In questi casi la condanna all’esilio non viene espressa da un tribunale politico, bensì da un tribunale interno. È una costrizione psichica che induce i pazienti a lasciare il proprio paese per cercare di radicarsi da un’altra parte e per cercare un nuovo senso e un nuovo significato nella loro vita. Josef Brodskij nel saggio La condizione che chiamiamo esilio afferma che: «È la ricerca di un significato a costruire molto spesso il succo della carriera di uno scrittore […] nel caso di uno scrittore in esilio è quasi invariabilmente la causa del suo esilio» (Brodskij 1988, pp. 31-32).
Ma torniamo ai pazienti stranieri i quali, per lenire il sentimento di nostalgia, tornano regolarmente a casa per Natale o nelle vacanze estive; lo fanno con grande aspettative e speranze, ma ne tornano regolarmente amareggiati: «È stata una delusione. Non ho trovato quello che cercavo. Non ho sentito le emozioni di una volta». Spesso sono questi i commenti al loro ritorno. Come mai? Perché la loro nostalgia non si placa con il ritorno? Dice Vladimir Jankélévitch, il filosofo russo ebreo esiliato a Parigi: «La nostalgia non è quindi soltanto un male che ha bisogno di un rimedio, ma è anche l’inquietudine causata dall’insufficienza di tale rimedio. In questo senso il mal-del-ritorno si chiama delusione. L’indomani stesso del ritorno, la delusione ha preso il posto della nostalgia» (Jankélévitch 1992, p. 143). Colui che soffre di nostalgia cerca inutilmente di ritrovare quello che ha lasciato e ha perduto, ma questo è impossibile perché le circostanze sono inevitabilmente mutate dal tempo che passa. Inoltre, egli stesso non è più quella persona che viveva in quelle circostanze; egli stesso è cambiato. Il trascorrere del tempo è la causa del dolore inestinguibile di colui che soffre di nostalgia. Dice ancora Jankélévitch: «Il vero oggetto della nostalgia non è l’assenza contrapposta alla presenza, ma il passato in rapporto al presente; il vero rimedio per la nostalgia non è il ritorno indietro nello spazio, ma la retrogradazione verso il passato nel tempo» (ivi p. 154). Ma questo è impossibile.
La nostalgia dunque non è un problema spaziale, bensì temporale. È l’irreversibilità del tempo la vera causa della sofferenza della nostalgia. L’inafferrabile flusso della temporalità sta alla radice delle sofferenze del nostalgico.
Il lavoro clinico insegna che c’è un livello di nostalgia ancor più profondo che riguarda i pazienti che hanno avuto una reale esperienza deficitaria, carente ed infelice. Pazienti che non hanno una base sicura, che non si sono mai potuti sentire a casa, anche se erano a casa propria, pazienti con cure materne insufficienti. In questi casi la nostalgia è inestinguibile, perché è impossibile separarsi da qualcosa che non si è mai posseduta o ricevuta. Il paziente vive nell’illusione che, tornando a casa, riceverà le cure e l’amore che desidera, ma che non ha mai ricevuto, né mai riceverà. Prendere atto di una situazione deficitaria così grave, rendersi conto che la nostalgia, in questi casi, è fittizia perché in realtà quello che cercano di ritrovare non è mai esistito, è quasi impossibile. In questi casi la nostalgia funge da rimedio di fronte a una verità che risulterebbe devastante e non sopportabile. Si nota spesso con questo tipo di pazienti che la nostalgia non è tanto rivolta alla ricerca di persone del passato, perché troppo grande è la paura della delusione di non trovare nella realtà esterna quello che solo esiste nella realtà interna; in questi casi, la nostalgia è indirizzata verso la madre terra, i prati, i boschi, i laghi, i cibi, una certa luce; dunque, verso esperienze sensoriali e non relazionali. Questi pazienti trovano gli oggetti inanimati del loro passato più rassicuranti dei ricordi delle loro relazioni affettive primarie. (Carloni 1989, p. 128).
Dietro la nostalgia sta sempre anche una speranza di poter un giorno trovare quello a cui si anela. Solo dopo aver accettato che il paradiso perduto dell’infanzia era una fantasia e in realtà non è mai esistito, lo studio dell’analista può diventare, per così dire, una nuova patria, permettendo al paziente di riprendere e proseguire i suoi sviluppi interrotti, di creare un legame costruttivo fra il passato e il presente, di adattarsi meglio nel nuovo paese, cercando di trovare la realizzazione della sua speranza altrove e non in patria. La terapia può aiutare il paziente a ritrovare una dolorosa ri-narrazione del passato, non più inteso come il paradiso perduto di un’infanzia felice altrove, nella nuova consapevolezza di un necessario e salvifico allontanamento da un ambiente familiare con gravi carenze affettive.
Come mi disse una mia paziente: Dottoressa, il suo studio è per me come l’ambasciata psichica del mio paese in Italia.
Andrej Tarkovskij nasce il 4 aprile 1932 a Zavraz, un piccolo villaggio sul Volga. Figlio di Arsenij Aleksandrovič Tarkovskij, noto poeta russo, e di Marija Ivanovna Tarkovkaya. Quando Tarkovskij ha 3 anni, il padre lascia la famiglia. Il piccolo bambino si trova quindi a crescere in un ambiente tutto femminile, composto dalla madre, dalla nonna e dalla sorella. A 21 anni si reca a Mosca dove si iscrive alla Scuola Superiore di Cinematografia, la più prestigiosa scuola di cinema della Russia, dove frequenta i corsi di Michail Romm, quotato regista del periodo. Nel 1960 consegue il diploma con successo. Nel 1962 partecipa al Festival Cinematografico di Venezia presentando il suo primo film L’infanzia di Ivan, al quale viene attribuito il ‘Leone d’Oro’, massimo riconoscimento per la prima volta attribuito ad un film russo.
Tarkovskij ha sempre avuto un rapporto molto tormentato con il regime politico del proprio paese. Da qui la sua scelta, nel 1982, durante un soggiorno in Italia, di seguire volontariamente la via dell’esilio. Solo quattro anni più tardi, nel 1986 all’età di 53 anni, muore a Parigi dopo una breve malattia.
Tarkovskij, in 25 anni di carriera, ha girato solo sette film: a L’infanzia di Ivan seguono Andrej Rublëv, Solaris, Lo Specchio, ‘Stalker’, Nostalghia e, per ultimo, Sacrificio.
Il film ‘Nostalghia’, come del resto tutti i film di Tarkovskij, contiene molti spunti autobiografici. Dice Tarkovskij: «Avrei mai potuto supporre, girando Nostalghia in Italia, che lo stato di melanconia soffocante e senza sbocchi che riempie tutto lo spazio dello schermo in questo film sarebbe diventata la sorte della mia vita successiva? Avrei mai potuto pensare che da allora è fino alla fine dei miei giorni avrei portato in me questa grave malattia?” (Tarkovskij 2015, p. 185).
Si tratta del primo film girato fuori dalla Russia, da quando egli è in esilio.
Come quasi tutti i film di Tarkovskij l’azione è minimale: si tratta di un cinema di idee piuttosto che di narrazione. Il linguaggio cinematografico di Tarkovskij fa uso di simboli e metafore per cercare di esprimere qualcosa che sfugge o va al di là dei classici temi epico-narrativi. Il suo cinema è volto alla realizzazione di un’opera d’arte prima ancora che al racconto di una storia (Morales 1989, p. 7).
Nostalghia ci parla di un scrittore russo, Andrej Gorčakov, che compie un viaggio in Italia per scrivere una biografia su un musicista russo vissuto in Italia nel Settecento, Pavel Sosnovski, morto suicida. Gorčakov, l’alter ego del regista, è lacerato dalla nostalgia per la casa e la famiglia e per questo è impossibilitato a procedere nella scrittura della biografia. Intraprende allora un viaggio attraverso l’Italia accompagnato dalla traduttrice italiana, Eugenia. Il viaggio prosegue fino a Bagno Vignoni dove Gorčakov incontra Domenico, il folle del paese, che era stato internato in un manicomio perché, per sette anni, aveva tenuto segregata la famiglia in casa in attesa della fine del mondo. Domenico, dopo essere uscito dal manicomio, vive in completa solitudine in una cascina fatiscente ai margini del paese, esiliato nel proprio paese.
Il film, che vinse al Festival del Cinema di Cannes del 1983, come tutti i film di Tarkovskij, non è di facile comprensione. Come dice Morando Morandini (1989, p. 70), il cinema di Tarkovskij non è un cinema di prosa, ma di poesia e non si può certo leggere una poesia come un romanzo. Ciò richiede tempo, riflessione e capacità di abbandonarsi alle suggestioni che le parole e le immagini suscitano. Proprio come una poesia, il film di Tarkovskij va assimilato, interiorizzato in un lento processo. Lo stesso Tarkovskij (2015, p. 201) si è definito più un poeta che un cineasta, sottolineando che la poesia non è riproduzione della realtà. Questo modo di intendere il cinema e l’arte in generale era sicuramente in contrasto con i moduli espressivi del realismo socialista, allora imperante in Russia. L’azione non è molto importante, l’intento del regista invece è di «[…] rendere lo stato d’animo di una persona che vive un profondo dissidio col mondo e con se stesso, incapace di trovare un equilibrio tra la realtà e una sospirata armonia, che si strugge di nostalgia, provocata non soltanto dalla lontananza da casa, ma anche da una integrale e nostalgica malinconia per una pienezza di vita» (ivi p. 187).
La splendida fotografia di Giuseppe Lanci utilizza il colore e il bianco e nero per articolare la dimensione del presente e del passato. Il colore, quando parla del presente e il bianco e nero o, ancor meglio, il color seppia, quando il protagonista si rivolge nostalgicamente al suo passato e alla Russia. Il passaggio dal colore al bianco e nero vuole così alludere alla dimensione onirica dell’immagine.
La colonna sonora è scelta accuratamente e comprende, oltre a musiche popolari russe, il quarto movimento della Nona Sinfonia di Beethoven, Freude schöner Götterfunken, e un Capriccio per pianoforte di Johann Sebastian Bach. Tarkovskij possedeva una buona cultura musicale. Infatti egli avrebbe voluto diventare direttore d’orchestra ma poi, per nostra fortuna, ha scelto la strada del cinema.
Come in tutti gli altri film di Tarkovskij, anche in Nostalghia, c’è l’onnipresenza dell’acqua in tutte le sue forme: gocce, pioggia, pozzanghere, fango, stagni, laghi, umidità nei muri, fiumi, ruscelli, piscina, specchi d’acqua, nebbia. Dice al riguardo Tarkovskij: «Ho usato l’acqua perché è una sostanza molto viva, che cambia forma continuamente, che si muove. È un elemento molto cinematografico. E, tramite essa, ho cercato di esprimere l’idea del passare del tempo». (ivi p. 186).
Qual è il messaggio del film? Si tratta certamente di una domanda difficile alla quale ciascuno di noi è chiamato a trovare la sua risposta. Molti critici hanno espresso la loro opinione con le più svariate idee. Cesare Musatti disse del film che «è l’opera di un mistico» (Musatti 1985, p. 56). C’è una scena importante nel film quando Domenico, il folle, dice a Gorcakov la seguente frase: «Una goccia più una goccia fanno una goccia più grande, non due», così esprimendo il tema centrale del film, cioè la concezione di una conoscenza olistica della realtà, che superi la frammentazione tra materia e spirito, frammentazione appartenente a un dualismo tipicamente occidentale.
Infine, vorrei lasciare l’ultima parola sul tema della nostalgia a Tarkovskij stesso: «La nostalgia è una malattia che annulla la forza dell’anima, la capacità di lavorare, perfino il piacere di vivere. La mancanza di qualcosa di speciale, di una parte di sé stesso. C’è una sofferenza morale dell’anima. Chi non la supera muore» (Argentieri 1987, p. 25).
Bibliografia:
- Argentieri S. 1987 Il senso della nostalgia: da Nostalghia a Sacrificio, in Zamperini P. (a cura di), Il fuoco, l’acqua, l’ombra. Andrej Tarkovskij: il cinema fra poesia e profezia, La Casa Usher, Firenze 1989.
- Brodskij J. 1988 Dall’esilio, Adelphi, Milano 1988.
- Carloni G. Tragitti della Nostalgia, in Sisto Vecchio (a cura di), Nostalgia. Scritti psicoanalitici, Lubrina, Bergamo 1989.
- Jankélévitch V. La Nostalgia, in Prete A. (a cura di), Nostalgia. Storia di un sentimento, Raffaello Cortina Editore, Milano 1992.
- Morales G. Presentazione, in Zamperini P. (a cura di), Il fuoco, l’acqua, l’ombra. Andrej Tarkovskij: il cinema fra poesia e profezia, La Casa Usher, Firenze 1989.
- Morandini M. Contro il cinema di prosa, in Prete A. (a cura di), Nostalgia. Storia di un sentimento, Raffaello Cortina Editore, Milano 1992.
- Musatti C. 1985 Pioggia e acquitrino nella nostalgia di Tarkovskij, in Cinema Nuovo, anno XXXIV, n. 293.
- Prete A. L’assedio della lontananza, in Prete A. ( a cura di), Nostalgia. Storia di un sentimento, Raffaello Cortina Editore, Milano 1992.
- Tarkovskij A. 2015 Scolpire il tempo, Istituto Internazionale Andrej Tarkovskij, Firenze 2015.
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