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Voci. È meglio non parlarne…?

Rivista annuale a cura del Centro Italiano di Psicologia Analitica Istituto di Roma e dell’Italia centrale

La follia: modelli della psiche e approcci terapeutici La psicologia analitica a 100 anni dalla nascita di Franco Basaglia

2024 Nuova Serie Numero 5 Monografia Franco Basaglia

Voci. È meglio non parlarne…?

Hermione: È un po’ strano, non trovate?
Harry: Strano?
Hermione: Tu senti una voce, una voce che solo tu puoi sentire,
e spunta fuori Mrs Purr pietrificata! Lo trovo… strano.
Harry: Pensi che avrei dovuto dirglielo? A Silente e gli altri, intendo.
Ron: Sei impazzito?
Hermione: No, Harry. Perfino nel mondo dei maghi
sentire le voci non è buon segno.
Uomo nel quadro: Ha ragione, sai?

Introduzione

Magie, scope e macchine volanti, platani picchiatori, foto e quadri che parlano, ma le voci… persino nel mondo dei maghi delle voci è meglio non parlarne!

Sentire le voci, tuttavia, è un’esperienza più diffusa di quanto si pensi, proverò ad avvicinarla parlando dell’esperienza fatta negli anni come conduttrice di un gruppo per “uditori di voci”.

Un fenomeno abbastanza frequente, collegato con l’udire voci, è quello delle allucinazioni ipnagogiche che sono definibili come: «illusioni che si presentano nella transizione tra lo stato di veglia e quello di sonno».

La neuropsicologia sostiene, in merito, che si tratta di parziali interruzioni della fase REM del sonno, quello che, colloquialmente, potrebbe essere chiamato un “incerto confine tra sonno e veglia”. In questo stato di transizione ci possono essere dei piccoli ritardi nel ripristino del funzionamento neurologico “da svegli”; quando questo accade, con diversa intensità e frequenza, si sperimenta un caratteristico fenomeno: quello dell’inerzia del sonno (a volte anche del sogno), cioè il decrementato funzionamento psicofisiologico nei primi minuti appena successivi al nostro risveglio.

Tali esperienze sono però considerate appartenenti alla gamma delle esperienze “normali”, non patologiche[1]. La cultura ha dato loro diversi nomi più o meno evocativi e misterici. Nell’isola di Terranova, ad esempio, viene riferito all’azione di Old Hag, una strega che assale chi dorme, lasciandolo incapace di gridare o reagire. Nella cultura degli Inuit è uno spirito malvagio che cerca di impossessarsi del corpo di una persona che dorme. In Giappone, si subisce la potenza di uno spirito chiamato Kanashibari. Ci sono esempi anche italiani: in Sardegna, S’Ammutadori, O Munacieddu in Campania, ecc. ecc.

Accanto a tale fenomeno la neuropsicologia ha documentato anche esperienze ipnagogiche in stato di veglia o esperienze ipnagogiche al risveglio. A queste descrizioni possono essere avvicinati i racconti che si riferiscono alle voci udite da svegli. Udire le voci da svegli, in un passato non troppo lontano, è stata un’esperienza finita quasi sempre nella categoria dell’“esoterico” e del “religioso”. Un’esperienza che è stata descritta da secoli, ne troviamo tracce nella mistica medievale, nella cultura popolare e nella letteratura. Una delle prime conosciute descrizioni che ci sono state tramandate è quella di Socrate. Platone ne parla come della voce di un “demone”, che lo mette in guardia fin dall’infanzia e lo accompagna nella forma della “voce interiore” (qualcosa di simile forse alla nostra autocoscienza moralmente connotata), derivante direttamente dalla divinità, che lo esorta a non compiere determinate azioni. L’eroe omerico non ha una forma di riflessione se non come un “udire voci”: Achille sente la voce degli dei, lo stesso Omero (individuo o gruppo di aedi, che dir si voglia) sente il “canto delle Muse”, del quale diventa il tramite[2].

Il fenomeno sembra avere avuto anche un particolare valore nell’ambito esoterico/religioso. La paleoantropologia ha proposto l’ipotesi che nelle prime forme di società fosse molto diffuso e accreditato il sentire voci positive per il gruppo sociale, ed era prerogativa degli sciamani. Questo non poteva certo avvenire dovunque ma solo in alcuni luoghi connotati di sacralità; solo qui era possibile ascoltare suggerimenti e consigli in vista di decisioni importanti. Solo successivamente questi messaggi furono mediati dai rappresentanti di culto e si iniziò a considerare le voci come messaggeri che chiedono “prepotentemente” di essere ascoltati. In tutte le culture ci sono descrizioni simili, più o meno condite di sovrannaturale e di presenze demoniache o, più semplicemente, terrifiche. Tra gli uditori, oltre a Socrate, troviamo Giovanna d’Arco. Poi ancora Maometto, Gesù, San Paolo, William Blake, Virginia Woolf, Gandhi, Mozart, Cavour, il calciatore Zidane e molti altri. Nel mondo occidentale, da più di cento anni, all’esplicitazione di questo fenomeno segue una denominazione nella forma delle “allucinazioni uditive” e una pressoché automatica diagnosi psichiatrica. Di solito, schizofrenia.

Uscendo per un attimo fuori dalla scontatezza psicopatologica e diagnostica, uno studio del 1991, condotto su 18000 persone, stimava che circa il 25% della popolazione mondiale ha avuto esperienza di percezioni uditive. Lo stesso studio rilevava che solamente una persona su tre che sente le voci è diventato paziente psichiatrico (Tien 1991).

Ad approfondire la questione, tale caratterizzazione psicopatologica non appare tanto dovuta alla sola “presenza” delle voci quanto al fatto che tali voci assumono una qualità oppressiva per la soggettività: di solito si tratta di voci che accusano, colpevolizzano, spingono a gesti auto lesivi o lesivi per gli altri, suscitando terrore, colpa, paura e angoscia, solo a questo punto la soggettività ne soffre e si rivolge allo specialista, sempre più identificato con il medico. La psicoterapia contemporanea suggerisce di considerare tale fattore come discriminante in termini psicopatologici.

La conseguenza della schematizzazione voci/psicosi è che, nonostante il fenomeno sia da sempre così diffuso, è stato sempre più difficile poterne parlare, vuoi perché lo stigma della follia è legato, da almeno un secolo a doppio filo, al sentire le voci, vuoi perché il fenomeno è qualcosa di così intimo e personale che richiede un grande coraggio per poterlo comunicare e condividere: chi sente le voci ha la certezza che nessuno può comprenderlo, avvicinarlo.

Nella mia esperienza è un fenomeno di una potenza tale da non poterne parlare con nessuno, un fenomeno che porta ad un percorso abbastanza standardizzato che va verso una condizione di isolamento sempre più frequente che genera un circolo vizioso dove le voci aumentano, diventano talmente intense da confondere la soggettività relativamente agli accordi del quotidiano, in particolare quelli spazio-temporali, a confonderla rispetto alla propria identità o all’identità delle persone vicine. È solo a questo punto che si giunge al ricovero, tanto che, anche quando inizia il percorso di “cura”, l’esperienza dell’uditore di voci inizialmente rimane esclusa dal quadro clinico; solo con pazienza, fatica e sviluppo di fiducia compaiono nel racconto del paziente, un esempio:

Sono stato parecchio tempo, dopo la comparsa delle voci, con la paura di uscire. Venivo già da un periodo di isolamento ma le voci mi diedero il colpo di grazia. Non capivo, mi chiedevo se venissero dai vicini, da qualche strana entità, da microchip che qualcuno aveva inserito nel mio cervello… mi sentivo impazzire. Quando sono stato ricoverato, non mi stavo rendendo conto di quanto mi stesse accadendo, ero fuori controllo [queste parole vengono da A. Vedremo meglio più avanti la sua storia].

L’esperienza, che è ovviamente sempre accompagnata da emozioni forti, dovute al sovvertimento dell’ordine abituale che quella soggettività aveva faticosamente costruito nel proprio contesto di riferimento, porta a una condizione improvvisamente mutevole: le certezze che accompagnano la nostra quotidianità assumono tratti di diversità e incomprensibilità in seguito a tale mutevolezza. Di seguito, la comunicazione e la relazione con l’altro si complica enormemente e per molti l’unico rimedio possibile diventa il ritiro, l’isolamento sociale.

 

Le voci in psichiatria

Secondo il DSM 5 (Aa.Vv. 2013), udire le voci o avere altre percezioni inusuali è uno dei sintomi cardini che indicano la presenza di un disturbo dello spettro schizofrenico.

La psichiatria ha cominciato a intervenire sul sintomo, dagli anni Cinquanta farmacologicamente, in particolare sugli uditori di voci, con il fine primario di attenuare tali fenomeni denominati “dispercettivi”. Ovvio che in questo modo la ricerca del significato intrinseco dell’esperienza è stata con il tempo (eccezioni a parte come quella del movimento antipsichiatrico degli anni Settanta, Ottanta) sempre più trascurata, fino ad arrivare alla situazione attuale dove, generalmente, l’interrogarsi sul senso di tali fenomeni appare una pretesa assurda in confronto all’efficacia immediata del farmaco.

La convinzione che l’udire le voci non sia riconducibile necessariamente a una forma di sintomo o a una patologia inizia a maturare negli anni Ottanta, nel Nord Europa, fra alcuni psichiatri/psicoterapeuti. Marius Romme, psichiatra, e Sandra Escher, ricercatrice, iniziarono una ricerca sull’argomento dalla quale si evinse che molti studenti dell’Università di Oxford udivano voci. Inoltre gli stessi studenti, sottoposti ad una intervista specifica sul tema, non mostravano altri segni che potessero essere indice di disturbi psichiatrici, svolgevano “normalmente” la loro vita.

Approfondendo la ricerca e comparando i dati, i due ricercatori si resero conto che il rivolgersi a strutture psichiatriche dipendeva essenzialmente dal contenuto delle voci e dalla incapacità di conferirle un senso, un nome, fronteggiarle in qualche modo identificandole al di fuori del patologico, piuttosto che dal fenomeno in sé. A partire da questo dato questi pionieri iniziarono a porsi in maniera diversa nei confronti del fenomeno. Da scontato sintomo di una patologia venne ripreso un atteggiamento che riportava alla psichiatria fenomenologica, che considerava primariamente il fenomeno come un’esperienza a cui porre ascolto e conferma insieme al paziente prima di qualunque categorizzazione diagnostica, generando un’esperienza di supporto immediata.

L’atteggiamento clinico che via via veniva portato avanti era volto all’ascoltare e esplorare il fenomeno (anche senza capire niente, inizialmente), intendendolo più come una modalità percettiva possibile che come “il problema principale”. Negli anni Ottanta, da un incontro tra una uditrice di voci e lo psichiatra M. Romme, iniziarono le prime riflessioni sui limiti della psichiatria orientata farmacologicamente, rispetto all’argomento. La paziente da lui seguita si sentiva sopraffatta dalle voci al punto di pensare di togliersi la vita, fino a quando una lettura le fece cambiare punto di vista. Aveva letto che nel mondo della Grecia omerica sentire le voci, attribuirle a contatti con gli dei, era considerato un privilegio. Da qui, la paziente che in precedenza era completamente ignara della questione, iniziò a considerare la sua esperienza sotto un’altra luce e si sentì enormemente sollevata: non era la prima e la sola a fronteggiare un’esperienza simile. A partire da questa esperienza Romme intuì l’utilità che poteva avere l’incontro con altri uditori di voci in vista del beneficio emotivo relativo all’uscire dall’isolamento e poter condividere l’esperienza.

Le ricerche successive (Romme, Escher 1997) confermarono che le voci non sono sempre sintomo di una grave malattia mentale; a questo punto i due ricercatori diedero avvio a numerosi studi sul tema e fondarono il movimento degli “uditori di voci”.

Insieme alla Escher, partecipando ad un programma televisivo piuttosto popolare, lanciarono un appello a coloro che avevano avuto esperienza di udire le voci a contattarli.  Risposero 700 persone. Fu mandato loro un questionario per raccogliere maggiori informazioni. Nell’ottobre del 1987 si tenne una conferenza sull’argomento, nella quale furono invitate le persone cui era stato inviato il questionario. In quell’occasione per la prima volta persone coinvolte rispetto al fenomeno (per motivi personali o professionali) si incontrarono tutte insieme, tentando di uscire fuori da scontatezze e pregiudizi, per discutere e confrontarsi su tali esperienze. Seguirono altre conferenze e iniziative pubbliche; la nascita di gruppi di uditori di voci e movimenti in varie parti del mondo. In Europa (in quasi tutte le nazioni), Giappone, Brasile, Canada, Australia. Nel 2007 nacque la Rete internazionale di uditori di voci, Intervoice, con l’obiettivo di raccogliere e diffondere in rete articoli, esperienze e informazioni sulle varie attività delle associazioni, coordinare e dare un supporto amministrativo alle reti nazionali.

Studi condotti negli anni novanta (Tien 1991), hanno dimostrato che il fenomeno riguarda circa il 4 per cento della popolazione “normale” occidentale (milioni di persone insomma…). Poco viene detto a proposito del fatto che solo un terzo di queste persone ha fatto ricorso a cure psichiatriche, gli altri non hanno mai vissuto il fenomeno come problematico, patologico, necessitante aiuto farmacologico, ecc. ecc.

Andando avanti nel tempo, le ricerche in merito cominciarono a rilevare una correlazione tra eventi traumatici e il sorgere del fenomeno delle voci (Romme, Escher et al. 2010). A partire da tali studi si costituì nel 2012, anche in Italia, il movimento degli uditori di voci, dopo l’organizzazione di tre convegni nazionali sul tema. Alcuni anni dopo si costituì anche l’associazione nazionale: Sentire le Voci. In questi ultimi anni, dopo aver capovolto l’approccio al fenomeno, da sintomo da silenziare e ignorare si è passati all’esperienza da accettare, esplorare e comprendere, tirandola fuori dalla categoria scontata e pregiudiziale del “segno di pazzia”, sono stati pubblicati manuali operativi nei quali vengono descritte metodologie e tecniche per poter operare in questa direzione (Baker 2009). Accanto a questo è iniziata una formazione psicoterapeutica specifica per aiutare gli uditori di voci.

Della questione hanno poi cominciato ad interessarsi anche coloro che fondano lo sviluppo della mente umana sull’interazione individuo/contesto. In Italia nelle ricerche di A. Salvini e M. Quarato, ad esempio, emerge l’idea di guardare alle voci come un “modo come un altro di pensare” (Quarato 2019). Partendo da questa ipotesi, l’udire le voci diventa una capacità possibile, non necessariamente un segno di stigma. Queste persone vengono considerate pensatori dialogici. Con questo termine si intende la raggiunta consapevolezza da parte del soggetto volta alla possibilità di considerare la presenza delle voci come un tentativo di risolvere problemi o situazioni diversamente non risolvibili attraverso i procedimenti logici conosciuti fino a quel momento in un dato ambiente. Per questo, le storie di vita e il contesto sociale e relazionale sono diventate terreno da esplorare per comprendere e chiarificare questa questione: in quel dato contesto e stando dentro quelle abitudini, la capacità decisionale del soggetto si blocca in quanto i processi logici da lui conosciuti non tengono conto di possibilità alternative. A questo punto si attivano le voci. Le voci non sono sintomi da debellare o attutire, ma elementi da interrogare, la sfida clinica diventa capirne il senso confrontandosi anche con il contesto del soggetto (Salvini, Stecca 2012).

 

L’approccio educativo a carattere fenomenologico

Come detto, i primi gruppi di uditori di voci nacquero dall’intuizione di Romme; all’inizio furono gruppi volti alla semplice condivisione dell’esperienza vissuta dagli uditori. Con il passare degli anni il lavoro si è evoluto, introducendo nuove tecniche sia nel lavoro di gruppo sia nei colloqui individuali.

Mi occupo di uditori di voci dal 2015. Lavoravo allora in una comunità terapeutica, luogo dove si fa ancora esperienza di tali fenomeni, e l’incontro con gli uditori di voci mi destò interesse e curiosità. Così iniziai a partecipare a convegni e giornate di formazione sul tema. Il primo gruppo di uditori di voci da me costituito fu nel 2017 all’interno della Comunità terapeutica nella quale lavoravo come educatrice professionale.

Questo il mio modo di impostare il lavoro di un gruppo.

Un gruppo di uditori di voci si può incontrare ogni settimana o quindici giorni, con incontri di circa 90 minuti. Come in altri tipi di gruppo, vige la regola della sospensione del giudizio e della riservatezza.

Nella prima fase viene condivisa la metodologia, vengono esplorate le motivazioni e le aspettative individuali. Una volta costruito un clima di fiducia e di condivisione, il gruppo inizia ad assumere la valenza di luogo dove ci si può esprimere liberamente. Si crea quindi un senso di sollievo per il fatto di non essere soli ad aver vissuto o vivere ancora situazioni così forti. Pian piano ci si racconta, e il peso delle emozioni angoscianti sembra essere minore. La condivisione dell’esperienza delle voci implica una forte esposizione in quanto viene svelata una delle dimensioni più intime della persona. Ciò può generare spavento e desiderio di ritirarsi. Il gruppo di uditori di voci è un gruppo aperto che consente ai partecipanti la possibilità di potersi allontanare quando se ne sente il bisogno e di potersi poi ravvicinare di nuovo.

Durante gli incontri si cerca di facilitare la relazione con le proprie voci e con sé stessi, si individuano tecniche di distrazione utili nei momenti di affollamento delle voci e tecniche di “affrontamento” per quando è necessario non rimanere in balia delle stesse per esigenze di adattamento.

La funzione del gruppo è anche quella del confronto e dell’auto aiuto. Consigli su strategie sono avvalorati dall’esito positivo di chi le ha sperimentate. Ecco un esempio:

 

  1. era sconsolato per il fatto che non riusciva più a leggere un libro, cosa che prima dell’affacciarsi delle voci faceva molto volentieri. Questo lo faceva sentire incapace. L. raccontò che succedeva la stessa cosa anche a lui e che aveva risolto facendo leggere il libro alla voce più disturbante. Il suggerimento funzionò per entrambi.

 

Condivisione, accettazione, scambio e sostegno sono gli obiettivi principali di tali gruppi.

Il lavoro educativo con gli uditori di voci può essere inserito in quella che si definisce riabilitazione psichiatrica orientata al recovery (Maone, D’Avanzo 2015). Con tale termine si intende un insieme di tecniche e di interventi utili a diminuire gli effetti della cronicizzazione del disagio psichico e a promuovere attivamente il reinserimento della persona nel contesto sociale e lavorativo di riferimento. Si parla molto di recovery nell’ambito della salute mentale. Il termine in italiano viene reso con riprendere coscienza, riacquistare salute o forza, ritrovare qualcosa che era andato perduto. In psichiatria sono state descritte due diverse accezioni del concetto di recovery. La prima riguarda l’aspetto medico che allude ad una condizione clinica valutata in base a quando vengono soddisfatti criteri di guarigione (definiti a priori). La seconda riguarda la soggettività della persona ed è riferita a un processo che considera il disturbo come uno degli aspetti della personalità.

Stando dentro questa seconda accezione si sta cercando di promuovere in alcuni servizi psichiatrici l’adozione di nuove pratiche recovery-oriented. Questa prospettiva adotta, come detto, alcuni principi di psichiatria fenomenologica, lasciati da parte per molto tempo: si descrive la malattia non come deviazione da una presunta normalità, ma nei termini di una particolare configurazione di caratteristiche individuali e si ragiona sull’impatto che queste esercitano sulla vita delle persone in un dato contesto. In questo approccio è cruciale la consapevolezza che la persona ha del proprio essere depositaria di strumenti per poter cambiare. Il lavoro educativo con gli uditori di voci è parte di queste pratiche.

Più approfonditamente, nel momento in cui si fa capo alla fenomenologia, il lavoro si declina in tre direttive: del sapere, del saper fare e del saper essere.

Il sapere significa acquisire una buona conoscenza delle voci. Per conoscerle bisogna accettarle. Nelle varie fasi che Romme (Romme, Escher et al. 2010) individua nel lavoro con le voci, l’uditore deve arrivare a una forma di accettazione della presenza delle voci nella propria vita per poter poi cambiare il rapporto che ha con esse.

Successivamente all’accettazione si può cominciare a riconoscere che le voci rappresentano parti di sé non integrate nell’immagine identitaria e cominciare ad affrontare i problemi della condotta di vita che le voci tentano di esprimere. È un processo che intende ricostruire nessi, collegamenti, recuperare ciò che la presenza delle voci sembrava aver distrutto. È a partire dalla descrizione delle voci che si ricostruisce. Vediamolo in dettaglio.

 

Mappatura delle voci

Delineare un profilo delle voci aiuta l’uditore a prendere confidenza con qualcosa che fa parte di lui, anche se le sembra giungere dall’esterno.

La definizione porta la persona a costruire un’idea dell’evento che si è fatto presente nella sua vita. Le voci spesso sono tante, generano confusione e portano a un ingombro di parole, neologismi e concetti che l’uditore non riconosce come propri.

Nel lavoro di mappatura si cerca di costruire un vero e proprio identikit delle voci, con sesso, età, timbro di voce, tono, volume della voce, contenuto, ecc. Si individua la qualità del contenuto stesso e si traccia una sorta di “storia” delle voci: quando sono apparse per la prima volta, che evoluzione hanno avuto, quando si presentano nella giornata, e così via. A queste si cerca di legare la storia dell’uditore partendo dal momento in cui sono apparse le prime voci. Potremmo definirla come una narrazione autobiografica, emotivamente orientata, che parte dalla presenza accettata delle voci. Una narrazione che esplora il complesso campo delle emozioni (in quanto le voci sono strettamente legate ad esse e agli eventi che le hanno provocate e continuano a provocarle).

Nel lavoro educativo la narrazione si presenta come un tessere reti e legami tra ricordi, percezioni, fatti, emozioni e voci. Arrivare a dare un nome alle emozioni, dislocarle nel fitto succedersi degli eventi restituisce un significato diverso al fenomeno del sentire le voci. In questa fase si dà forma a un informe; a volte nella descrizione viene naturale assegnare alla voce un nome che corrisponde a una caratteristica della stessa (l’autoritaria, la bambina, il generale). In qualche modo si comincia col creare una gamma di personaggi con caratteristiche ben precise, personaggi che cominciano a popolare la mente dell’uditore in forma diversa rispetto alle sole voci oppressivamente presenti. Caratterizzarle aiuta ad iniziare una relazione con loro. Aiuta a pensare che non si è solo vittime di quanto sta accadendo, ma che si può acquisire del potere per non essere in balia di quanto dicono e impongono le voci stesse. Il potere serve per arrivare poi a una reciprocità della relazione, per affermare la propria volontà rispetto a quella delle voci. Uno dei compiti dei conduttori del gruppo è quella di ricordare che le voci parlano, ma sono le persone che agiscono e decidono.

 

Saper fare: imparare ad affrontare le voci

Conoscere meglio le voci, la loro storia, facilita la relazione che necessariamente la persona deve allacciare con la voce se non vuole esserne sopraffatta. Spesso si tratta di voci giudicanti e maltrattanti, che portano il soggetto a sentirsi sbagliato, diverso, a viversi come un “problema” per i familiari. Imparare ad affrontarle e gestirle significa iniziare un processo di liberazione che, seppur parziale, favorisce il vivere più dignitosamente la propria quotidianità. Inoltre, affermare il proprio potere sulle voci aumenta l’autostima.

Nella mia esperienza con uditori di voci, ho constatato che è molto difficile parlare apertamente dell’argomento: è considerato di una tale intimità che è come denudarsi di fronte ad altre persone. Ci si sente diversi, folli, non “normali” e per questo domina l’emozione della vergogna e della solitudine alienata. Si ha resistenza anche a cercare di capire cosa dicono le voci, a provare a mettersi in relazione con esse, a chiedere cose e a posizionarsi in modo più attivo: relazionarsi con quella parte che esprime – secondo lo stigma – la pazzia: a volte sembra quasi impossibile.

 

Un esempio di saper essere: il percorso di M.

La signora M. ha chiesto di incontrarmi perché sapeva che facevo colloqui e che tenevo un gruppo per uditori di voci. Ha circa 50 anni, sente le voci da molto tempo, si sono manifestate per la prima volta quando era studentessa fuori sede (l’équipe che la segue presume in seguito a qualche evento traumatico o molto stressante). M. è sempre stata molto restia a raccontare quel periodo della sua vita.

Ha frequentato assiduamente il gruppo per due anni tenendo un diario nel quale annotava in che momento della giornata le voci si presentassero, quali emozioni provava e per quanto tempo le sentiva; non ha però mai voluto riferire il contenuto delle sue voci. Le ricordavano cose del passato delle quali si vergognava.

Non è stato possibile inizialmente un lavoro di accettazione delle voci. Non voleva ascoltarle, non ne voleva sapere. La sua partecipazione al gruppo aveva lo scopo di condividere l’esperienza e di ascoltare le altre testimonianze. Si mostrava preoccupata quando alla lettura di altre storie o alla visione di alcuni video su testimonianze di vari uditori si sottolineava l’importanza di diventare attivi nel rapporto con le voci (Romme, Escher et al. 2010).

Più facile sembra attivare tecniche di “affrontamento” (Fernyhough 2018) o per lo meno provarci: provare a relegare, limitare e silenziare le voci, sembra più tranquillizzante. Poterle ascoltare, sentirne i contenuti e magari tentare un dialogo con loro, è spesso visto come qualcosa di troppo difficile, come un infrangere di nuovo e coscientemente quella linea che divide ciò che è normale da ciò che non lo è.

Durante il percorso le voci hanno assunto forme diverse; si sono affievolite, si sono collegate alle emozioni. Sono emerse anche voci “positive”, quelle che consigliano, che a volte rassicurano, e a volte sono diventate solo ronzii di sottofondo. La paziente ha fatto spazio ai pensieri, alle emozioni, alle connessioni tra ciò che succedeva e ciò che pensava o provava.

Il risultato che ci attendiamo come operatori non è quello di non sentire più le voci (anche se molti lo sperano) ma saperci convivere. Imparare a mettere le voci in sottofondo per poter svolgere le azioni della quotidianità è un ottimo traguardo.

Una giovane donna in uno degli ultimi incontri scriveva:

In famiglia sono stata quella che ha avuto problemi psichiatrici da curare, se invece mi guardo dentro penso di essere una delle tante persone uditrici di voci ad aver fatto esperienze che non capitano facilmente; ho capito molto della mia mente, penso di aver avuto un’alternativa all’abbandono evolutivo. Sono matta, ma so quel che dico.

Per lei le voci erano diventate fonti di informazioni utili per elaborare questioni in sospeso rimosse, negate, “finite nell’inconscio”. Solo ora poteva ora iniziare il saper essere.

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Storia di A.

 

Queste le sue parole:

 Per me le voci rappresentano una tortura incessante, un misto di paura, angoscia e ansia, un qualcosa di incontrollabile… con il tempo si sono affievolite e sono diventate quasi la normalità.

La “quasi normalità” di A. è il risultato di un percorso di riabilitazione durato circa sei anni.

Ha iniziato a sentire le voci nel 2018, dopo un periodo di isolamento. Cominciò a sentire voci dei vicini, voci che venivano dal rumore delle macchine, dagli elettrodomestici. Sempre di più, tante. Si sentiva perseguitato, spiato dalla televisione, dal computer, dal cellulare: la situazione era diventata insostenibile. I familiari si rivolsero a quel punto (nel 2020), al Centro di Salute Mentale. A. venne visitato da uno psichiatra che procedette per un TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio). Gli venne diagnosticata una psicosi schizofrenica.

  1. non capiva cosa stesse succedendo. Inizia così la sua storia clinica.

Lo incontrai per la prima volta nel 2021, per un colloquio. Aveva, al tempo, 32 anni, viveva in famiglia, con i genitori e una sorella più grande. Aveva frequentato l’università e si era fermato all’ultimo esame. Aveva sempre avuto problemi di relazioni, stare con gli altri era sempre stato molto faticoso, tanto da indurlo a un isolamento progressivo. In quel periodo prendeva dei farmaci ma i sanitari stavano ancora cercando la terapia più appropriata, in quanto A. era definito: “farmaco resistente”.

Durante i primi colloqui mi parlava delle voci, di come fossero cattive e offensive.

Abbiamo deciso allora di incontrarci una volta a settimana, cercando di districare e chiarificare quanto gli stava succedendo. Si sentiva “imprigionato”. Le voci occupavano la sua testa, sentiva di non avere più pensieri propri. Le emozioni erano distanti, non le sentiva, era come se tra lui e il mondo ci fosse un vetro, una “intercapedine”. Non aveva la forza di fare molto, sentiva imbarazzo e vergogna all’idea di incontrare le persone, temeva sopratutto la domanda “che stai facendo?”. Lui non faceva nulla, non lavorava, non usciva con gli amici, faceva poco, l’indispensabile.

I nostri incontri settimanali si focalizzarono sulle voci, sulle emozioni e sulle azioni, le ultime due bloccate dalle voci che gli dicevano continuamente che lo avrebbero torturato fino alla morte, che non valeva nulla e che sarebbe stato meglio se si fosse ammazzato. Questo per tutto il tempo degli incontri.

Fortunatamente A. ha una grande risorsa: la razionalità. Gli permette di non assecondare le voci e di chiedere conferma ai familiari per verificare se quello che le voci dicono corrisponde a realtà. Tutto questo è però enormemente faticoso ed estenuante per lui; spesso si sente privo di energia, la sua quotidianità è annullata, le voci lo sovrastano, occupano la mente, si sostituiscono ai pensieri, occupano l’anima, occupano le sensazioni del corpo. La mobilità si riduce, la sua spinta energetica è al minimo.

Arrivò allora a decidere di trattare le voci insieme a me, intraprendere un percorso impegnativo che richiedeva apertura e disponibilità a mettersi in gioco, cominciammo ad agire anche contro la logica, il senso comune. L’obiettivo era volto ad ascoltare sempre le voci, cercare un dialogo con loro, dar loro degli appuntamenti per avere spazi liberi, ecc. Provare a trovare pazienza, amorevolezza e senso critico, a raccogliere l’invito del precetto socratico: “conosci te stesso”. Siamo andati parallelamente avanti con una esplorazione che mirava a riconsiderarsi, a ridefinirsi, a cercare gli interessi del passato per verificare se anche nel presente potessero essere piacevoli o quantomeno interessanti.

A volte ci siamo trovati a fare liste scritte su: “cosa mi piace” e cosa “non mi piace”; ad esplorare le emozioni, dargli un nome e a capire cosa le provocano: cosa mi dà gioia, tristezza, rabbia, paura, quale evento mi fa provare disprezzo.  Poi a cercare di capire che emozioni danno le voci, se rispecchiano le nostre oppure le contrastano. A. teneva un diario, seguendo le mie indicazioni, sul quale annotava continuamente quello che gli succedeva.

Parlare insieme in questo modo delle voci ha rappresentato per A. un primo cambiamento. Si parlava di quello che gli succedeva senza legarlo immediatamente a una psicopatologia, arrivando a dire: «è senz’altro meglio parlarne!».

Dopo tre mesi di colloqui, A. ha iniziato a frequentare il gruppo di Uditori di Voci.

Questo lo ha portato a definirle sempre meglio con l’aiuto del gruppo, a dargli una identità, ad ascoltarne i cambiamenti di tono affettivo e di contenuto, sempre supportato dal gruppo. Nel corso dei mesi le voci si sono affievolite. A. non capiva più cosa dicessero, restava spesso solo un brusio di sottofondo.

Nelle pagine del suo diario iniziavano ad essere annotati più giorni in cui non sentiva nulla. La sua testa iniziava a liberarsi e, con sollievo, poteva fare altro. A. ha accettato, a questo punto, la proposta di un progetto terapeutico riabilitativo personalizzato riferito a una formazione e a un lavoro, iniziando un tirocinio lavorativo. Ha partecipato a un training di cognitive remediation per allenare la concentrazione e la memoria, che sentiva ancora debole. È stato infine chiamato per una formazione retribuita nel negozio dove aveva svolto il tirocinio.

Nei vari incontri di gruppo capitava di raccontarsi scrivendo e poi condividendo ciò che si era scritto:

Crescendo, ho avuto sempre più difficoltà a relazionarmi con altre persone e per questo molto del mio tempo l’ho passato da solo. Da una parte la solitudine mi dà sollievo, dall’altra non mi fa sentire bene con me stesso. Quando sono con altre persone, tendo a chiudermi e non parlare molto, come se mi bloccassi, oltre al fatto che provo molta ansia. Ho iniziato a sentire le voci dal 2018. Cominciai a sentire quelle dei vicini di casa; alcune mi dicevano cose senza senso, altre mi dicevano di buttarmi dalla finestra. Mi facevano credere che ero spiato da tutte le parti, dalla televisione, dallo smartphone e dai passanti. Credevo che le cose che sentivo erano riferite a me, che ce l’avessero tutti con me. Alcune voci erano più fredde e distaccate, come se non gli importasse nulla di me. Vedevo cose che non c’erano veramente nella realtà. Avevo molta paura perché non capivo bene cosa mi stesse succedendo, loro non si fermavano più, non ero più lucido, facevo fatica ad avere pensieri miei e faticavo a percepire la realtà così come era. Le voci per me rappresentano una tortura incessante, un misto di paura, angoscia e ansia. Un qualcosa di incontrollabile; con il tempo si sono affievolite e sono diventate quasi la normalità, anche perché le sento meno rispetto a prima. Le voci raccontano di me, le mie paure, come la paura di essere spiato ovunque vada, l’ansia di relazionarmi con il prossimo, la paura di sbagliare e di sentirmi stupido e inutile. Raccontano la paura di non essere voluto bene e di non essere accettato per quello che sono. Raccontano la mancanza di libertà, di non riuscire a scegliere per sé autonomamente, di essere bloccato, di non riuscire ad esprimermi.

Scrive sul diario, come se parlasse a sé stesso:

Caro A. non devi farti influenzare dalla noia e dalla pigrizia, devi riuscire a fare quello che vuoi altrimenti con il passare degli anni potresti pentirti, perché il tempo non si ferma con te. Dovresti superare anche la paura di sbagliare e metterti in gioco, anche se farai tanti errori. Devi andare avanti così come stai facendo con il tirocinio, deve essere lo stesso anche per le altre cose. Riguardo alle voci, ora non sono più come prima che rubavano la maggior parte del tuo tempo. Le voci adesso non ti assillano, anche se una è ancora presente nella tua vita. A questa voce vorrei dirgli di andarsene, così da farti riavere il tuo silenzio. Ma andrà via quando avrà fatto. Ora ti ci sei abituato, hai accettato che sia una parte di te. Sono convinto che prima o poi sparirà lasciandoti per sempre andare avanti da solo.

Al momento, incontro A. ogni tre settimane per fare il punto della situazione. Mi racconta del lavoro, del piacere di avere un ruolo sociale che gli permette di sostenere le domande degli altri: cosa fai?

La fatica dell’incontro con l’altro è sempre molto forte ma sta impiegando tutte le sue energie per sostenerla e non mollare tutto. Mentre lo ascolto mi risuonano le parole di Sartre rispetto allo sguardo oggettivante: «Non appena appare l’altro uomo, le coordinate del mio mondo sono disgregate. Non sono più il centro del mondo, perché anche lui è un centro. L’altro uomo mi deruba del mio mondo, per così dire il mio mondo fugge verso di lui […] io sono l’oggetto del suo sguardo. L’altro solleva una nuova minaccia: che io diventi un puro oggetto, che non sia più un soggetto libero che costituisce un mondo, ma l’oggetto di un mondo di qualcun altro. E, ovviamente, lui è minacciato in modo analogo dal mio sguardo» (Sartre 1965, pp. 323 e seg.).

Lo guardo, gli comunico il mio pensiero, sorride. Il saper essere è un lungo cammino.

 Ringrazio con tutto il cuore A. che con i suoi modi gentili e pacati ha accettato di condividere con me questo tratto della sua vita, permettendomi di ascoltare i suoi pensieri e le sue fatiche e permettendomi di raccontarli.


Note

  • [1] Il termine “normale” è ovviamente convenzionale e assume dei connotati storici, di carattere politico-sociale.
  • [2] Janes (1976) considera il fenomeno come una tappa nello sviluppo del pensiero occidentale. Vedi anche Cardano, Lepori 2012.

Bibliografia

  •  Aa.Vv. 2013, Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Raffaello Cortina, Milano.
  • Baker P. 2009, Quelle voci dentro di te. Manuale Pratico, Independently Published.
  • Cardano M., Lepori G. 2012, Udire la voce degli dei l’esperienza del gruppo voci, FrancoAngeli, Milano.
  • Fernyhough C. 2018, Le voci dentro. Storia e scienza del dialogo interiore, Raffaello Cortina, Milano.
  • Janes J. 1976, Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza, Adelphi, Roma.
  • Maone A., D’Avanzo B. 2015, Recovery nuovi paradigmi per la salute mentale, Raffaello Cortina, Milano.
  • Quarato M. 2019, Allucinazioni: sintomi o capacità? Racconti di errori diagnostici, soluzioni, ribellione e libertà, Fabbrica dei segni, Milano.
  • Romme M., Escher S. 1997 (a cura di), Accettare le voci. Le allucinazioni uditive: capirle e conviverci, Giuffrè, Milano.
  • Romme M., Escher S. et al. 2010, Vivere con le voci 50 storie di guarigione, Mimesis, Milano.
  • Salvini A., Stecca A. 2012, Udire Voci. Ipotesi per la psicoterapia e la ricerca in scienze dell’interazione, in «Rivista di Psicologia Clinica e Psicoterapia», 1/2, pp. 40-58.
  • Sartre J.P. 1965, L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano.
  • Tien A. 1991, Distribution of hallucinations in the population, in «Social Psychiatry and Psychiatric Epidemiology», 26/6, pp. 287-292.

 

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