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Memorie dei tempi basagliani

Rivista annuale a cura del Centro Italiano di Psicologia Analitica Istituto di Roma e dell’Italia centrale

La follia: modelli della psiche e approcci terapeutici La psicologia analitica a 100 anni dalla nascita di Franco Basaglia

2024 Nuova Serie Numero 5 Monografia Franco Basaglia

Memorie dei tempi basagliani

Non ho mai conosciuto personalmente Basaglia, o meglio, lo intravidi una sola volta e il ricordo, a tornare a quel fugace incontro, si sfoca del tutto. Del resto, la mancata conoscenza non desta stupore: purtroppo morì solo pochi mesi dopo la mia laurea in Medicina. Eppure quelli sono stati per me, per tutta la mia generazione, gli anni di Basaglia. Come altrimenti definirli? La sua ombra, benevola, incalzante, disturbante, mi ha costantemente accompagnato, peraltro senza mai scalzare il mito (tale era allora) della psicoanalisi, di cui certo lui non era un entusiasta (e come non riconoscerne anche qualche buona ragione?). D’altronde, se oggi la sua figura risulta talora sconosciuta persino ai professionisti della salute mentale (o dovrei dire della psichiatria?), allora tutti ne parlavano. Me lo ritrovai dinanzi (beninteso figurativamente) pure in un vetusto e antiquato manicomio dell’isola di Creta, per nulla toccato da aneliti innovativi, ove avevo deciso di trascorrere uno stage nell’estate del ’77: un onorevole compromesso tra studio e vacanza, date le spiagge incantevoli che lo attorniavano.  Me ne ero partito con una associazione, oggi resa più che desueta dall’Erasmus, che mi pare si chiamasse “Studenti di Medicina all’estero”, pochi mesi dopo il mio ingresso, in qualità di studente del quarto anno, nella Clinica psichiatrica dell’Università di Ancona, annessa all’Ospedale Psichiatrico Provinciale. Quando si seppe che ero italiano, dal gruppo dei pazienti si fece avanti una signora di mezza età, abbastanza sull’esuberante per come la ricordo, che gridò a gran voce in italiano: «Basaglia, Basaglia, quando ero di passaggio a Trieste sono stata curata proprio da lui: un mito, un grande!».

Quanto a me, quell’unica volta che lo vidi – abbastanza da lontano, lui era sul palco e parlava – fu pochi mesi dopo, durante un’occasione storica: il Reseau di psichiatria a Trieste nel settembre 1977. Me ne andai con un gruppo di colleghe e colleghi, studenti anche loro o già in forza nella psichiatria anconetana. Certo, lì eravamo ben lontani dai centri nevralgici della riforma, ma anche nelle Marche c’era fermento, seppur non di certo paragonabile ai mitici Trieste e, a seguire, in scala di grandezza, Reggio Emilia e Perugia. Del resto, il mio entusiasmo per la psichiatria non era di per sé legato in primis al movimento antistituzionale, sebbene mi venga difficile separare l’immagine che allora avevo della disciplina dagli scritti di Cooper, Laing, e appunto Basaglia e Jervis. Ma la mia passione era nata ancora prima, negli anni del liceo, leggendo Marcuse e, attraverso di lui, scoprendo Freud.

Ricordo “il mio primo giorno in manicomio” (è il titolo di un bel racconto di un internato del Santa Maria della Pietà, Arturo Paolini): camminavo disorientato per i viali del grande parco (tutti i manicomi, come noto, avevano bei parchi alberati oggi riconvertiti) alla ricerca della Clinica universitaria, che occupava un padiglione di recente costruzione all’estremo sud dell’area. Passai dinanzi al padiglione centrale che s’ergeva maestoso a dividere lo spazio di destra e sinistra (tutti i manicomi avevano un bel padiglione centrale). Lì erano situati gli uffici amministrativi e al piano superiore l’abitazione del direttore, come da inveterata consuetudine di inizio Novecento, che però si sarebbe presto persa di lì a poco. Ricordo spesso, quando poi mi sarebbe toccato ripetutamente passare nei pressi per raggiungere il posto di guardia notturno, le note di pianoforte che giungevano da quelle finestre, in corrispondenza del salone, dove il figlio del direttore, mio compagno d’università, divenuto anche lui psichiatra (ma rimanendo in primis musicista), si esercitava beneficiando del prolungato silenzio di quei viali, interrotto a tratti solo dalle rare urla di un giovane paziente oligofrenico, non rammento se nato in ospedale o condotto lì nei primi anni di vita, davvero brutto, tanto da ricordare un mascherone gotico, ma simpaticissimo (il che non toglieva la necessità di evitarne gli abbracci con le mani impregnate di feci e chissà che altro).

Ma in quel mio primo giorno di manicomio, inverno di quel medesimo 1977, per me vero “anno di passaggio” in tanti sensi e per svariati motivi, superata sulla destra la palazzina principale, girato poi a sinistra e di nuovo a destra, mi persi e alfine mi ritrovai a entrare timidamente in uno dei padiglioni storici di fattura inizio Novecento e bussare alla prima porta che mi ritrovai dinanzi (da tempo non c’erano più serrature e posti di guardia), dove mi trovai davanti un collega impegnato con un paziente, che gentilmente mi diede indicazioni. Rammento una mia piacevole emozione nell’“assistere” per la prima volta a un colloquio psichiatrico e nel prefigurarmi io al posto di quel medico in un ambiente in trasformazione che, sebbene mantenesse tutta la pesantezza e l’oscurità di quello stile architettonico carcerario, pareva riuscisse a caricarsi (oltre che di una romantica ambiguità tobiniana) anche del “mistero” della cura.

Nei tanti padiglioni che di lì si dipartivano, avrei conosciuto i miei primi pazienti i cui volti tutt’oggi mi si presentano con  lineamenti inconfondibili: Laura, ad esempio, che soffriva di una forma di grave schizofrenia ebefrenica e girava con la sua bambola, eppure capace di grandi slanci affettivi verso noi tirocinanti e Vinicio, che spesso l’accompagnava, paternamente prendendosene cura, alto, dal sorriso benevolo e da modi così distinti che facevano pensare al rampollo di qualche famiglia nobile.

Tra quei corridoi, ma anche spostandomi nel territorio circostante, avrei svolto la mia tesi di laurea, I rapporti di coppia all’interno dell’Ospedale psichiatrico, con una “casistica” di storie non di rado coronate da una convivenza in case famiglia o appartamenti sparsi nei paesi vicini con il supporto, allora alle prime armi, dell’assistenza infermieristica territoriale.

Sebbene il grande amore di quei tempi restasse la psicoanalisi, cominciavo a leggere oltre ai testi di Freud, gli scritti di Basaglia, pubblicati in due volumi da Einaudi, Fogli di informazione, la rivista di Psichiatria Democratica cui subito mi abbonai, L’Io diviso di Ronald Laing, che risaliva a diversi anni prima, e le varie antologie dell’antipsichiatria pubblicate da Feltrinelli, nonché i volumi della famosa Biblioteca di Psichiatria e di Psicologia Clinica, presso il medesimo editore, curata da Gaetano Benedetti e Pier Francesco Galli, che era stata inaugurata da Il colloquio psichiatrico di Henry Stack Sullivan. In ogni caso (siamo ancora al 1977), il panorama culturale anche ad Ancona non era invero così male. Sebbene fossimo in una città di provincia che più provincia non si può (ma che pure appariva una metropoli a me che venivo da un paese dei dintorni a imperitura vocazione conservatrice), la frequentazione della Clinica psichiatrica, alla cui direzione era stato chiamato Vittorio Volterra, cominciò a dare bei frutti. Ai seminari del lunedì pomeriggio, che si svolgevano in un’auletta di quella prima sede universitaria, che poi sarebbe stata resa inagibile dal terremoto, cominciarono a succedersi relatori quali Franco Fornari, Domenico Casagrande, collaboratore di Basaglia a Trieste, Pier Francesco Galli, Romolo Rossi, Carlo Reda, Luigi Frighi, Pino Vetrone, Bruno Callieri, Dario De Martis, Fausto Petrella, Silvano Arieti di passaggio dagli States, Gaetano Benedetti  e infine (last but not the least) Salomon Resnik, che poi divenne professore a contratto alla scuola di specializzazione, aprendosi così le porte per una intensa, fruttuosissima collaborazione.

Terminati i seminari, con un gruppo di amici, studenti prima, specializzandi poi, e con le immancabili psicologhe tirocinanti, ci si ritrovava per un aperitivo in un bar a picco sul mare. Lì si cominciava a parlare di varia umanità, come naturale tra giovani che da non molto avevano passato i venti e l’adolescenza. Ma quando attaccavo io, il tema era sempre monotonamente, ripetutamente, incessantemente la psichiatria e, quel che è peggio, era davvero difficile (anzitutto per me stesso) fermarmi. Me lo faceva notare bonariamente un collega di poco più anziano, che già lavorava da qualche anno in Clinica. Io gli davo ragione, cercavo di smettere, mi provavo a parlar d’altro per cinque minuti e poi riattaccavo.

Giunse così il 5 novembre 1979, giorno della laurea. Lo cito non perché la ricorrenza abbia in sé qualche rilievo, ma per il fatto che il 6 novembre alle 9 di mattina ero già a prestare servizio come volontario e subito dopo come “tirocinante pratico ospedaliero” nel Servizio di Psichiatria di Diagnosi e Cura/Clinica Psichiatrica universitaria. Tra il ’77 e il ’79 c’era stato infatti il ’78 e con esso, come stranoto, la Legge 180 con l’istituzione degli SPDC. I docenti più illuminati s’erano affrettati a proporre (alcuni invece lo avrebbero fatto con vari decenni di ritardo…) la conversione della clinica universitaria secondo i dettami della nuova legge e Volterra, in sintonia con i suoi amici Dario de Martis e Fausto Petrella, era stato tra questi.

Di quel periodo trascorso in SPDC, tra la fine dei Settanta e l’inizio degli Ottanta, cui sarebbe seguito un incarico temporaneo in Ospedale psichiatrico e nei nascenti servizi territoriali ad esso legati (leggasi CIM, Centri di Igiene Mentale) ho un ricordo che definirei “romantico” con me nel ruolo dello studente un poco invasato, che giunge a presentarsi in ospedale, non richiesto, il primo dell’anno, solamente a scopo scaramantico, in ossequio al detto quel che fai il primo dell’anno, lo fai tutto l’anno. Dato che oramai Ancona non mi bastava più e cominciavo a pensare alle città che consideravo centri nevralgici della psichiatria ma soprattutto della psicoanalisi, cioè Roma e Milano, mi ostinavo a rimanere nella cameretta dell’appartamento che condividevo sin dai tempi universitari con altri studenti, pur potendo permettermi con i miei primi guadagni un monolocale in affitto, senza gravare sui miei. E quella cameretta era davvero squallida: un letto dalla rete sufficientemente sfondata, un armadio di tela plasticata, un vecchio tavolo di legno, epperò di dimensioni tali da contenere per bene tutti i miei libri. Sopra il letto avevo attaccato con quattro puntine un manifesto di Psichiatria Democratica contro la stigmatizzazione, opera di un famoso vignettista dell’epoca, che avevo acquistato per l’appunto al Reseau e diceva grosso modo: “mi hanno fatto uscire dal manicomio, mi hanno trovato una casa e un lavoro… ma c’è gente che un matto lo riconosce anche quando è fuori”. Su di un’altra parete, a fargli da contrappunto, avevo attaccato la locandina, più pregna di suggestioni psicoanalitiche e dal tocco raffinato, del film Nosferatu di Werner Herzog. Avevo organizzato la giornata, specie le ore iniziali, in modo molto metodico: mettevo la sveglia alle 7.30 e dedicavo un’ora alla lettura prima di recarmi alle 9.00 in ospedale. Alternavo tre testi, nella convinzione che da essi avrei tratto linfa vitale e indicazioni operative utili per la mia giornata di lavoro, nella prospettiva di quello che era divenuto il mio interesse principale in ambito clinico: la psicoterapia psicoanalitica delle psicosi. Si trattava di libri allora di recente pubblicazione, di cui molto e a ragione si parlava, che tutt’oggi non hanno minimamente perso il loro valore, ma che forse troverebbero meno lettori: Alienazione e personazione nella malattia mentale di Gaetano Benedetti, Interpretazione della schizofrenia di Silvano Arieti e Persona e psicosi di Salomon Resnik.

Ma c’era anche l’altro mio interesse che si veniva formando in quegli anni, stavolta più epistemologico che clinico, di cui fu iniziale espressione un mio seminario tenuto durante i primi anni di specializzazione dal titolo L’osservazione in psichiatria, in cui per la prima volta feci uso della parola “ermeneutica”. Così, già a fine ’79, oltre che entrare in SPDC, avevo compiuto un altro passo importante: durante le vacanze di Natale ero andato a trovare uno psicoanalista milanese dagli spiccati interessi filosofici, che era solito trascorrere quel periodo, al pari dei mesi estivi, nella sua casa al parco del Conero: Enzo Morpurgo. Cominciò così un’intensa amicizia che si sviluppò non solo, in estate, nel corso dei giri estivi in barca a vela e delle cene con gli immancabili vincisgrassi che mia madre solertemente e abilmente preparava, ma anche, negli altri mesi dell’anno, con la frequentazione dei suoi seminari milanesi e della associazione da lui fondata, Psicoterapia Critica. Partivamo, io, un collega psichiatra e una psicologa, con il treno del pomeriggio che raggiungeva Milano intorno alle 20.00 e ce ne tornavamo con uno che viaggiava di notte, per giungere in Ancona verso le 6, 7 del mattino: una rapida risciacquata al viso e via in SPDC.

Ma dopo un anno e mezzo in Clinica e un semestre di supplenza nei nascenti servizi territoriali (allora di competenza non regionale, bensì provinciale), l’incarico non mi fu rinnovato. Partii per il servizio militare, ma nel frattempo avevo iniziato un’altra esperienza entusiasmante: i seminari di Salomon Resnik a Venezia. Lì conobbi un gruppo di psichiatri che avevano lavorato o ancora lavoravano a Reggio Emilia, orfani di Giovanni Jervis, che da poco se n’era andato a Roma, fortemente interessati come me alla psicoterapia degli psicotici in ambito istituzionale. Sempre in quel periodo, azzardai un colloquio per iniziare un’analisi didattica nella Società Psicoanalitica Italiana e, vista l’amicizia con Morpurgo, la scelta non poté che ricadere su Milano. Incontrai un didatta ed ottenni la sua disponibilità ad iniziare non appena fossi riuscito a trasferirmi, magari anche in una città non troppo lontana. In contemporanea un collega del gruppo Resnik mi invitò a partecipare a un concorso indetto a Reggio. Così feci, lo vinsi e risolta oramai l’indecisione tra Roma e Milano a favore di quest’ultima, dove mi attendevano sia la SPI che Psicoterapia Critica, finito il militare mi diressi alla volta dell’Emilia.

Giunto a Correggio sotto un nevischio irritante (si era negli ultimi giorni del 1982), dopo un poco confortevole viaggio in treno, mi ritrovai a bussare alla porta del SIMAP (Servizio di Igiene Mentale e Assistenza Psichiatrica). Qui mi ritrovai immediatamente immerso in quel clima poco asettico che contraddistingueva quegli anni (un clima che peraltro i CSM si sono portati avanti anche negli anni a seguire, ma spesso – vien da pensare – con meno spirito innovativo e un po’ più di disorganizzazione). Mi venne ad aprire un infermiere dallo sguardo un po’ bizzarro, accentuato dallo strabismo, mi squadrò con un fare sbrigativo (che però avrei scoperto si combinava con una bella disponibilità affettiva) e mi condusse nel salone del pian terreno ove l’équipe era riunita… per l’ora di pranzo. Mi invitarono caldamente a unirmi a loro e poco dopo il medesimo infermiere, affaccendato, giunse dal cucinino retrostante con una padella di pasta. Si aprì una bottiglia di lambrusco – o forse più d’una – e tra l’alzataccia del mattino e il vino cominciai a mostrare un certo abbiocco. Nessun problema: prima di prender servizio mi “imposero” un meritato riposo presso una camera del non ancora inaugurato Centro Appoggio, progettato come centro crisi alternativo al ricovero ospedaliero (da poco avevo visitato quello di Aaron Esterson a Londra con Salomon Resnik). Ma, per lo meno nei due anni che io rimasi, il Centro non si aprì mai ed io fui l’unico (paziente?) a soggiornarvi per 3, 4 giorni, prima che una collega mi trovasse una sistemazione a Reggio.

Anche senza centro crisi, tuttavia, quegli anni di lavoro territoriale furono entusiasmanti, forieri di amicizie ancora oggi vive e di un impegno collettivo che, sebbene in alcuni di loro portasse le stimmate del “tradimento” jervisiano, era non di meno ancora quello di chi crede di star costruendo un nuovo modello di cura. Tra di essi brillava per impeto e empatica aggressività, che risparmiava ben pochi, la “pasionaria” della psichiatria reggiana, un’infermiera che di Jervis era stata stretta collaboratrice e che, laureatasi in quei medesimi anni, rivestiva ora il ruolo di psicologa del CSM. C’erano poi le supervisioni istituzionali, per me una novità, con uno psicoanalista di grande esperienza psichiatrica. Forse non avrei abbandonato così prontamente Reggio se, pochi giorni dopo esser giunto, telefonando con il cuore in gola a quello che avrebbe dovuto essere il mio analista didatta, lo sentii, dall’altro capo della linea, titubante e incerto, risolvendosi infine a dirmi che, insomma, non si ricordava affatto del nostro colloquio. Pochi giorni dopo, garantendomi di essersi premurato di ricercare accuratamente tra i suoi appunti, mi dette conferma di quella sua di certo irrilevante, ma per me disgraziatissima amnesia. Proprio in quegli stessi giorni era peraltro uscita la convocazione per i così detti “primi colloqui” da parte del Centro di psicoanalisi di Roma. Non c’era da perder tempo in indecisioni e feci la domanda. A questo punto ci si potrebbe chiedere perché limitare la mia scelta a Milano o Roma, quando era disponibile anche il Centro bolognese, che mi avrebbe con buona probabilità consentito, a differenza degli altri due, di fare le quattro sedute “avanti e dietro” senza necessariamente prevedere il trasferimento da Ancona. Certo il desiderio di evadere avrà avuto il suo peso, ma un rilievo d’una certa importanza l’ebbero anche Basaglia e il suo movimento. Il discorso si fa delicato… ma si parlava abbastanza d’un certo conflitto all’interno dell’Ospedale psichiatrico di Bologna tra i basagliani e gli psicoanalisti della SPI (non tutti certo, ma buona parte e nomi che contavano) ed io che ero piuttosto per il dialogo e l’integrazione (o detto in altri termini, con un piede da una parte e uno dall’altra) avrei avuto difficoltà e mettermi in quella situazione. Per una ragione non del tutto dissimile, non decisi mai di iscrivermi né a Psichiatria Democratica, né alla Società Italiana di Psichiatria, sebbene allora partecipassi frequentemente ai congressi di quest’ultima e della prima condividessi gli obiettivi di fondo, ma non il sociologismo e l’attitudine antipsicoterapeutica e antipsicoanalitica che ne conseguiva.

I due anni a Correggio passarono veloci, ma oramai ero proiettato verso Roma e dunque si rendeva necessario un rientro nelle Marche, da dove avrei potuto per lo meno iniziare la mia analisi in vista del trasferimento futuro. Tornai così nella mia stanzetta da studente (che in realtà non avevo mai lasciato, utilizzandola come pied à terre per i seminari del lunedì della Clinica psichiatrica) e mi apprestai a un quadriennio di lavoro a Falconara, stavolta sia nel CSM che in SPDC: pochi letti, ma all’interno di un reparto di medicina generale. Chi oggi penserebbe a una tale esperienza (che diede peraltro ottimi risultati) se non qualche scrittore di fantascienza?

Nel frattempo già nell’ultimo periodo trascorso a Correggio (e nei primi anni nuovamente ad Ancona) avevo cominciato a orientare verso Roma la mia formazione, seppur non ancora all’interno della Società Psicoanalitica.  Ero in contatto con Massimo Ammaniti, anche lui conosciuto nel corso dei seminari della Clinica, il quale mi invitò a quelli che era solito organizzare insieme con Fausto Antonucci, presso il CSM di via Cimone. Anche qui con ospiti illustri e un tema di fondo ben definito, che dava anche il titolo alla rivista che aveva fondato e su cui poi mi capiterà di scrivere: Prospettive psicoanalitiche nel lavoro istituzionale.

Poi, due anni dopo aver iniziato l’analisi a quattro sedute con conseguente io diviso tra Roma e le Marche (dove si rendeva necessario lavorare sino alle 20.00 del sabato sera per completare l’orario) vinsi finalmente un concorso come aiuto alla ASL allora n. 17 e fui destinato, su mia stessa richiesta, al nascente Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura dell’Ospedale Santo Spirito: un’esperienza che anch’essa si preannunciava esaltante, non solo perché tale è inevitabilmente sempre la costruzione del nuovo, ma anche per l’ipotesi che veniva dichiaratamente e enfaticamente messa in gioco: un reparto con le porte aperte e senza contenzione. Giunsi nel gennaio dell’89: dunque anche in tal caso mancai – e di molto – un mio possibile incontro in diretta con Basaglia che, giunto a dirigere i servizi della capitale era, come ricordato in apertura, prematuramente deceduto nove anni prima nel pieno del lavoro drammaticamente difficile di importazione in area metropolitana dell’esperienza triestina. Restavano però i suoi allievi, tra cui in particolare due primari dalla tempra decisa: Tommaso Losavio, cui spetterà il merito storico della chiusura del Santa Maria della Pietà all’inizio degli anni Duemila e il più giovane Renato Piccione, primario appunto della ASL 17 e ideatore del nuovo SPDC del Santo Spirito. Di Renato si potrebbero elencare tanti punti critici: testardo, rigido, originale nelle sue teorie un po’ più del necessario… e si potrebbe continuare a lungo su questa linea, ma vorrei ricordarne un’altra caratteristica: è stato indubbiamente il miglior direttore di Dipartimento che abbia avuto. Senza il suo entusiasmo talora un po’ ingenuo si sarebbe potuto fare ben poco. Per giunta era pure ambizioso: sosteneva che quello da lui diretto fosse il miglior Dipartimento di Salute Mentale del Lazio. Ambizioso sì, ma probabilmente non a torto e, se non era il Dipartimento n.1, certamente spiccava e di molto. Oggi, con la situazione attuale del Servizio Sanitario Nazionale, anche ad essere i primi assoluti temo ci sia poco da vantarsi. Alla sua partenza (siamo all’inizio degli anni Duemila) la psichiatria manageriale aveva iniziato saldamente a prendere piede (ad essa si erano convertiti molti ex di Psichiatria Democratica e aree limitrofe) e l’ideologia del management si contendeva l’egemonia con la psichiatria biologica (con cui peraltro avrebbe sviluppato, com’era da attendersi, grandi intese).

Ma quegli anni Novanta furono altra cosa. La creazione del nuovo SPDC, che nei primi tempi si sarebbe davvero contraddistinto rispetto agli altri servizi romani per l’assenza di contenzione e le porte aperte, ci impegnò in continui incontri e in una organizzazione dell’équipe cui ci dedicammo intensivamente, come nostro compito esclusivo, per i 3, 4 mesi precedenti l’arrivo delle prime pazienti (si iniziò progressivamente con pochi posti riservati all’utenza femminile per poi allargare anche agli uomini e arrivare infine ai posti letto previsti dalla Legge). Nel corso di quei primi anni vennero invitati supervisori particolarmente sensibili alla psicoanalisi istituzionale, come Filippo Ferro e Giancarlo Zapparoli. Fummo, per un periodo non breve, ma nemmeno troppo lungo, una prova tangibile dell’incontro tra il pensiero di Basaglia e la psicoanalisi. In quel clima diedi l’avvio al mio primo libro Ermeneutica e narrazione, che recava come sottotitolo: Un percorso tra psichiatria e psicoanalisi. Era un saggio non solo clinico, ma in buona parte anche teorico, come piaceva a me, in cui mi aprivo alla filosofia ermeneutica e soprattutto al pensiero di Ricoeur, ma era impregnato delle mie esperienze di psichiatria istituzionale e in particolare di quella in SPDC. Lì proposi l’idea di agire empatico e comunicativo e descrissi a mo’ di racconto un caso che aveva strenuamente impegnato tutta l’équipe: una paziente, forse affetta da una sorta di psicosi isterica, che era pervenuta ad un quadro di cachessia con alterazione di numerosissimi parametri ematochimici, allettata, mutacica, nutrita e accudita pazientemente da una delle più solerti infermiere con una intensa collaborazione corale. Filippo Ferro ancora la ricorda bene e talvolta la rievoca quando abbiamo occasione di incontrarci. S’era davvero creato un clima corale dove l’agire (e il pensare) empatico e comunicativo prevaleva sul fare nelle sue forme protocollari e istituzionalizzate. Ma durò non molto, forse lo spazio di un quinquennio o poco più: il primario Antonio Marasca si pensionò, io, divenuto a mia volta primario, passai a dirigere un servizio territoriale del medesimo Dipartimento e, quando me ne tornai in Ospedale, quasi vent’anni dopo, trovai una diversa realtà. Nel frattempo, agli inizi del Duemila, anche Renato Piccione se ne era andato, consapevole di non riuscire a reggere (anche per suoi problemi di salute) l’impatto conflittuale con la nuova direzione aziendale, espressione tra le più meschine della nuova governance regionale.

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Avevo dunque iniziato nel 1995 la mia esperienza di dirigente dei servizi territoriali (Centri di Salute Mentale in forma diretta, Centro Diurno, Comunità Terapeutica). Le varie équipe erano magari talvolta un po’ litigiose e autoreferenziali, ma il coinvolgimento corale non aveva cessato d’essere al centro del gioco: si programmavano e realizzavano interventi per pazienti gravi non collaborativi (più correttamente si parlava di “situazioni di non collaborazione”), la psicoterapia era una forma di trattamento frequente e erogato non solo a pazienti psicotici, l’integrazione tra psicoterapia e psicofarmaci era una realtà (sempre peraltro in forme perfettibili e dall’esito non garantito: l’integrazione è alla fine e non all’inizio, affermavo parafrasando quanto Henry Ey aveva detto della schizofrenia), le attività di gruppo offerte dal Centro Diurno erano numerosissime, si sviluppavano in gran misura nel territorio e coinvolgevano persone con le competenze più diverse (artisti, giornalisti, fotografi, istruttori sportivi, guide del CAI, etc.). C’era poi la nuova Comunità Terapeutica, aperta anch’essa su input di Renato Piccione, integrata nel territorio, al centro di uno dei quartieri della Roma “bene” con diversi appartamenti satelliti, ove i pazienti non in grado di rientrare a casa potevano trasferirsi per un più prolungato periodo, pur continuando a fruire del supporto degli operatori della Comunità stessa. Occorre del resto ricordare come all’epoca i Dipartimenti romani pullulassero di psicoanalisti, la maggior parte dei quali era strenuamente impegnata nell’interrogarsi sul ruolo e la funzione della psicoanalisi nelle istituzioni: un tema rimasto saldamente al centro del dibattito per tutta la seconda metà del secolo scorso e ancora aperto. Certo non per tutti era così. V’era anche chi preferiva viversi una “sana” dissociazione (chissà se Bromberg l’avrebbe definita così…) tra l’impegno pubblico del mattino e lo studio privato del pomeriggio.

Nel contempo il Dipartimento aveva definito un accordo con la Clinica psichiatrica del Policlinico Gemelli, allora retta da un amico della generazione precedente la mia, con cui pure avevo condiviso le mie passioni, Sergio De Risio. La scuola di psichiatria della Cattolica era stata da sempre alfiere della psichiatria psicoanalitica, sebbene non si fosse reso possibile quello che tanti anni prima s’era realizzato ad Ancona, Pavia e altre realtà nazionali: la creazione di un SPDC a conduzione universitaria. A questo suppliva un lavoro a stretto gomito: molti di noi insegnavano alla scuola di specializzazione, gli specializzandi frequentavano le strutture del Dipartimento per il loro tirocinio, c’era una buona intesa culturale che si traduceva nell’organizzazione congiunta di convegni e seminari (centrale anche qui l’apporto di Salomon Resnik).

Ma con l’arrivo del nuovo secolo, il cambiamento iniziò a farsi sentire. Si iniziò a parlare di azienda e management e molti furono affascinati dalle nuove prospettive. Il Dipartimento si valeva ancora di “supervisori” esterni, ma non erano più colleghi di altri servizi o psicoanalisti, bensì analisti della Bocconi o della LUISS, nei casi più felici, o di agenzie private, nei più frequenti, del tutto sconosciute e prive di prestigio, ma che godevano di buoni rapporti con la direzione aziendale.

A questo si affiancava, sul piano di più stretta pertinenza psichiatrica e dell’insegnamento universitario, il ritorno trionfante della psichiatria biologica, con i suoi araldi: il Diagnostic Statistic Manual of Mental Disorders nelle sue ultime versioni e soprattutto la fede incrollabile che la sofferenza psichiatrica fosse riducibile nel 90% dei casi ai disturbi bipolari (riduzionismo in verità non imputabile alle varie edizioni del DSM, ma che contraddistingue tuttora buona parte della psichiatria universitaria italiana con quella romana in testa).

Così dimenticare Basaglia è divenuta una realtà.

I servizi hanno dimenticato d’un sol colpo sia Basaglia che il pensiero psicoanalitico; la carenza di personale ha fatto il resto ed oggi le parole “dialogo”, “relazione”, “intersoggettività” continuano ad essere al centro del vocabolario dei filosofi e indubbiamente degli psicoanalisti, ma non più degli psichiatri, i quali non si sentono onorati, bensì in forte disagio, ad avere a che fare con una disciplina (non l’unica, ma con modalità uniche) il cui statuto epistemologico si colloca all’incrocio tra scienze umane e scienze della natura (distinzione che purtroppo anche in campo epistemologico oggi si tende a svalutare).

Dimenticare Trieste, dimenticare Basaglia, dimenticare quanto la psichiatria avrebbe potuto insegnare a una medicina che mai è stata depersonalizzante come oggi, preferendo piuttosto la prima accodarsi alle aspirazioni protocollari e evidence based della seconda, ignara che proprio tale prospettiva la condanna a quel ruolo ancillare, che già ricopriva prima di Basaglia.

Ho voluto raccontare, io che ho la cattiva abitudine di parlare sempre di metodo e di evidenziare l’asettico primato della teoria, foss’anche per contestarne il valore, quanto la passione abbia pesato nella professione per tanti colleghi della mia generazione e il ruolo che potrebbe continuare a ricoprire, una passione senza la quale è ben difficile sentire la felicità della psichiatria.

Se avessi scritto un ennesimo saggio, non penso sarei riuscito nell’intento e, dopo anni di tanto scrivere, forse mi sarei anche un poco annoiato.

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