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Quattro chiacchiere prima della puntura. Basaglia, la potenza, il miracolo, la liberazione e la salvezza

Rivista annuale a cura del Centro Italiano di Psicologia Analitica Istituto di Roma e dell’Italia centrale

La follia: modelli della psiche e approcci terapeutici La psicologia analitica a 100 anni dalla nascita di Franco Basaglia

2024 Nuova Serie Numero 5 Monografia Franco Basaglia

Quattro chiacchiere prima della puntura. Basaglia, la potenza, il miracolo, la liberazione e la salvezza

Proverò a trascrivere sul filo, spero benevolo, della memoria le quattro chiacchiere che qualche tempo fa mi feci con Maurizio (Bellomo 2015) poco prima della sua puntura Long Acting mensile al CSM 5 della Guadagna.

In un primo tempo, mi ero proposto di commentare quanto riportato di quell’incontro con:

  • un approfondimento teologico sul testo evangelico citato da Maurizio;
  • alcune citazioni di Massimo Cacciari, di Emmanuel Lévinas e di Michel Foucault sulla figura potenza;
  • il concetto di Noli me tangere di Romolo Rossi a proposito della figura miracolo;
  • diversi riferimenti a Jacques Derrida, Dante Alighieri e Don Lorenzo Milani a proposito della figura miracolo.

Ovviamente non ho pensato ad alcun approfondimento sulla figura salvezza, essendo questa, come si vedrà, rimasta in sospeso.

Poi ho cambiato idea.

Tutto questo bel carico di ragionamenti e di discorsi avrebbe probabilmente finito per appesantire il racconto, rendendone meno fluida e fresca la lettura. Magari vi ritornerò in un altro momento. Per ora penso sia meglio così.

Di Maurizio dirò questo.

Da alcuni anni mio paziente al CSM, lui la canazza tinta della follia l’aveva conosciuta per davvero, sperimentandone sulla carne i cattivi morsi feroci. Quegli stessi morsi e graffi e urla che dieci anni prima l’avevano spinto a buttarsi giù nell’abisso della pazzia; e che il buttarsi giù non sia un semplice modo dire ce lo dice quel sopravvissuto che compare nel titolo del suo libro; parlo qui della creatura, fatta di parole, che un senso liberatorio diede poi alla sciagurata vicenda di dieci anni prima.

I morsi di un tempo ormai per fortuna non l’assalgono più. Gli è rimasto, come immacolato e intangibile, un fondo di astrattezza e di sospensione, d’avamposto si direbbe, proprio come ci insegna la magistrale descrizione di Wolfgang Blankenburg. Un fondo che mi fa pensare a Dino Buzzati, al suo Deserto dei Tartari, un avamposto di frontiera per l’appunto, dove nulla e tutto accade a un tempo.

Il talento di Maurizio è che questo fondo lui sa descriverlo con naturale quanto raffinata grazia: ne riconosce le impennate vertiginose e gli ambigui richiami, ne sa tracciare i labili confini e le infinite propaggini; e, soprattutto, arriva persino ogni tanto a giocarvi con sussiegoso orgoglio. Maurizio sa che l’incontro con la canazza tinta, una volta che questa, per quanto addummisciuta, sia stata finalmente domata, gli ha concesso di ereditare un tesoro di conoscenza incarnata che certamente il suo psichiatra non può neppure sognarsi di sfiorare. La cosa buona è che di tanto in tanto il sussiegoso orgoglio cede il passo a una tenerissima e generosa voglia d’insegnamento; che dunque io ne faccia a mia volta tesoro del suo racconto, per me e per gli altri miei pazienti.

Non vorrei enfatizzare la cosa, ma forse è proprio così che Maurizio è riuscito a fare di un destino di morte un destino di vita.

 Ed è per tutto questo che quel giorno, quando Maurizio mi prese il discorso su Basaglia, io non potei fare a meno di riservargli il più attento ascolto. Chi infatti meglio di lui aveva titolo per parlare di Franco Basaglia, «Psichiatra nato a Venezia l’11 marzo e lì morto il 29 agosto 1980, studioso non solo di Medicina, ma anche di Sartr, Pontì, Asserl e Bisvamgher, Specializzato in Malattie Mentali a Padova nel 1953, sposo nello stesso anno di Franca Ongaro, padre di Enrico e di Alberta, Direttore di vari Manicomi del Nord, Padre della Grande Legge 180»? Una gran degna persona, insomma, che la canazza tinta l’aveva davvero combattuta sul campo vivo della battaglia, mettendoci e rischiandoci del suo, e non bello ammucciato dietro a una superba cattedra d’Università o a un sonnacchioso lettino psicoanalitico.

Quella mattina, dunque, Maurizio mi prese di petto, che forse neanche il buongiorno mi aveva dato. «Ma com’è che nella sua stanza qui al CSM non c’è appizzata una bella cornice con la foto di Basaglia (e lì, tutto d’un fiato, la presentazione di cui sopra), Basaglia il Basamento della Psichiatria italiana?»; fierissimo di quel “bas” – penso proprio gli sia venuto, folgorante, al momento – che solo un infame vezzo di ragionamento psicopatologico potrebbe considerare alla stregua di una residua allitterazione di qualità schizofrenica. Domanda questa, buttatami addosso, dal sotto del biondo baffetto malizioso che tutto un programma era.

Facendo io bellamente lo gnorri, gli chiesi perché mai avrei dovuto mettercela quella foto nella mia stanza al CSM, accanto alle foto di Maigret – versione Gino Cervi – di Maria Yudina e di Edith Stein.

«Perché il dottor Basaglia fu potente, ci fece il miracolo, come Gesù Cristo, e come Gesù Cristo la liberazione e la salvezza ci portò».

La potenza

 «Sì potente fu, e buono pure, e non come Perlusconi – e lì se ne venne con un’altra delle sue – Per-lusconi, la Per-la, ma quale Perla, per carità!».

Io, ancora a fare lo gnorri: «Ma potente e buono de che?».

«Io m’immagino questa cosa, che uno è potente non quando fa le guerre o, come oggi qua da noi altri, si piglia i voti e poi non fa una m…; no, io penso che uno è vero potente quando fa delle cose e poi queste cose ci cambiano la giornata colla sua miglioria. Ma proprio la giornata, voglio dire, la minutaglia della giornata, come le porto l’esempio di noi che oggi ce ne stiamo qui, prima della puntura, a camminare, babbiare e contarci le cose sotto questo bellissimo sole. Ora vuole che se non c’era Basaglia eravamo qui a fissiarcela belli tranquilli come siamo? E io pure a farci l’accusa e a pigliarla pure in giro, a lei, il mio dottore, che non ce l’ha ancora la cornice di Basaglia? Ma andiamo! Lei lo sa dove eravamo se non c’era iddu! Lei colla camicia bianca lunga, dietro una scrivania con qualche mala siringona in mano e io stinnicchiato e pure attaccato sopra qualche malo letto. E ora, invece, io sono qua a farci il maestro e lei come un caruso che mi deve ripetere la lezione. Anzi, mi viene questo in testa, che pure lei in questo momento è potente, perché non fa il dottore che sa tutte le cose come l’Ave Maria, ma fa il dottore che resta due passi dietro e sta zitto, fa finta di non sapere le cose e così fa parlare a me».

Il miracolo

 «Basaglia il miracolo così lo fece, uguale a quello di Gesù, senza che Gesù se la prende a male».

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E io: «See, pure il miracolo come nostro Signore! Che fa Basaglia? Ora si mise a moltiplicare i pesci e a trasformare l’acqua in vino?».

«Ma quando mai! Che fa, lei non lo sa? Basaglia fece come Gesù con quello che non parlava e non ci sentiva, che c’infilò il dito nell’orecchio e quello ci sentì, poi ci toccò la lingua colla saliva quello parlò».

E io, ora davvero basito, altro che finto gnorri: «Ma tu queste cose dove le hai sentite?».

«Come dove l’ho sentite? Nel Santo Evangelo, letto di persona dal parrino».

La liberazione

«E perciò la dico giusta se penso che quel poveretto, una volta che cominciò a sentire e a parlare, vero libero fu, perché prima le parole per sentirle e dirle aveva bisogno di qualcuno; e magari giusto per questo invece di amico quello ci faceva da padrone superchioso; e poi forse manco giuste gliele contava. E così, via facendo, quel cristiano che idea si poteva fare di lui stesso e del mondo, se le parole ci arrivavano così affumate? E poi sa cos’è che m’immagino, che però questo il parrino non l’ha detto, e cioè che quel miracolato, che prima se ne doveva stare sempre in un agnuni, incollato a chi gli faceva il favore di prestargli la lingua e l’orecchio, se ne scappò di casa e pigliò a girarsi il mondo, perché, come diceva quella benedetta donna di mia madre, “cu avi lingua passa ‘u mari”».

La salvezza

 «Alla fine, un’altra cosa gliela voglio proprio dire bella e chiara. “Cu avi lingua si salva”, sempre mia madre me lo diceva e una volta mi spiegò anche perché e, se lo vuole sapere, ora glielo spiego pure a lei, perché me lo fui stampato bene in testa».

Ma fu lì che lo chiamarono per la puntura e quella spiegatura mai purtroppo mi arrivò.


Bibliografia

  • Bellomo M. 2015, Aforismi esistenziali di un sopravvissuto, Vera Canam, Palermo.

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