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Rivista annuale a cura del Centro Italiano di Psicologia Analitica Istituto di Roma e dell’Italia centrale

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2024 Nuova Serie Numero 5 Editoriale

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Questo è un numero particolare, si tratta di un numero monografico dedicato alla figura e all’opera di Franco Basaglia. Nel 2024 ricorrevano i 100 anni dalla sua nascita e molte sono state le iniziative a lui dedicate. Anche noi della Redazione abbiamo voluto ricordare una figura così significativa per la psichiatria e per lo sviluppo della società, e non solo italiana, poiché la rilevanza delle sue idee e della sua visione della pratica psichiatrica ha oltrepassato i confini nazionali, trovando ricezione negli altri paesi europei[1] e anche oltreoceano, specialmente in Brasile e in Argentina, paesi in cui il metodo basagliano trova ancora oggi larghissimo seguito. L’OMS indica la Legge 180, che porta il suo nome, come la migliore legge per il trattamento della salute mentale e considera l’Italia il Paese che dispone della legislazione più rispettosa dei diritti delle persone con disturbi mentali.

Quella di Basaglia è stata una vera e propria rivoluzione, basti pensare che la chiusura dei manicomi ha portato alla diffusione sul territorio di strutture di accoglienza e di cura: i CIM, gli SPDC, le case famiglie, strutture di comunità, cooperative ecc., realtà oggi per noi “normali”.

Si tratta di cose note ma lo ricordiamo per le generazioni più giovani che magari non pensano che l’attuale diffusione sul territorio di tutte le più varie strutture dedicate a prendersi cura dei disturbi mentali è stata il risultato di una battaglia sociale e politica guidata in primis da Franco Basaglia, a cui hanno fatto seguito molti psichiatri e operatori; e non dobbiamo neppure dimenticare le più generali lotte per la liberazione da ogni gerarchia autoritaria di cui è stata protagonista la cultura e la società tra la fine degli anni ’60 e gli anni ’70.

Dobbiamo, tuttavia, onestamente riconoscere che alla legge e alle sue intenzioni talvolta non è seguita una altrettanto valida sua applicazione: troppo spesso il peso dei malati mentali è ricaduto sulle famiglie e troppo spesso si è persa la specificità psichiatrica per favorire strutture generiche di contenimento, lontane dalla cura. Ma, nonostante le critiche, il passo è stato compiuto e oggi possiamo e dobbiamo solo migliorare tutto ciò e non certo pensare di tornare indietro.

In questo editoriale ci preme soprattutto sottolineare che l’introduzione del “metodo” basagliano ha comportato un vero e proprio cambio di paradigma, e non solo nella psichiatria: dopo di lui ciò che si è trasformato, nelle menti delle persone e nella società nel suo complesso, è stato proprio l’approccio alla malattia mentale. Basaglia per primo aveva visto che la realtà dei manicomi stringeva la follia in una morsa che aggravava la malattia stessa e ne impediva una comprensione più profonda e con questo la possibilità di comprenderla per ciò che era. La storia di Basaglia è la storia della possibilità di un cambiamento, è la storia di idee e pratiche che, pensate e volute, hanno trasformato il possibile in reale.

La rottura con la psichiatria di stampo positivista è stata insanabile: “quando una persona soffre di disturbi psichici è la sua vita stessa che si è danneggiata e per la ‘vita’ non ci sono ancora farmaci adeguati”, era una espressione di uso corrente all’epoca. Certamente oggi il rapporto della psichiatria con la farmacologia si è ammorbidito rispetto a sessant’anni fa, ma rimane sempre la centralità del punto di vista e della teoria di riferimento: è ben differente somministrare psicofarmaci con l’idea della loro unica possibilità curativa rispetto al somministrare gli stessi psicofarmaci avendo come prospettiva un essere umano, una persona, un cittadino, qualcuno che ha un nome e un cognome, che ha comunque reti di relazioni e che riveste una propria dignità. Si tratta di prospettive antropologiche e di visioni del mondo che non si conciliano con una visione positivistica o esclusivamente organicistica che vedono in un paziente esclusivamente l’oggetto di un loro sapere indiscutibile; l’essere umano nella sua totalità e soggettività meglio si inserisce in teorie filosofiche che hanno storie e tradizioni di pensiero consolidate e in teorie psicologiche che, derivate dalle prime, non hanno perduto l’attenzione alla complessità dell’esistenza.

Con la radicalità del suo pensiero, Franco Basaglia ha messo in discussione la stessa base epistemologica della psichiatria, affermando che il manicomio si basa su una non-scienza ma serve a mantenere in stato di isolamento e segregazione i “diversi”, coloro che non entrano all’interno dei parametri ritenuti normali dalla società civile, soprattutto tiene lontano i “pericolosi”, i “violenti” che rappresentano una minaccia per l’ordinata ed “educata” società civile: nulla a che vedere con la “cura”.

Noi, da psicologi analisti, riteniamo che l’essere umano sia un unicum, non scomponibile se non per esigenze momentanee, ma che debba sempre essere successivamente ricomposto nelle nostre menti e nelle nostre visioni del mondo. Riteniamo anche che esiste un legame inscindibile tra il singolo e il mondo-ambiente in cui vive e che i suoi propri problemi trovano un alveo di significato all’interno del posto in cui si trova a vivere.

Crediamo che si debba tornare a riflettere su tutto questo; dobbiamo evitare ogni posizione riduzionistica, e riuscire ad “abitare” la complessità, la complessità dell’essere umano nella sua singolarità e la complessità della società in cui ci troviamo a vivere, così come la complessità di questo mondo che oggi sembra anche non avere più confini. Stare nella complessità non è facile perché si tratta di una ricoeriana “via lunga” che prevede tempi lunghi, attenzione direzionata in modo costante, anche se non continuo; prevede considerazione di tutti gli aspetti affettivi, quegli aspetti “patici” che per lo più sono bollati come insignificanti o addirittura “perdenti”. Insomma, prevede “stare lì”, esserci all’interno di questa complessità, e “stare lì” è la posizione che ogni psicoterapeuta deve incarnare. La complessità esige un’attenzione particolare a quello che solitamente è visto come un “dettaglio”, e deve essere accompagnata da una dimensione temporale che sia al suo servizio più che al servizio di Kronos; una complessità entro cui si vivono relazioni che non sono di causa-effetto ma che prevedono i segni del tempo della storia, dei tempi degli affetti, dei sogni e dell’utopia.

Aby Warburg definisce la cultura, in senso lato, “un groviglio di serpenti vivi”, un’immagine che è stata ripresa da Didi-Huberman per indicare la complessità non semplificabile e la conservazione della vivezza nella dinamica della memoria: «La “permanenza della cultura” non si esprime come un’essenza, un tratto globale o un archetipo, bensì come un sintomo, un tratto d’eccezione, una cosa spostata. La tenacia delle sopravvivenze, il loro stesso “potere” […] emergono nella tenuità di cose minuscole, superflue, irrisorie o anormali» (Didi-Huberman 2006, p. 56). Didi-Huberman parla delle sopravvivenze, i Nachleben, per collocare in una posizione defilata ma vitale il punto di vista sulla tradizione e sul passato, per criticare «la semplificazione dei modelli di tempo, la loro diluizione in un essenzialismo della cultura e della psyche» (ivi, p. 62-63).

Ripensare Basaglia oggi implica anche non dimenticare la complessità e la storia degli sguardi filosofici sul soggetto e anche poter tornare sui fondamenti filosofici che hanno sostenuto lo stesso Basaglia. Quando era giovane assistente all’Università di Padova, il primario lo accusava di leggere troppi libri di filosofia, lo appellava come “il filosofo”, con una coloritura certamente non di apprezzamento. Non vogliamo qui riportare le tante letture filosofiche che hanno nutrito il pensiero di Franco Basaglia, si possono trovare indicate e argomentate in questo numero nell’intervista a Mario Colucci e a Pierangelo Di Vittorio e nelle note filosofiche di Pierangelo Di Vittorio.

Desideriamo però concludere riflettendo sul fatto che non esiste pratica psichiatrica, psicologica o psicoterapeutica che non debba avere una visione teorica di pensiero a cui fare riferimento. A volte oggi, in modo troppo superficiale, si privilegia la pratica e si tende a mettere in un canto la teoria, soprattutto quella filosofica, che viene indicata come troppo astratta e lontana dall’esperienza. A volte questo è anche vero, ma non dobbiamo dimenticare che Basaglia ha costruito un sapere tratto dall’esperienza, una conoscenza che è stata tutt’altro che astratta ma che derivava proprio da quell’esperienza manicomiale in cui era stato “gettato” senza che ne sapesse nulla. E quello di Basaglia è un sapere che riesce, secondo me in modo magistrale, ad intrecciare la propria esperienza nel manicomio con quelle teorie filosofiche che meglio si agganciano all’esperienza stessa.

E oggi possiamo dire che, dopo la sua rivoluzione, abitiamo una “normalità” più “larga”, e disponiamo di una soglia più mobile tra “normalità” e “follia”, in modo tale che riusciamo a pensare i due termini non come dicotomici ma come complementari.

Entrando nei singoli articoli per una breve disamina – ma rimandiamo ad una loro lettura diretta – compare all’inizio un dialogo tra Angiola Iapoce, lo psichiatra Mauro Colucci e il filosofo Pierangelo Di Vittorio i quali, da lungo tempo, coltivano il pensiero basagliano. Fuori da ogni retorica celebrativa e ideologica, presentano la visione della psichiatria portata avanti da Franco Basaglia, mettendone in risalto le matrici filosofiche e socio-politiche a partire da riflessioni che filosofi quali Georges Bataille o Michel Foucault diffondevano a partire dalla Francia.

In particolare, Foucault aveva denunciato l’intreccio stretto tra le istituzioni e i dispositivi del potere, che Basaglia tradusse in una visione “democratica” delle istituzioni psichiatriche. Si trattava di una visione di democrazia perché la malattia andava a colpire proprio le libertà dell’individuo, libertà che ricevevano una ulteriore limitazione dalla segregazione manicomiale, raddoppiando, per così dire, la malattia mentale stessa. Una democratizzazione che fu sostenuta anche da centinaia di infermieri, operatori sociali, medici, volontari e dirigenti politici delle amministrazioni, un movimento tale da permettere di arrivare alla sua formalizzazione nella Legge 180.

Una legge che purtroppo, come si può leggere anche negli interventi di Giuseppe Martini e Maria Antonina Cannella, non è mai stata applicata del tutto perché Basaglia morì prematuramente e non ci fu una ulteriore elaborazione teorica da tradurre sul piano istituzionale.

Francesco Di Nuovo, con la sua consueta ironia, ci “regala” con Quattro chiacchiere prima della puntura una testimonianza di un suo paziente che, più di qualsiasi trattato di psicologia, di psichiatria e quant’altro, ci racconta come, senza aver mai letto nulla di quella lotta per la libertà di cui parlava Basaglia, abbia cambiato il modo di relazione fra lui e il medico. Maurizio, questo è il suo nome, ha capito che la “guarigione” era la conquista di una libertà che gli era stata negata e che un signore di nome Basaglia era stato il primo a indicare la strada.

Giuseppe Martini ci porta la sua testimonianza, anche questa fuori da ogni retorica, che parte dal racconto di quando, da studente in una Università di provincia, giunse a Roma, diventando primario all’Ospedale Santo Spirito. Ci racconta questo percorso come lo aveva vissuto da giovane specializzando, pieno di entusiasmo per le innovazioni psichiatriche ma anche, fin da allora, profondamente “innamorato” della psicoanalisi, due orizzonti che potevano avere anche parecchi punti di attrito; e Martini sottolinea nell’articolo il suo profondo e costante impegno per tentare di introdurre la psicoanalisi nell’istituzione, cercando di farla diventare strumento non dismissibile. La conclusione, pessimista, riporta ad una psichiatria dei nostri giorni manageriale e organicistica, che ha perduto quello spirito militante che prima l’aveva caratterizzata, sia pure con alcune ombre.

Sulla stessa lunghezza d’onda è la testimonianza di Maria Antonina Cannella, anche lei partita con l’entusiasmo di giovane psichiatra e con il desiderio di portare nelle istituzioni la psicologia analitica junghiana. Forse memore di quella famosa frase che Jung scrisse a Freud in una lettera dove disse: senza la psicoanalisi «la psichiatria va a sbattere inevitabilmente contro un muro», desiderava offrire un tipo di intervento terapeutico più consono, appunto, a riconoscere l’unicità di ogni singolo utente.

Si augura che per il futuro, sfruttando posizioni più apicali, si possa introdurre una visione del lavoro istituzionale, seguendo l’insegnamento junghiano, «in termini più simbolici e collettivi per riportare la riflessione su dimensioni meno concrete e per questo più illuminate».

L’intervista di Caterina Romagnoli a Giuseppe Ducci, direttore del DSM Roma 1, ripercorre i cambiamenti nell’assistenza psichiatrica in Italia dopo la Legge Basaglia del 1978, con particolare attenzione al processo di deistituzionalizzazione e all’inclusione sociale dei pazienti. Lo psichiatra sottolinea l’importanza di adattare i servizi ai bisogni attuali, integrando neuroscienze e nuovi approcci terapeutici. Nella pratica odierna emergono problematiche legate alle dipendenze, ai disturbi del neuro-sviluppo e all’uso eccessivo delle nuove tecnologie. Il DSM da lui diretto adotta modelli multidisciplinari e preventivi, enfatizzando la continuità delle cure e il coinvolgimento delle famiglie. L’obiettivo rimane una salute mentale accessibile, inclusiva e orientata al recupero.

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Il confronto che Chiara Giubellini opera tra Jung e Basaglia evidenzia il loro comune impegno nel ridefinire il rapporto medico-paziente, promuovendo la reciprocità e superando le dinamiche di potere. Entrambi sottolineano l’importanza di una relazione terapeutica basata su apertura e comprensione, anziché su categorizzazioni rigide. Basaglia ha lottato per integrare i pazienti nella società, Jung ha inoltre esplorato la necessità di integrare l’inconscio con il conscio. Il loro approccio condivide un focus sulla soggettività e sulla responsabilità reciproca. Ci auguriamo che l’articolo abbia gettato quel seme per proseguire nell’accostare Jung e Basaglia, ­ due personalità che avvicinate potrebbero sembrare esplosive, e per continuare a dissodare il terreno comune di decisa critica alle logiche di controllo delle istituzioni e di valorizzazione del rapporto umano quale fulcro della cura.

Silvia Mariani esplora quel fenomeno particolare che è “sentire le voci”, riportandoci la sua esperienza diretta di terapeuta e le riflessioni teoriche e cliniche che ne conseguono. Storicamente legato a contesti religiosi o esoterici, oggi è spesso associato a diagnosi psichiatriche, ma in verità non sempre indica una patologia. Esperienze come quelle descritte dai gruppi di uditori di voci dimostrano l’importanza di accettare e comprendere queste manifestazioni per migliorare la qualità della vita. L’approccio recovery-oriented promuove l’integrazione sociale e la gestione consapevole delle voci, anziché il reprimerle. Il lavoro educativo e terapeutico punta a trasformare le voci in strumenti di crescita personale e a non relegarli a elementi di stigma o isolamento.

Il contributo di Ivan di Marco indaga il tema della follia e della psicologia attraverso l’opera di Philip K. Dick, in particolare il romanzo Follia per sette clan. L’autore lo analizza come metafora della psiche umana e della sua relazione con la società, soffermandosi sull’equilibrio tra sanità e malattia mentale. La narrazione di Dick, che immagina una colonia lunare abitata da diversi “clan” di malati mentali, diventa occasione per riflettere sulla natura fluida della psiche e sui limiti della psichiatria tradizionale. L’opera è interpretata come una critica alla società contemporanea e al concetto di normalità, proponendo una visione in cui il dialogo e l’integrazione sono essenziali per superare l’alienazione.

L’articolo di Martina Saraceni si focalizza sulla metafora come strumento chiave per comunicare il dolore, sottolineando l’importanza della Medicina Narrativa nel favorire il dialogo tra medico e paziente. Grazie al linguaggio metaforico, si superano le difficoltà nell’esprimere le esperienze soggettive, rendendo il dolore più comprensibile e condivisibile. L’esposizione di un caso clinico dimostra come la fiducia e l’uso di azioni simboliche possano trasformare comportamenti autodistruttivi in processi di guarigione creativa. La relazione terapeutica emerge come un pilastro della cura, insieme alla capacità dell’operatore di accogliere e contenere il dolore altrui, facilitando un cambiamento profondo e significativo.

Il numero si completa con due recensioni: una di Angiola Iapoce al libro di Enrico Ferrari La bellezza salverà la psiche?; l’altra di Anna Moncelli al libro di Bianca Gallerano e Alessandra Albani (a cura di) Madri e figlie tra identità e differenza(e). A chiusura un commento personale e “controcorrente” di Miriam Dambrosio al film del 2003 Povere creature!

Buona lettura!

Franco Bellotti, Angiola Iapoce, Giuseppe M. Vadalà

 


Note

  • [1] Ricordiamo la giornalista finlandese Pikko Peltonen che girò, con il sostegno della tv finlandese, un documentario al manicomio di Gorizia nel 1968, dal titolo La favola del serpente, un documentario molto bello, sia pure nella sua imperfezione “tecnica”, che racconta i primi momenti della “rivoluzione” messa in atto da Basaglia. Lo si può vedere al seguente indirizzo: https://www.youtube.com/watch?v=0iNUax7sTKA.

Bibliografia

  • Didi-Huberman G. 2006, L’immagine insepolta, Bollati Boringhieri, Torino.

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