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Considerazioni sul senso nella contemporaneità

Rivista annuale a cura del Centro Italiano di Psicologia Analitica Istituto di Roma e dell’Italia centrale

A tema

2023 Nuova Serie Numero 4 A Tema

A CURA DELLA REDAZIONE Se si dovesse sintetizzare in cosa si esprime l’essenza e lo specifico dell’attività di cura della psiche, si potrebbe riassumerla nel suo continuo ‘stare tra’: Logos ed Eros, esperienza della relazione e possibilità di riflessione, pratica clinica e teoria. La rubrica a tema si pone come uno spazio di confronto, di espressione ed elaborazione di tutte le tematiche che partendo dalla pratica clinica evolvono in visioni della psiche, favorendo la possibilità di mantenere continuamente viva una sospensione che si interroga.

Considerazioni sul senso nella contemporaneità

Introduzione

La portata del concetto di senso ci espone a sentimenti oceanici e alla difficoltà di afferrare interamente ciò di cui si discute. Il tema verrà declinato prevalentemente nell’aspetto direzionale e nei suoi spontanei rimodellamenti ai tempi contemporanei. In parte, un tale movimento collude con un uso ed una natura di parole e pensieri che sono di per sé definiti, fissi (Watts 1951/1992, p. 44); in parte, la ricerca di senso può portare paradossalmente al non senso, andando a lambire una dimensione di sforzo invertito (ivi, p. IX). Questo ci pone di fronte non solo ai limiti dell’io ma viene sollecitato anche un riferimento a Jung quando ci ricorda che bisogna accantonare ogni pretesa di conoscenze superiori, per favorire un processo dialettico legato all’esperienza (Jung 1966/1993, p. 5). L’accezione di senso a cui vogliamo fare riferimento è sia quella dettata dal processo individuativo sia quella direzione non determinabile a priori e derivante dal rapportarci, istante per istante, con una contemporaneità che ci spinge a fare i conti con ciò a cui non eravamo abituati. Quindi un senso prodotto dall’integrazione del presente e connotato da un fluire spontaneo che lo adatta ai tempi odierni. Il formulare una tale ipotesi di senso contrasta parzialmente con alcuni paradigmi, nel tempo elaborati (Deleuze 1969, pp. 9-10), e nei quali mi è sembrato che il presente venga troppo spesso eluso dal concetto di divenire (ivi, p. 9). Deleuze ci ricorda che il divenire porta in sé la peculiarità di schivare il presente, in questo modo riduce la separazione e distinzione tra prima e dopo, passato e futuro (ibidem). Risulta pertanto difficile applicare tali costrutti ai tempi attuali, nei quali la contrazione del futuro sul presente ci condanna ad un dilagante presentismo, ossia il presente sembra l’unica realtà possibile (Sini, Pulcini 2018).

In un periodo storico sempre più dissociato (Kawai 2006), i paradossi che investono il senso si complicano ulteriormente in una dimensione di caos direzionale, come se ogni frammento seguisse una propria direzione complessuale. Inoltre, le ridotte prospettive sul futuro alle quali si viene esposti in tempi di inquietudine potrebbero innescare una certa speranza verso un divenire migliore (Bollas 2018, p. 36) o un’attesa di qualcosa di peggiore, non tenendo però conto che un tale differimento ci dissocia ancora di più dal presente. Nella dissociazione, ci si pone la domanda ‘essere o non essere’, in cui il valore disgiuntivo della congiunzione ‘o’ blocca il divenire. Forse ciò che potrebbe consentirci di procedere nel flusso direzionale è ‘essere e non essere’ e l’accettazione di una compresenza di senso e non senso secondo un principio di inclusione. Kawai (2006) delinea l’emergere di un nuovo tipo di coscienza, da lui definita postmoderna, caratterizzata da arbitrarietà, dissociazione e virtualità.

Per quanto concerne l’arbitrarietà, sono state confrontate definizioni fornite da alcune fonti, quali Treccani e Wikipedia, e in esse vi è un riferimento alla caratteristica del segno linguistico: gli elementi del segno linguistico non esistono in un rapporto tra loro motivato ma convenzionale. Quindi potremmo ricondurre il significato generico del termine a tutto ciò che è immotivato, poco giustificato[1]. Ciò che è mancante è un legame logico. Possiamo avere esperienza clinica di arbitrarietà quando ci poniamo in ascolto di un paziente schizofrenico, psicotico o in delirio, così come potremmo farne esperienza recandoci ad una mostra di arte contemporanea dove rimaniamo perplessi di fronte ad un’opera d’arte non più connotata da impeccabili canoni estetici ma da un accostamento di elementi apparentemente legati da alcun nesso.

Rimaniamo così disorientati, tendendo a leggere la realtà del momento presente con i canoni di un senso stabilito a priori, antecedente all’azione umana. Questo espone talvolta ad interpretare il presente come avente non senso, un non senso che diventa a sua volta un ulteriore frammento dissociato dal senso e non ad esso accostato secondo quel principio di inclusione precedentemente accennato.

Per quanto riguarda il secondo tratto caratteristico della coscienza postmoderna, la dissociazione, in base a una prospettiva clinica, Jung sottolinea che non sembra sussistere una differenza di principio tra una personalità frammentata e il complesso (Jung 1960/2014, p. 97), considerazioni alle quali è giunto grazie anche ai riscontri di Pierre Janet in merito alla dissociabilità della psiche (ivi, p. 96). Per quanto attiene il paradigma tra dissociazione e complesso, ciò che risulta rilevante ai fini della nostra discussione è il contributo fornito da Jung rispetto a Freud. Mentre per Freud i complessi hanno sempre carattere negativo in quanto prodotti dalla repressione (Jacobi 1959, p. 20), per Jung essi non rimandano solo a qualcosa di non assimilato ma possono costituire uno stimolo a compiere maggiori sforzi in grado di aprirci a nuove possibilità (ivi, p. 21). Vedremo in seguito di mantenere il medesimo atteggiamento di apertura nell’affrontare la dissociazione e le inquietudini alle quali ci espone il collettivo, sempre più ricco di esperienze in cui si vive ‘separati da’. Tra gli autori di rilievo che hanno condiviso impressioni sui tempi contemporanei, Bolognini ha recentemente pubblicato riflessioni sui cambiamenti sociali degli ultimi decenni, senza però adoperare in modo così diretto come Kawai il termine ‘dissociazione’. L’autore coglie una «deriva narcisistica della società» (Bolognini, Nicoli 2022, p. 84) e delinea tra i guai del presente l’evitamento del dolore, la creazione di oggetti alternativi al mancante e reazioni maniacali ai sentimenti depressivi (ivi, p. 20).

Anche la «sostituzione di parti della realtà con la virtualità» (ivi, p. 84) può rientrare in un’evoluzione dello stile relazionale in senso narcisistico, consentendo sia una fuga dal mondo esterno che da quello interno (ivi, p. 83). In questo modo viene consentita l’integrità dell’immagine narcisistica di sé e dell’altro, senza comunque volere eludere di considerare anche le varie potenzialità evolutive dei mezzi virtuali di cui si sta ampliamente discutendo. L’autore coglie il crescente ritiro difensivo dell’investimento affettivo dall’oggetto, con un conseguente ripiegamento su se stessi (ivi, p. 32), non solo come effetto della globalizzazione ma anche e soprattutto come diretta conseguenza degli assestamenti famigliari che hanno interessato gli ultimi decenni (precoce rottura della funzionalità simbiotica e fisiologica tra madre e neonato, babysitter rotanti che scompaiono così come appaiono, e mancanza di figure famigliari che fanno da contorno alla coppia genitoriale (ivi, pp. 31-33). A lungo andare, anche questo stile relazionale di impronta narcisistica, con la potenziale progressione in stati di onnipotenza, può immergerci in un’atmosfera che potremmo delineare come dissociata in senso lato, aspetto che ci permette di ricongiungerci con le considerazioni espresse da Kawai.

Certo è che applicare termini quali ‘dissociazione’ alla realtà sociale, e non più solo alla realtà psichica individuale, ci pone di fronte ad alcune differenze sostanziali: integrando il contributo di Bolognini, possiamo accedere ai tratti caratterizzanti la coscienza postmoderna non tanto da una posizione che vede la dissociazione come un meccanismo di difesa tipico dei disturbi dissociativi, così come siamo soliti in ambito clinico, ma intesa in senso molto più ampio come difesa dall’altro da sé, senza necessariamente ascriverla ad un contesto patologico specifico. Un’altra differenza saliente risiede nel fatto che mentre in condizioni cliniche il setting consente di mantenere distinte la realtà psichica e la realtà sociale, nella dimensione collettiva, soprattutto in concomitanza con crisi epocali, le due realtà sembrano dissolversi una nell’altra, con una conseguente esperienza inquietante di confusione tra il dentro e il fuori (Puget et al. 1994, p. 167). Non resta che tentare una metaforica navigazione tra frammenti dissociati, cercando di ricreare un senso generato dall’esperienza di sospensione tra realtà psichica del singolo e realtà psichica sociale. Ho trovato rilevanti le considerazioni di Deleuze sul senso e che ne evidenziano la qualità di essere effetto o prodotto (Deleuze 1969, p. 70), quindi un senso da generare e non da trovare (ivi, p. 71). Il senso non ci viene fornito né può esistere a priori nella forma di concetto cristallizzato, ma lo possiamo ricavare anche dalla dissociabilità dei tempi contemporanei. Nonostante la coscienza postmoderna presenti tratti che la distinguono da ciò che è passato, non è certo la prima volta che l’essere umano si trova ad affrontare inquietudini sollecitate da nuovi assetti o dissestamenti della realtà sociale, in grado di generare un’angoscia primaria che può risultare estremamente destrutturante (Kaës 1994, p. 163). Sembrerebbe che a partire dal XXI° secolo ciò che è mancato sia stata proprio la soggettività, si sono prese sempre più le distanze dalla propria mente, al fine di ricercare un’esistenza meno inquietante (Bollas 2018, p. 96), finendo poi in ciò che si cercava di evitare. Kaës riprende Freud nel sottolineare che ciò che viene trasmesso nella transoggettività generazionale è ciò che fa difetto, ciò che non ha ricevuto una cosciente integrazione (Kaës 1994, p. 163); inoltre l’autore mantiene viva la linea di Freud in merito al destino della storicità degli eventi nella realtà psichica ma evidenzia anche che il compito che più di tutto sembra spettarci è quello di cercare di articolarli.

Un rinnovato atteggiamento

Un aspetto che forse rimane ancora poco discusso è quale nuova modalità di esistenza possiamo apprendere nell’assumere su di noi quel significato oggettivo e impersonale al quale siamo esposti dalla contemporaneità, piuttosto che interrogarci su come aggiustare i tempi dissociati-dislocati. Facile cadere nell’assumere su di sé un’azione, con l’intenzione ammaestrata in un qualche modo di potere contribuire a migliorare i tempi, incorporando così una posizione di benevolenza ed etica che ci porrebbero in un terreno di superiorità rispetto ad una dimensione collettiva che forse anche noi stessi abbiamo in parte creato e non semplicemente subito.

A tal proposito, verranno presi in considerazione due aspetti che potrebbero ravvivare l’atteggiamento individuale verso la contemporaneità. Il primo aspetto è rimasto piuttosto in ombra nella nostra cultura occidentale: risulta essenziale e necessario non solo mantenere consapevolezza sugli stati di inquietudine sollecitati dai tempi moderni, ma potrebbe essere di beneficio includere anche una valutazione non patologica del presentismo. Integrare la peculiare attitudine che la mente orientale riserba al presente, mantenendo alla base l’atteggiamento junghiano di cogliere, nello stato complessuale, lo stimolo per maggiori sforzi che aprono a nuove prospettive (Jacobi 1959, p. 21), potrebbe aiutarci a conservare una visione integrata di fronte a cambiamenti potenzialmente destrutturanti. Il secondo aspetto è invece quello sollecitato da Carlo Sini ed Elena Pulcini ad una conferenza del 2018: per ritrovare un senso, è necessario partire dal soggetto, sia per ricomporre la scissione sia per farsi carico di responsabilità, intesa come dimensione etica in cui recuperare la capacità di immaginare il futuro (Sini, Pulcini 2018).

Quando Jung ha trattato gli aspetti orientali, non ha mancato di sottolinearne i rischi in cui può incorrere un occidentale, così come ha spesso ribadito di non saperne abbastanza. Jung ci informa anche che pur avendo per molto tempo ignorato la filosofia cinese, senza avere mai incontrato pazienti cinesi nel suo studio, si era successivamente accorto che nell’elaborazione della sua tecnica lavorativa era stato inconsciamente connesso con quella via segreta che per vari secoli è stato il principale cruccio delle migliori menti orientali (Jung 1931/2010, p. 83). Jung lo spiega con la presenza di un comune substrato psichico, ossia l’inconscio collettivo che «trascende le differenze culturali» (ibidem). Tra gli studiosi di filosofie e religioni orientali, ricordiamo Alan Watts il quale riassume, in uno dei suoi testi, due modalità di comprendere l’esperienza. Nella prima, l’esperienza del presente viene comparata e interpretata sulla base di esperienze pregresse, come si verifica per esempio quando ci si trova di fronte a situazioni poco gradevoli (Watts 1951, p. 83). Nella seconda, l’esperienza presente viene vissuta così come è, come quando in un momento di gioia intensa diventiamo una cosa sola con il presente, dimenticandoci di passato e futuro (ivi, p. 84). Veniamo qui introdotti in una dimensione di presenza immediata alla realtà, che non ha nulla a che vedere con stati di impulsività ma che implica un grado di accettazione molto più profondo rispetto al primo caso. Una tale immediatezza scaturisce da un altro concetto caro alla tradizione taoista, che è quello di spontaneità (Sabbadini 2012, p. XXVII), inteso come uno spontaneo allineamento con il fluire della vita senza opporvi resistenza. Ci limiteremo ad accennarlo tramite le parole di Sabbadini: «l’azione appropriata è possibile solo […] quando siamo in contatto limpido e sensibile con il mondo. A un livello più profondo, quando il velo degli attaccamenti dell’io è venuto a cadere, quando i codici cristallizzati con cui leggiamo la realtà si sono dissolti. Quando, dopo una vita di apprendimento, siamo finalmente arrivati a disimparare noi stessi» (ibidem). La presenza immediata è manifestazione del Tao, il naturale movimento di tutte le cose, che non ha corrispondenza con le idee occidentali di Dio, di legge naturale (Watts 1975, p. 54) o di energia inconscia; è soltanto un nome per quello che avviene o come lo esprime Lao-tzu: «Il principio del Tao è ciò che accade di per sé» (ivi, p. 55). Non si allontana molto da questo la posizione di Bernhard quando nel 1946 scorge che il comportamento mantenuto nell’immaginazione attiva potrebbe essere anche un giusto atteggiamento da conservare nella vita in generale: un’osservazione passiva che consenta alle cose di accadere nel loro decorso (Bernhard 1969, pp. 112-113). Nonostante vari limiti di applicabilità in ambito clinico, dove ci sconvolge la sola idea che certi pazienti si lascino andare ad un fluire distruttivo, non viene forse qui indicata una direzione che ci avvicina quanto più possibile a un senso? Ossia una profonda accettazione della realtà, anche se talvolta smembrata, che ci permette di fare esperienza di senso anche in un apparente non senso.

Assumendoci l’impegno di creare senso, come atto di responsabilità, in un contesto di «anestesia del sentire e deflagrazione della figura dell’altro» (Sini, Pulcini 2018), ci ritroviamo a dovere ricomporre la scissione proprio dove l’essere umano inizia ad acquistare senso, ossia nell’incontro con l’altro. Riproponendo le parole di Carlo Sini «un essere umano non raggiunge un accordo con se stesso e con il mondo se non ha sperimentato un decente tasso di accoglienza e di implicazioni in un progetto comune in cui si ha un ruolo ben preciso». Viene qui suggerito un senso acquisito secondariamente all’appartenenza ad un gruppo di persone con le quali si condivide progettualità. Questo aspetto riecheggia negli ultimi sviluppi dell’arte contemporanea, frammentata sì in una molteplicità di gruppi, ma nei quali risuona un moto comune: «non vi è forma se non nell’incontro» (Bourriaud 1998, p. 24), quindi in una relazione dinamica con l’altro, con un pubblico che viene incluso nell’opera d’arte stessa.

Tracce di senso nell’arte contemporanea

Le ultime evoluzioni dell’arte contemporanea fungono da brillante lente di ingrandimento sulle recenti trasformazioni della società e al contempo sembrano anche attualizzare quelle linee prospettiche sul senso evidenziate da Carlo Sini. Negli ultimi decenni, si è assistito ad un fenomeno di dispersione oltre gli usuali confini e che si colloca in un’evoluzione ben più complessa derivante da una cultura urbana mondiale (Bourriaud 1998, p. 15). Una banale osservazione, sollecitata passeggiando per le strade di città, è l’imbattersi sempre più spesso in sedi e targhe affisse di corsi yoga e di meditazione, addirittura nelle palestre. Al di là della distorsione occidentale di fornire esercizi spirituali alla stessa stregua di esercizi ginnici, sembra esserci una tendenza ad uscire dagli abituali limiti dettati dagli spazi confinati, con un’esposizione alla collettività che diventa meno filtrata, quasi istantanea. È il caso anche dell’arte che sembra sempre più uscire dagli usuali setting (musei, mostre e gallerie), sconfinando talvolta nelle strade. La Street Art ne è forse l’esempio più eclatante.

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Non di rado, durante esposizioni artistiche, ci siamo imbattuti ad ascoltare commenti quali «potevo farlo anche io!», «che senso ha?!». Il modo di esprimere le idee risulta cambiato. Consideriamo per esempio lo sviluppo dell’Arte Relazionale, che il critico francese Nicolas Bourriaud definisce come «un’arte che assume come orizzonte teorico la sfera delle interazioni umane e il suo contesto sociale, piuttosto che l’affermazione di uno spazio simbolico autonomo e privato» (Bourriaud 1998, p. 14). Il repertorio sia italiano che internazionale è ricco di artisti che operano delle vere e proprie produzioni processuali in cui nell’opera d’arte entra in gioco la funzione di partecipazione sociale: si crea un’opera che ha modo di esistere tramite la condivisione con il pubblico. Non solo viene richiesta la collaborazione degli osservatori, ma l’artista stesso assume su di sé la funzione sociale. Per citare solo alcuni esempi, Michelangelo Pistoletto si è impegnato nell’attività di promozione della pace e della sostenibilità ambientale e sociale; Felix Gonzalez-Torres risulta essere tra i primi a porre le basi di un’estetica omo-sensuale (ivi, p. 66); Carla Accardi non solo ha contribuito ad affermare l’astrattismo in Italia ma è stata anche una fervente esponente del neo-femminismo italiano. In perfetta sintonia con i tempi, gli artisti relazionali non ripropongono il ritorno ad alcun stile passato (ivi, p. 58). Per la prima volta dalla comparsa dell’arte concettuale dalla metà degli anni Sessanta, il setting è altro rispetto al passato (ibidem): l’opera d’arte trova luogo nella sfera delle relazioni (lo spazio) e per un tempo determinato che si svolge nel momento presente, non più quindi la classica opera dotata di un tempo monumentale (ivi, p. 33) e intesa come prodotto finito da osservare.

L’arte diventa processo, nella forma di sperimentazioni, installazioni, opere-progetti, performance della durata di giorni, in grado di produrre un senso, o un non senso, unico per ciascun osservatore/partecipante. Lo sconvolgimento radicale degli obbiettivi estetici che attualmente l’arte si pone è solo uno dei tanti esempi in cui si coglie l’effetto della globalizzazione, evidenziabile ormai in quasi tutti gli ambiti culturali (ivi, p. 15). Questo ci mostra che la perdita degli usuali confini può certamente esporre a stati disgregati, ma può anche introdurre nuovi modi di esprimersi, nuovi modi di relazionalità se si rimane connessi a quel fluire spontaneo discusso in precedenza. L’opera d’arte relazionale funge da interstizio sociale, adoperando un termine marxista, in cui alternative di vita prendono forma (ivi, pp. 16-17). Ne deriva un’apertura potenzialmente illimitata di discussione, così come illimitata può risultarne la conseguente molteplicità di senso, con il rischio però di non riuscire a mantenere una direzione, se non in modo frammentario. Le formulazioni, non più forme, di arte contemporanea sembrano assumere il tema dell’essere insieme, aprendoci ad un’esperienza di «elaborazione collettiva del senso» (ivi, p. 16). Bourriaud definisce l’arte contemporanea «uno stato di incontro» (ivi, p. 19), venendo ancora una volta richiamati al fatto che non è possibile fare riferimento ad un senso preesistente e che l’essenza va ricercata nel transindividuale, ossia nei legami tra individui (ivi, p. 21). Un senso che viene prodotto dall’interconnessione, concetto ampiamente discusso da Carlo Sini, secondo cui l’acquisizione di senso è strettamente legata all’incontro con un altro da sé e con altri da sé con i quali si condivide un progetto comune.

Conclusioni

Un importante contributo che può derivare sia da una profonda e sentita integrazione di alcuni aspetti della filosofia taoista sia da un’esplorazione dell’arte contemporanea, è il portare a coscienza quel fluire spontaneo di avvenimenti che segue una direzione da noi non determinata e che esiste di per sé, senza il preconcetto di un senso preesistente e nemmeno sotto la spinta di faticosi sforzi egoici e intellettuali. L’arte moderna ci mostra che è possibile un’«esperienza collettiva di senso» (Bourriaud 1998, p. 16) che però non deve esulare il soggetto dalle proprie intime circostanze che compongono il senso individuale. Quindi il senso potrebbe essere ricreato, da un lato, attraverso un profondo accoglimento del presente per come è, dall’altro con un investimento attivo di incontro con un altro da sé, al fine di ricomporre una dilagante scissione che caratterizza i tempi moderni. Si desidera pertanto suggerire una progressione di direzionalità di senso non tramite opposizioni conflittuali, ma creando nuovi accostamenti. I temi fino ad ora trattati incarnano un tale tentativo: dalla filosofia taoista, cogliamo l’essenzialità di porsi in rapporto spontaneo con il presente, in contrasto con una tendenza di direzionalità di senso occidentale che elude il presente stesso; dall’arte contemporanea, veniamo diretti a riflettere sul fatto che un senso a priori nella società attuale non può essere trovato ma può essere prodotto da una negoziazione di rapporti, così come tra l’artista che stimola l’osservatore a partecipare e un osservatore posto in relazione sia con l’opera d’arte che con l’epoca in cui vive. Le crepe in un mondo dissociato non vengono quindi colte in termini patologici, ma l’arte ci invita a rivisitarle tenendo a mente la funzione di interstizio sociale.


Note

  • [1] https://accademiadellacrusca.it/it/consulenza/arbitrario/22226.

Bibliografia

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