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Una Riflessione con gli Altri

Rivista annuale a cura del Centro Italiano di Psicologia Analitica Istituto di Roma e dell’Italia centrale

QCJ 2016

2016 Numero Extra

Una Riflessione con gli Altri

Se, come indica la psicologia analitica, è vero che anche la psicopatologia è derivata dal modo in cui il soggetto affronta il presente – da come, cioè, egli interpretata inconsciamente la situazione in cui è coinvolto in base allo sfondo psichico disposizionale – diviene impossibile ed illegittimo ignorare ciò che avviene intorno a noi, trascurare cioè la natura della situazione presente. Questo, ovviamente, vale sia per i pazienti, ovvero quei soggetti che siamo usi catalogare in base ad una specifica nosografia implicita o esplicita (e quindi talvolta a patologizzare), sia per i soggetti ‘sufficientemente sani’.

Perciò, quando la natura della ‘situazione presente’ non si può iscrivere solo nelle vicende personali (o nella personalizzazione delle vicende) di un soggetto, ma coinvolge conflitti riguardanti aspetti sociali ed antropologici, il trascurarli solo perche essi tendono a resistere alle categorie personalistiche (ad esempio una crisi innescata dalla perdita di un lavoro, dallo sviluppo individuale, dalla maturazione di un conflitto relazionale, ecc.), non rappresenta la cifra di una purezza professionale, ma quello di una vera e propria abdicazione delle nostre responsabilità in quanto analisti. Ovviamente, a questo punto il problema riguarderà non il se, ma il come affrontare problematiche ‘sociali’, soprattutto quelle pervasive e profonde come il contatto transculturale, la migrazione forzata, la minaccia fino alla rottura dell’involucro economico-socio-culturale di un richiedente asilo, ma anche i bias che possono contaminare la relazione analitica tra un paziente ed un analista pur con la stessa cittadinanza, ma molto diversi come estrazione socioeconomica.

Queste osservazioni generali (forse anche generiche) assumono un valore di esortazione e finanche di stringente necessità nel contesto storico attuale, che vede l’Italia, e non solo essa, trasformarsi da una terra di emigrazione, in una di immigrazione[1], nella quale il contatto con l’alterità culturale si manifesta, com’è ovvio, nella psiche dei soggetti che ne sono coinvolti più o meno direttamente. Nessuno può immaginare di chiamarsi fuori; il tema del contatto interculturale e della crisi che pone alla mitologia della globalizzazione, infatti, investe tutti, anche gli spettatori.

È grottesco che, a tre anni dalla laurea in antropologia, in Italia praticamente nessuno trovi un’occupazione (in antropologia, ovviamente, non in un call center), quando invece oggi sarebbe necessario avere un antropologo per ogni nostra istituzione sociale, così come nel passato ci fu un antropologo per ogni villaggio esotico. Credo che, oggi, ciò che sta accadendo nel mondo in cui merci, beni e servizi possono/devono muoversi liberamente abbia messo in moto anche il movimento degli esseri umani su scala globale – e si badi bene, qui non mi riferisco a dei consumatori o della forza-lavoro, ma ad esseri umani. Un movimento di dimensioni gigantesche che non potrà che trasformarci, nel bene o nel male.

L’avvicinamento della dimensione sociologica a quella psicologica passa anche attraverso la crisi,  sottolineata da Agamben (Agamben, G. 1996),  della relazione tra diritto e cittadinanza. Questa relazione fu sancita nel 1789 dalla Rivoluzione francese nella Déclaration des droits de l’homme et du citoyen, nella quale la congiunzione «et» era intesa in senso forte, per cui l’uomo dotato di diritti non può che essere contemporaneamente anche un cittadino, ovvero far parte di uno Stato nazionale.

Oggi, sebbene nel mondo ipercapitalista la dimensione del cittadino sia stata sostituita dalle sue funzioni economiche di produzione e consumo, la questione rimane la medesima: è legittimo disgiungere il soggetto di diritto dall’appartenenza ad uno Stato nazione? I diritti seguono il soggetto dovunque egli sia, o vengono perduti nel momento in cui questi varchi i confini geografico-politici del suo Paese?

Nel sistema contemporaneo tutto può e deve circolare, tutto meno i soggetti, a meno che questi non siano i contemporanei cittadini consumatori-produttori. Quando essi non agiscono come produttori-consumatori, e se circolano, perdono i loro diritti.

In realtà, ciò che l’ipercapitalismo ha messo in crisi, insieme alla desoggetivizzazione del soggetto ridotto a terminale economico, è proprio la base dello Stato nazione, per cui le centinaia di migliaia, se non i milioni di persone che desiderano o sono costrette a muoversi, stanno implicitamente proponendo un altro modello per il quale ognuno è cittadino del luogo in cui abita. In questo senso, la dimensione del citoyen si dissolverebbe in quella dell’homme e in questo modo avvicinerebbe le sfere della sociologia e della psicologia, chiamandoci quindi direttamente in causa in quanto analisti.

Questo è il nostro orizzonte futuro, se non altro perché la circolazione delle persone, quando queste portano valori ed esprimono culture differenti, mette automaticamente in tensione la dimensione dell’identità. Infatti, nella misura in cui per essere me stesso devo garantirmi di non essere l’Altro, l’avvicinamento di tanti ‘altri’ nella sfera a me ‘propria’ non potrà che creare tensioni identitarie. Questa è un’ovvietà, ma un’ovvietà che non abbiamo ancora imparato come regolare né a livello intersoggettivo, né a livello sociale, senza oscillare tra i poli estremi dell’evacuazione / vittimarietà, e quello dell’apertura ecumenica idealizzante. In questo caso mi sembra opportuno riferirmi ad una scissione, una polarizzazione archetipica in cui gli opposti sono tremendamente divaricati.

La difesa regressiva o non regressiva dell’identità entra in campo nel momento in cui siamo chiamati a metterla in gioco; cioè nel momento in cui iniziamo a renderci conto che, in realtà, tutti siamo a casa perché la casa è il luogo che abitiamo (cfr. le interessanti riflessioni di R. Papadopoulos sul tema della ‘casa’ in: Papadopoulos R.K., 2002).

È quindi urgente uno sforzo di riflessione antropologica attraverso il quale ogni approccio è chiamato ad antropologizzarsi, la psicologia in primis. Attraverso questa antropologizzazione si riproporranno le domande di sempre, ma ora declinate in forma più complessa, come: Cosa sta accadendo? Cosa significa ciò? Che cosa posso e devo fare?

È quindi inutile sottolineare quanto la ‘situazione’ presente in cui tutti noi siamo iscritti, l’acqua sociopolitica nella quale siamo immersi, sia in tumultuosa trasformazione, anche per il solo fatto di essere testimoni dello spostamento di dimensioni bibliche di intere popolazioni da un Paese all’altro. Già il solo fatto di sapere comporta un innesco di processi di riorganizzazione etica della personalità di chi è anche soltanto un semplice testimone. Naturalmente, tale processo assume invece un ruolo centrale sia per coloro che sono i protagonisti (esito a scrivere le ‘vittime’), così come per coloro che, come noi analisti, entrano in contatto diretto con questi soggetti.

Il problema e la sfida centrali, insomma, non saranno più se tenere in considerazione le variabili socio-antropologiche della situazione presente, ma come farlo senza diventare sociologi (perché per far ciò i sociologi sono più bravi di noi psicologi, e perché far ciò comporterebbe una tragica conflazione di un livello di analisi sull’altro).

Circa dodici anni fa, quando era al termine la mia presidenza dell’AIPA, decisi di avviare un processo formale e sistematico di riflessione e di intervento sulle questioni relative ai soggetti migranti, includendo in questa accezione sia i migranti economici, sia coloro, come i richiedenti asilo, che fuggono da guerre o da persecuzioni politiche. Per questo co-fondai un’associazione dedicata all’etnopsicologia analitica composta da colleghi analisti, ma anche da terapeuti di altre estrazioni (Gestaltisti e Sistemico-relazionali), nonché da assistenti sociali, antropologi e mediatori linguistico-culturali. Oggi l’ispirazione di allora è confluita nella formazione di un gruppo di lavoro interno all’AIPA, che si chiama Sentieri Migranti e il cui scopo è quello di trasformarsi in uno sportello analitico dedicato a questi soggetti e volto non solo alla loro ‘psicoterapia’, ma, più in generale, a contribuire alla loro assistenza psicosociale.

Poche righe più sopra ho sottolineato le problematiche relative al come tenere in conto il ruolo centrale di queste dimensioni situazionali ‘sociali’ senza avere ancora un modello preciso in mente. Infatti, quando iniziammo a riflettere attivamente su queste questioni nessuno di noi era a conoscenza di teorie e metodi di intervento specifici che si riferissero alla psicologia analitica. Pertanto iniziammo da inesperti (ed inesperti siamo ancora), seguendo una metafora di Pierre Hadot (2008) che amo molto. Secondo Hadot non sempre la teoria illumina e guida l’esperienza o la ricerca. Talvolta il percorso prende avvio in modo (quasi) completamente empirico, ed è in questo caso che esso lo si percorre come su una bicicletta nella notte. L’unico modo per fare un po’ di luce è pedalare: insomma, talvolta, senza azione non si produce consapevolezza.

Ecco: dinanzi ad una questione così complessa e complicata come il prendersi cura dei migranti – una questione, appunto, che investe contemporaneamente approcci e livelli di analisi differenti – è utopico aspettare la produzione di una teoria sufficientemente luminosa che ci chiarisca il cammino.

Attrezzati del massimo spirito critico – soprattutto autocritico – possibile, la nostra scelta fu quindi quella di iniziare a studiare ed a formarci e, dopo soli due anni, di iniziare a pedalare. Questo spirito critico si fondava sull’aspettativa di trovarci presto di fronte ad un decentramento teorico e metodologico e sulla consapevolezza che, nel caso avessimo avuto la sensazione di capire senza prima passare attraverso un non-capire, questo doveva essere interpretato non come il risultato di una conoscenza, ma di un accecamento prodotto dai nostri pre-giudizi. E ciò non solo perché i soggetti a cui ci riferiamo provengono da culture diverse, ma anche per la ragione strutturale, in questo caso quanto mai fondata, per la quale, come sostiene Jung (in accordo con i principi epistemologici di indeterminazione e di complementarietà. Cfr. per esempio, Jung C.G., vol. 8, p. 207-208), quando qualcosa diviene conscio, qualcos’altro diviene contemporaneamente inconscio. È proprio questo inconscio prodotto dalla nostra supposta conoscenza (dalla nostra ‘cultura’) che dobbiamo tenere costantemente sotto osservazione. Anche in questo caso l’impostazione della psicologia analitica è adeguata a questa particolare situazione ‘interculturale’, se vale la massima per la quale è il terapeuta che deve andare là dov’è il paziente.

Ovviamente, la cosa è impossibile, nel senso che nessuno può coincidere con un altro senza perdere il tesoro della propria singolarità. Ciò che è in gioco è l’impegno, la tensione dell’andare-verso-l’altro. Una tensione debitamente regolata tra i poli del disimpegno schizoide da una parte, e dell’asse identificazione/empatia dall’altra.

Talvolta, infatti, l’analista, in una professione di umiltà, sarà chiamato a tenere una distanza di sicurezza da alcune aree traumatizzate del paziente (qui mi riferisco soprattutto ai migranti ‘forzati’), nella misura in cui esse potrebbero traumatizzarlo, il che corrisponde ad un ‘andare là dov’è l’altro’ in modo emozionalmente consapevole del Sé di entrambi. Scrivo questo perché certe storie di certi pazienti (come di certi pazienti torturati) hanno un contenuto talmente traumatico che – quando non ‘semplicemente’ condivise, ma evacuate quasi come oggetti contundenti – richiedono, a mio parere, la capacità del terapeuta di proteggere se stesso per avvicinarsi ad esse con la misura e la lentezza adeguate, senza esserne a sua volta traumatizzato. Questa difesa dell’analista incarna, in questi casi – come nei gravi pazienti ‘borderline’ – la prima massima winnicottiana del ‘salvarsi dal proprio paziente’, e non sarà rivolta al Sé del paziente, ma dovrà essere il frutto di una negoziazione tra il terapeuta e il demone distruttore che, comprensibilmente, devasta il mondo interno del paziente stesso.

Più sopra ho fatto riferimento alla solutio della cittadinanza a favore della dimensione dell’umano, e questa messa in gioco delle questioni legate all’identità interpella direttamente anche gli analisti, i quali, come è noto, non solo si suppone siano radicati in un’identità personale, ma anche in teorie e pratiche particolari (quindi identitarie), e non possano che esprimere la propria complessa appartenenza culturale.

In questo senso, la messa in gioco della nostra identità in quanto analisti non potrà che costituire una sfida contro le nostre tendenze regressive – spesso molto bene razionalizzate entro teorie ‘scientifiche’ – a difenderci dall’Altro straniero. A mio parere l’elemento centrale di questa rimessa in gioco identitaria da parte dell’analista concerne la decostruzione dell’immagine che egli ha di sé in quanto ‘esperto’. Mai quanto in una situazione di contatto interculturale è necessario invertire l’ordine dei fattori analista-esperto-che-sa vs. paziente-inconscio-che-non-sa, per recuperare socraticamente, o bionianamente, la posizione inversa per la quale l’analista non sa, ma riflessivamente sa di non sapere mentre decostruisce la propria identità professionale, per cedere la parola al paziente, che è ovviamente esperto di sé, ma non sa di sapere. Questi, talvolta non sa di sapere perché non ha mai avuto una vera occasione per fermarsi a riflettere su se stesso, ma ne è ora costretto dal fatto di non trovarsi più contenuto e rispecchiato culturalmente; o, in altre circostanze, per il fatto di trovarsi costretto in una migrazione che ha leso ciò che di tutti noi è, in fondo, il vero scheletro psichico: il ‘suo’ involucro culturale. Questa lesione può rappresentare la ferita traumatica di un Amfortas che ha perduto il Graal, o, come canta Leonard Cohen, quella feritoia attraverso la quale filtra luce:

The birds they sang / at the break of day / Start again / I heard them say / Don’t dwell on what / has passed away / or what is yet to be. / Ah the wars they will / be fought again / The holy dove / She will be caught again / bought and sold / and bought again / the dove is never free.  // Ring the bells that still can ring / Forget your perfect offering / There is a crack in everything / That’s how the light gets in. […]

Questo concetto, espresso in modo così bello da Cohen, si collega ad una caratteristica centrale della psicologia analitica che riguarda il ruolo delle funzione trascendente e della simbolizzazione. In campo etnopsicologico occupa un ruolo centrale nel ruolo del cosiddetto adversity activated development (sviluppo attivato dalle avversità) di Renos Papadopoulos. (Papdopoulos, R.K., 2007)

Questa quota di irriflessività, legittima nel paziente, è invece  interdetta all’analista, per il quale l’introspezione autoriflessiva è cosa obbligatoria. Si suppone, infatti, che, prima di approcciare qualsiasi ‘paziente’ egli si sia a sua volta prestato ad un interminabile, sistematico atteggiamento (auto)riflessivo innescato dai suoi sintomi e dai suoi ideali, ed articolato a partire dalla sua stessa analisi. Attraverso questo circuito paradossale, entrambi – paziente ed analista – si trovano impegnati a ‘mentalizzare’ esperienze implicite o rimosse che costituiscono aree non-sé potenzialmente integrabili nel sé. L’inaugurazione di questo processo, tipico di una situazione ‘analitica’ interculturale, è l’ingresso dell’analista in un’area di confusione; una confusione che può essere assai benefica, poiché rende potenzialmente possibile uno ‘sbucare dall’altra parte’, in cui è possibile co-creare un campo relazionale terzo in cui incontrarsi.

Ora, la natura di questo campo è eminentemente intersoggettivo/interaffettiva, ovvero basata su una sovrapposizione delle soggettività fondata su elementi preverbali (ma non presimbolici). Se evitiamo accuratamente scorciatoie pseudo-interpretative archetipologiche con cui l’analista propone (impone?) la sua interpretazione culturalmente determinata come se fosse universalizzabile, applicandola ingenuamente all’universo simbolico del paziente – quando cioè non abbiamo neanche questo, allora sarà contemporaneamente possibile e necessario disporsi ad estrarre la quintessenza relazionale di cui siamo co-partecipi, espressa nel campo relazionale interaffettivo nel quale i partecipanti, alla fin fine, sono semplicemente esseri umani (e qui vedo un collegamento psicologico con il riferimento politico-sociale all’homme a cui ho fatto riferimento in precedenza) che cercano qualcosa insieme. E questo cercare ‘qualcosa insieme’ quintessenziale, almeno nella mia esperienza, spesso si costella quando il terapeuta, pur tenendo ben saldo il suo desiderio di stare nel bagno alchemico, si permette di sentirsi opportunamente confuso. È in questo momento che, al di qua del linguaggio, nel regno Hestiaco (Cfr. Carta, 2006) dell’implicito, ci si inizia a capire. Al di qua del linguaggio, e quindi di quasi tutto il culturale, ci si può riconoscere come co-partecipi di un progetto comune ed uniti da una comune dislocazione.

In questo senso il gioco della sabbia, o il sandwork sono strumenti straordinariamente utili, così come altri approcci non verbali (penso all’uso del corpo, o a quello delle immagini, oppure alla musica).

In qualche modo, al di qua del linguaggio, queste forme relazionali possono contribuire a rifondare un idioma comune, basato sulla comune fede verso un volersi-comprendere. (nel doppio senso di voler comprendere se stessi – talvolta sorprendendosi – e di voler comprendere l’altro).

Insomma, ancor prima di capire cosa sta accadendo, e quindi assai prima di poterlo dire, è possibile lasciare accadere ciò che chiede di accadere, dato che, se e quando almeno uno dei poli della relazione è impegnato in una sistematica attività introspettiva, la fondamentale, archetipica intenzione verso l’altro (verso l’oggetto in quanto opposto del sé soggettivo) costellerà il campo potenziale più fertile affinché si fondi una relazione: si fondi cioè una cultura terza che trascende le rispettive culture di appartenenza. E qui ‘introspettiva’ non significa ‘intrapsichica’: l’introspezione, infatti, può essere intesa come una comprensione ed un’adesione a ciò che avviene nel campo transpersonale. Per esempio, come dice Bromberg, nell’atteggiamento del comprendere l’altro inside out (Bromberg P., 1991, pp. 399-422).

La sistematica riflessione introspettiva a cui mi sono riferito, insieme alla disposizione empatica e al lasciare – direi fenomenologicamente – accadere ciò che accade, rappresentano una disposizione di profonda umiltà entro la quale l’analista cerca di mettere tra parentesi ‘ciò che sa’ per poter inaugurare una cultura comune – un idioma, un comune discorso – da cui poi ripartire insieme. Questa situazione (ri)fondativa della cultura relazionale intersoggettiva che qui descrivo è stata oggetto di profonde, sistematiche riflessioni da autori come Louis Sander (2007) (che le chiama moments of meeting), o Daniel Stern (1987, 2005). Questi autori, descrivendo microanaliticamente le strutture interattive, mettono in luce la tendenza affettivo-comportamentale a formare dei pattern relazionali fondati sulle intenzioni (quindi sulla condivisione delle intenzioni) dei soggetti, e pur senza riferirvisi esplicitamente sono coerenti con una visione finalistico-complessuale del ‘comportamento’ umano, ovvero con la tendenza innata a costruire insiemi organici, dinamici, sintonizzati ed armonici. Qualcosa che potrebbe essere anche chiamato ‘Sé transpersonale’.

In altro contesto è utile la riflessione di C. Bollas  (1989) quando, in riferimento al ‘conosciuto non pensato’, egli usa a modo suo il termine ‘idioma’ per esprimere la disposizione e la modulazione della partecipazione alla relazione.

Come ho già detto, questo tipo di pazienti mette in gioco la nostra identità e, con essa, anche i nostri setting. Se è vero, come è vero, che ogni cultura possiede la propria teoria eziopatologica, allo stesso modo essa possiede anche dei repertori specifici di pratiche e di setting, posto che noi ammettiamo di non essere i soli psicoterapeuti al mondo, né che il nostro sistema sia valido universalmente. Infatti, come sappiamo con un certo sgomento, messi alla prova, tutti gli orientamenti psicoterapeutici vincono pari merito la loro gara sulla migliore efficacia: per il cosiddetto ‘lodo di Dodo’, ‘tutti hanno partecipato e tutti hanno visto’.

Ancora una volta, come predisse Jung, la variabile trasversale essenziale è costituita dalla relazione coniugata con l’equazione personale del terapeuta. È intuibile che la sfida al set e al setting sia molto spiazzante, anche perché, come ha (kantianamente) rilevato sempre Nathan, se è vero che la teoria crea il metodo e i dispositivi tecnici entro i quali si producono esperienza e verifica, anche questi, a loro volta, determinano la teoria:

«[Ma] ciò che distingue una pratica professionale da una relazione umana ‘banale’ è che le interazioni che si producono all’interno di un dispositivo tecnico vengono ad iscriversi in un’operazione di costruzione del senso indotta dal dispositivo stesso» (Nathan T., 1996, p. 45).

Per questo, la dislocazione prodotta dalla sfida ai nostri setting rappresenta uno di quegli aspetti che mettono più fortemente in tensione la nostra cultura, le nostre pratiche e quindi la nostra identità proprio là dove noi ci troviamo esposti direttamente attraverso il nostro fare, il nostro esistere di fronte all’altro.

Rispetto al set ed al setting analitici, credo che la minore prescrittività dei nostri setting e set rispetto a quelli classici freudiani possa costituire una risorsa. E, in quanto junghiano, mi sorprende ancora che l’etnopsichiatria sia nata all’interno della tradizione freudiana, una tradizione basata, come ai tempi del grande Devereux, su un costrutto biologico come quello di pulsione (per cui  la cultura era il prodotto del sistema delle difese nell’area inconscia dell’Io: (cfr.: Devereux G., 1980). E che invece non sia nata entro una cultura analitica, come quella junghiana, nella quale o la psiche è culturale o non è; o è simbolica, o non è.

Trovo veramente paradossale il fatto che gli junghiani stiano arrivando all’etnopsichiatria tanto in ritardo, pur avendo a disposizione un modello che è connaturato in questo tipo di visione  in cui la psiche è essenzialmente mitopoietica e produttrice di cultura.

Anche il modo in cui viene trattata la Persona, nell’accezione più frequente con cui gli junghiani la usano, è spesso sorprendente, dato che questo costrutto è intrinsecamente culturale. La Persona, infatti, non è soltanto la maschera regressiva Falso Sé; essa è, al contrario, proprio ciò che rende all’uomo possibile il suo non essere nudo ( Lévi-Strauss C., 1971), ovvero deculturalizzato, con buona pace dell’aberrazione psicologico-culturale dei DSM, concretizzazioni della globalizzazione delle caratteristiche proprie del soggetto (in relazione), ovvero della sottrazione radicale di qualsiasi senso in vista di un (s)oggetto ridotto a un fenomeno biopolitico: un’espressione di ‘nuda vita’.

Senza una Persona l’attività simbolizzante, l’attività psichica evoluta tout court, semplicemente non avrebbe senso. In questo senso, quindi, la Persona – l’archetipo più ‘superficiale’ – corrisponde anche a quello più profondo: quello più prossimo alla generazione dei simboli. E ciò si manifesta nel momento in cui la Persona corrisponde ad un atteggiamento per il quale l’Io si adatta introvertitamente all’altro per amore dell’altro (il suo opposto), ed allo scopo di rendere possibile una vera relazione di reciproca comprensione.

È, insomma, sorprendente che un modello come il nostro, dotato di strumenti così potenti, non sia stato messo in moto se non in anni relativamente recenti. In questo senso voglio sottolineare il grande fermento che oggi si registra nel mondo junghiano internazionale, soprattutto intorno alle Conferenze di Londra del Dicembre 2014 e di Roma del Dicembre 2015 su Analysis and Activism: Social and Political Contributions of Jungian Psychology, che hanno prodotto due volumi ricchi di spunti e riflessioni molto interessanti, di cui il primo è già stato dato alle stampe (Kiehl E. et al., 2016). In questo panorama, per esempio, un costrutto quale quello di complesso culturale (Singer, T., Kimbles, L. [eds.], 2004) è effettivamente interessante, perché distingue lo strato, essenzialmente biologico, dell’Inconscio collettivo, da uno strato, pure inconscio, che appartiene alla cultura.

Un altro strumento appartenente all’armamentario teorico-pratico della clinica Junghiana che abbiamo trovato utilissimo nel nostro lavoro con appartenenti ad altre culture è quello dell’amplificazione.

L’amplificazione è centrale nel lavoro del più noto etnopsichiatra vivente, il già citato Tobie Nathan, che pure sembra non abbia mai letto nulla di Jung. Infatti, Nathan, nei suoi interventi in gruppo non fa altro che amplificare costantemente, disseminando lo spazio clinico di associazioni prodotte da lui e dagli altri membri del gruppo stesso. Qui è importante ricordare che per Jung l’amplificazione rappresentava lo strumento principale qualora ci si trovava dinanzi a materiali simbolici ‘collettivi’ – potremmo qui dire ‘culturali’ –, per i quali doveva essere evitata l’interpretazione, la quale corre il rischio altissimo della surrettizia riduzione di un fattore ignoto ad un altro noto. Attraverso l’interpretazione, infatti, l’analista rischia di portare il paziente a sé, anziché cercare di co-costruire uno spazio terzo grazie alla sua disposizione ad andare nell’area, a lui sconosciuta, in cui abita il paziente. L’interpretazione rischia, infatti, di chiudere e non aprire (e in certi casi ciò è opportuno), e deve essere sempre negoziata e condivisa. Per questo è legittimo interpretare solo dopo che si sono gettate le basi per quella cultura terza, quel campo ibrido entro il quale negoziare è divenuto possibile.

L’altro elemento appartenente alla nostra cultura analitica ed assai utile per le situazioni ‘cliniche’ a cui mi riferisco è il prospettivismo, poiché ci si trova di fronte a persone che non è giusto patologizzare. Ed in realtà questo approccio depatologizzante dovrebbe essere applicato a tutti. Ogni paziente dovrebbe essere visto come una persona sana che vive in un certo modo, che ‘porta con sé qualcosa’. Questo atteggiamento che non guarda alla psicopatologia, ma al contrario alla psico-pato-logia (al discorso della psiche senziente) è cruciale nell’approccio con questo tipo di clienti, anche perché moltissimi di loro sono, come scrisse Hannah Harendt, i vessilliferi delle loro culture; sono cioè spesso gli inviati, nella stragrande maggioranza dei casi persone profondamente resilienti, i quali hanno dovuto attraversare un mare – incarnando così la metafora centrale della mitologia junghiana, e compiendo un compito che spesso noi non saremmo in grado di compiere. E questo senza arrivare a destinazione, non solo perché ciò che essi trovano al loro arrivano spessissimo non è ciò che stavano cercando, ma anche perché partire, migrare, quasi sempre rappresenta una sorta di iniziazione sciamanica, un aprire sul proprio corpo psichico una crepa che non si chiuderà più. Una crepa, come ho già scritto, attraverso la quale potrà filtrare luce, ovvero un costante processo mitopoietico di generazione di senso, del tutto opposto al ‘disturbo post-trumatico da stress’ prodotto proprio dallo sradicamento.

Nella nostra proposta, questi soggetti non sono Pazienti Psicopatologici, ma Eroi Cercatori, simili in tutto e per tutto agli eroi della fiaba, che lasciano un ordine simbolico per fondarne uno nuovo.

Depatologizzare significa evitare di identificarci nel ruolo dei Salvatori che riscattano delle Vittime (in questo caso ‘malate’). Infatti, una tale identificazione nel Medico-Salvatore automaticamente costella gli altri due vertici di un triangolo che vede come co-protagonisti la Vittima ed il Carnefice.

Il Salvatore induce nel paziente che è stato vittima di avversità una identificazione nella Vittima, e costella paranoicamente un Persecutore contro cui combattere e che dovrà a sua volta essere debitamente proiettato su un qualche oggetto. Uno dei rischi più perniciosi per un soggetto che è stato attualmente vittima di avversità, infatti, è quello di identificarsi nella Vittima, sebbene una tale identificazione possa fornirgli l’illusione di una qualche forma identitaria definita. Depatologizzare significa, quindi, smontare questo triangolo e restituire al paziente la complessità della sua personalità, fatta di dolore e sconfitte, ma anche di sogni, speranze, resilienza, memoria e competenza. E per depatologizzare siamo chiamati come analisti a decostruire la nostra più o meno implicita identificazione nel ruolo del Salvatore e, contemporaneamente, a renderci conto che, per riscattare la complessità della personalità del nostro paziente, dovremo spesso salvare innanzitutto il Carnefice. È superfluo collegare in questa sede questa osservazione alla letteratura sull’Ombra prodotta all’interno della nostra tradizione analitica.

A queste considerazioni si dovrebbe innanzitutto aggiungere che i migranti non sono anti-istituzionali: il loro scopo non è distruggere o attaccare l’istituzionalità della cultura nella quale si trovano a vivere. Al contrario, essi cercano attivamente la possibilità di abitare istituzioni adeguate e trovare, finalmente, una nuova casa.

In ultima battuta si dovrebbe sottolineare quanto la proiezione del migrante in quanto Vittima è, soprattutto nel caso dei richiedenti asilo, letteralmente prescritta per legge, perché: se non sei una Vittima, non puoi recuperare una quota dei tuoi diritti ed ottenere asilo.

Nella morsa di un vero e proprio doppio legame, solo ammettendo di non avere diritti si dovrebbe essere in grado di riconquistarli; solo ammettendo di essere Vittime sarebbe possibile iniziare a salvarsi. Spesso, invece, la semplice azione del riconoscere la resilienza e la competenza del nostro paziente, ovvero il lavoro volto alla sua disentificazione dal ruolo della Vittima, produrrà un effetto terapeutico in grado di aiutarlo a creare i legami psico e socio culturali, fino a quel punto carenti.

In fondo, nella maggior parte dei casi, dopo vicende rocambolesche e drammatiche, questi eroi cercatori si ‘ammalano’ per contrappasso di una vera e propria learned helplessness. Una ferita di ciò che li ha sostenuti nella lotta fiera e disperata per l’esistenza: l’essenziale agentività che esprime in ogni essere umano il nucleo creativo da cui promanano la soggettività, come la cultura.


Note

  • [1] Mi scuso per questa rozza riduzione storico-sociale, che trascura le enormi ondate migratorie interne al nostro Paese, le quali avevano, negli anni cinquanta, caratteristiche psicologiche del tutto simili a quelle contemporanee nelle quale i migranti sono ‘stranieri’.

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