
2020 Nuova Serie Numero 1 Ricerche Teorico Cliniche
A CURA DELLA REDAZIONE Ricerca e terapia costituiscono un binomio inscindibile nel pensiero junghiano, tutto spostato sul momento centrale dell’esperienza. La rubrica ospita note, sintesi, riflessioni e quant’altro delle attività svolte dai gruppi di lavoro presenti all’interno del nostro Istituto.
Trauma evolutivo precoce e paradigmi terapeutici
Gruppo teorico-clinico
Coordinatore: Daniele Rondanini
Premessa
Più precoce è il trauma – quindi più immaturo e vulnerabile è l’apparato che lo deve contenere – più imponenti e dannosi sono i suoi effetti sulla struttura psichica del soggetto.
Traumi precoci determinano un imprinting sull’unità psiche – soma, che ha il potere di dissociare, nell’esperienza del sé, pensieri, sentimenti, percezioni e sensazioni corporee. Questi diventano allora ʽpensieri impensabiliʼ, sentimenti che non possono essere sentiti, ʽstati alieniʼ che irrompono nella coscienza come inspiegabili e spesso innominabili, generativi di paura, confusione, disperazione, solitudine. È ormai comprovato con sufficiente certezza che i disturbi dissociativi seguano a rapporti primari in cui le madri o i caregiver presentano problemi di lutto irrisolto, complessi non elaborati e conseguenti forme di accudimento confusive, anaffettive, destabilizzanti. Modalità relazionali genitoriali, queste, all’origine di quadri post – traumatici che sono espressione a loro volta di vissuti precoci (impressi soltanto a livello di memoria procedurale, o memoria implicita) non integrati con altri settori di esperienza, che finiscono col determinare la trasmissione trans – generazionale del trauma cumulativo o complesso.
Nessuna esperienza di deprivazione o di violenza (a parte certe situazioni estreme che potrebbero mettere in crisi anche il più solido ed equilibrato degli apparati psichici) diventa un vero e proprio trauma se sopraggiunge quando l’assetto psichico è diventato sufficientemente solido e maturo per poterla contenere. Quindi, in presenza di serie patologie, i fenomeni iniziali della vita vanno considerati parte integrante del processo di cura con i pazienti carenti di identità, incerti riguardo a se stessi, ai propri pensieri e sentimenti, al proprio agire, il cui disturbo principale sta nella scarsa capacità di sviluppare e mantenere un oggetto interno ʽcontenente – confortanteʼ (holding – soothing). Questi casi richiedono approcci terapeutici adeguati, indispensabili per condurre a buon fine il trattamento.
Lavoro del gruppo
Il Gruppo teorico-clinico: Trauma evolutivo precoce e paradigmi terapeutici, attivo dal 2014, si è proposto un percorso di ricerca e approfondimento sull’evoluzione della teoria della clinica e dei fattori terapeutici nella cura, in particolare dei pazienti gravi, sempre più numerosi rispetto a quelli analizzati alle origini della riflessione psicoanalitica.
È nota la concezione rivoluzionaria di Jung, che assegna alla personalità dell’analista il ruolo di primo fattore terapeutico rispetto alle concezioni scientiste e oggettiviste di Freud. Ugualmente innovativa e anticipatoria la sua concezione che l’analista è in analisi quanto il paziente, raramente espressa in modo così esplicito e coinvolgente dai sopraggiunti teorici di orientamento relazionale.
Molti suoi allievi tuttavia (forse ritenendo solo ʽdefinitorieʼ e non altrimenti indagabili quelle proposizioni, o forse risultando le stesse non profondamente comprese nel significato di un perseguimento dell’impegno autoanalitico anche in vantaggio dell’altro) non hanno sentito il valore di un’ulteriore ricerca volta all’ampliamento delle conoscenze sulla relazione terapeutica, magari auto – rinforzati dal rifiuto ideale e pregiudiziale del concetto di tecnica, sicuramente ambiguo ma in questo caso generatore dell’effetto di ‘gettar via il bambino con l’acqua sporca’.
In ambito freudiano la ricerca delle modalità terapeutiche adeguate con i pazienti suddetti ha invece una lunga storia che parte da Sándor Ferenczi, il quale, più interessato di Freud ad elaborare soluzioni utili per accostarsi a patologie gravi, inserì ben presto a pieno titolo l’analista e la sua relazione con il paziente nell’alveo della cura. Gli studi sull’argomento sono ormai numerosi ed è noto come questi temi siano diventati, nel tempo, di importanza basilare. In tali casi, l’uso e la formulazione delle interpretazioni strutturate, fattore terapeutico cardine della concezione classica, è stato ritenuto (già a partire dalle intuizioni di Winnicott) da calibrare attentamente a vantaggio del rilievo attribuito all’esperienza che il paziente vive in seduta e alle emozioni che paziente e analista sperimentano. La ridotta utilizzazione di interpretazioni esplicite e dettagliate non esclude d’altronde il lavoro di silenziosa elaborazione dell’analista. L’attività interpretativa è meno visibile ma presente nella mente dell’analista: il lavoro è volto a mettere a fuoco le componenti evolutive dei sintomi del paziente e a una ricostruzione plausibile della sua storia passata (accanto all’elaborazione del controtransfert e all’interpretazione di ciò che il paziente suscita nel qui e ora). Quindi assume rilievo, nell’analista, la sua capacità di ʽtenere dentroʼ e ʽlavorarci suʼ vale a dire il ʽpensareʼ nel più specifico significato analitico.
La riflessione ulteriore del nostro gruppo ha portato poi a soffermarsi su altri concetti fondamentali dell’analisi con uno sguardo storico e uno sguardo alla contemporaneità.
L’uso da parte dell’analista degli effetti immediati degli affetti introdotti dalla relazione con il paziente ha trasformato l’idea stessa di ʽanalisiʼ inaugurando nella storia della psicoanalisi l’epoca della centralità del controtransfert e di un rinnovato concetto di transfert che non considera più le fantasie del paziente come proiezione o spostamenti su un analista ʽschermo neutroʼ. Ciò che il paziente vede e sente dell’analista (i suoi affetti, principalmente) non sono solo espressioni della sua fantasia, ma sono anche una verosimile percezione di alcuni aspetti dell’equazione personale dell’analista stesso e di ciò che la coppia analitica ha prodotto. L’analista è visto come co – attore per la presenza ineludibile di fenomeni relazionali comuni a tutti i rapporti umani.
Lo spazio analitico si è dunque aperto alla possibilità di sperimentare livelli psichici di intensa partecipazione, al limite della confusione, dando luogo, sulla scia di siffatti fenomeni, alla elaborazione di ulteriori concetti, dapprima quello di identificazione proiettiva poi quello più recente di enactment; accanto a questi è presente una nuova concezione del fenomeno dell’acting-out (volta a riconoscere nell’agire del paziente delle comunicazioni dirette all’analista). Qui l’agire è visto come ʽespulsione di un pensieroʼ, che può essere portato avanti anche attraverso ʽparoleʼ; parole del paziente come parole dell’analista. Quando l’analista interviene con interpretazioni, spinto dal bisogno – desiderio di sopprimere una spinta all’agire del paziente, è molto probabile che finisca per agire a sua volta. Ciò ci ha condotto a riflettere anche su un concetto ulteriore, tradizionalmente bandito dai discorsi psicoanalitici tradizionali, quello di self-disclosure dell’analista. In questo percorso, il Gruppo ha tratto insegnamenti proficui dallo studio di autori, ormai classici ma sempre illuminanti, come quelli su nominati, ma anche M. Balint, fino ad altri, contemporanei, come P. Bromberg, R. Meares, D. Stern, O. Van der Hart, O. Renik, A. Correale, S. Mitchell.
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