Stai leggendo
Sul pensare simbolico: dimensione metaforica e dimensione immaginifica

Rivista annuale a cura del Centro Italiano di Psicologia Analitica Istituto di Roma e dell’Italia centrale

QCJ 2012

2012 Numero 1

Sul pensare simbolico: dimensione metaforica e dimensione immaginifica

Scopo del presente lavoro è illustrare quale sia stato il mio incontro con il problema del simbolo, perché lo ritenga così importante e quali siano stati gli sviluppi del mio percorso.

Il mio interesse iniziale si è sviluppato a partire dalla psicopatologia e psicoterapia della schizofrenia. Per questo già all’inizio della mia riflessione (1998) mi sono imbattuto in un’autrice che mi è sembrata in controtendenza rispetto al riduzionismo di Jones (1916) (e per certi versi anche di Freud): Hanna Segal (1957), una kleiniana che ha sottolineato, con il suo concetto di equazione simbolica, la concomitanza della nascita dell’Io e del simbolo a partire  da una antecedente situazione di indifferenziazione tra il Sé e il mondo . Nel momento in cui si genera una frattura generativa della soggettività, si assiste anche ad una separazione tra il Sé e  il mondo, e in forma concomitante tra il simbolo -che pertiene al Sé, e l’oggetto simbolizzato – che pertiene al mondo.

Negli schizofrenici viene a difettare proprio la funzione simbolica nella misura in cui scompare, o è carente, il “come se” simbolico: questi pazienti, soprattutto in fase acuta, non riescono più a distinguere il simbolo dal simbolizzato: l’analista non è più “come se” fosse il padre, ma “è” proprio il padre stesso! Questo interesse per la posizione della Segal mi ha portato lontano da autori, quali ad es. Umberto Galimberti che, in un libro di oramai una trentina di anni fa (1984), sulla scorta di una radicalizzazione del pensiero junghiano, veniva a sostenere l’esatto contrario, e cioè che il simbolo vivendo sempre nell’eccedenza e nell’indistinzione, muore laddove nasce l’Io e si origina il pensiero filosofico, posizione –dal mio punto di vista- che apparirebbe più pertinente per descrivere lo pseudosimbolo dello schizofrenico che il pensiero simbolico creativo. Questa antinomia non solo è propria del piano psicoanalitico, ma anche filosofico. Un grande pensatore, con cui ebbi il privilegio di dialogare personalmente, Raimundo Panikkar, sosteneva, sempre in quegli anni, che il simbolo non è ermeneutizzabile (1981) e dunque non tollera, pena la sua caduta, nessuna interpretazione o spiegazione. Questa posizione evoca molto da vicino Jung (“quando ha dato alla luce il suo significato il simbolo muore”, 1921) o Hillmann (“ un sogno non è spiegabile, altrimenti non sarebbe un sogno”). In alcuni scritti successivi Panikkar (1998) precisa tuttavia che sebbene il mythos (che mi sentirei di accostare al simbolo) sia irriducibile al logos, esso permette al logos di esprimersi e di divenire.

A fronte di una posizione che rimanda al versante “non ermeneutizzabile” del simbolo, troviamo quella in certo senso antitetica di P. Ricoeur: “non vi è simbolo senza un inizio di interpretazione; l’interpretazione appartiene in modo organico sia al pensiero simbolico che al suo senso duplice” (1965).

Come uscire da questa dicotomia? Ce lo consentono quegli autori che affrontano il problema del simbolo e della sua paradossalità da un punto di vista dialettico. E’ una posizione che ritroviamo di nuovo sia in campo psicoanalitico che ermeneutico. Nel primo, un contributo rilevante ci viene da Mario Trevi (1986), il quale segnala come il simbolo sia ciò che si comprende solo accettando lo scacco della comprensione: comprensione e inafferrabilità sono unite nello stesso atto produttivo dell’interprete. A questa posizione fa eco quanto già molti anni fa affermava Betti in ambito filosofico: il problema del simbolo interpretabile o ininterpretabile rischia di sfociare in un vicolo ceco se non si ammette “quello che si potrebbe chiamare il paradosso dell’espressione simbolica: ogni simbolo esige d’essere interpretato mercé un’espansione, viceversa l’espansione porterebbe al risultato di rinnegare la funzione del simbolo se essa tendesse a dissolverne il significato in termini intellettualistici (…) qui l’interpretazione non consiste nel sostituire al senso simbolico un senso letterale bensì nell’approfondire il senso del simbolo” (1962).

Dunque, ne potremmo concludere, il simbolo è sì ermeneutizzabile, ma solo a patto di considerare questa ermeneutica tendenzialmente infinita. Viene in mente quanto afferma Ricoeur a proposito della traduzione: “c’è un intraducibile dinanzi alla traduzione e c’è un intraducibile prodotto e rivelato dalla traduzione stessa” (2007). Sostituendo “irrappresentabile” a “intraducibile”, potremmo affermare, senza troppo alterare il discorso del filosofo: vi è un irrappresentabile che precede il simbolico e vi è un irrappresentabile prodotto dal simbolo stesso. Attraverso un movimento tendenzialmente infinito, nella misura in cui il simbolo pesca nella dimensione della sensorialità, dell’irrappresentabilità, e del perturbante emotivo, esso ne consente una serie di rappresentazioni, che spetta anche al lavoro analitico completare e rimodellare senza sosta. Questo ho cercato di esprimerlo nell’aforisma: il simbolo è quanto consente di pescare dal magma delle origini senza perdervisi (Martini, 1998 e 2005).

Se cancelliamo “senza perdervisi” rischiamo di rimanere affossati nell’eccedenza e nell’indistinzione e dunque, per quanto attiene al piano clinico, nel terreno della psicosi. Ciò è quanto Callieri (2001) chiama “il rischio psicotico del simbolo”. Se invece il simbolo, oltre a consentire di riattingere al magmatico, insieme ne permette un distanziamento, ecco che allora viene evidenziata la sua connessione non solo con l’originario indistinto ma anche con la soggettività.

Vorrei ora illustravi come abbia ripensato queste posizioni, a qualche anno di distanza, non misconoscendole ma cercando di coglierle da un vertice osservativo arricchito e rinnovato.

In tempi recenti la mia riflessione sul simbolo è proseguita attraverso l’incontro con un autore che non è né un filosofo né uno psicoanalista, bensì un regista cinematografico: Andrej Tarkovskij. In due punti differenti di un suo scritto di teoria cinematografica, Scolpire il tempo(1986), egli parla del simbolo in modi all’apparenza contradittori, lasciando intendere nell’un caso che i suoi films sono privi di simboli, nell’altro che essi –in quanto equiparati all’immagine- ne costituiscono il tessuto fondante:

E’ interessante evidenziare questa “contraddizione” del testo che tuttavia può essere risolta, a patto che il pensare simbolico venga declinato in una sorta di “dicotomia” tra il simbolo-metafora e quello che, in omaggio a Tarkovskij ma anche in linea con la valorizzazione della dimensione dell’immagine da parte della psicoanalisi contemporanea, potremmo chiamare il simbolo- immagine1. Quale differenza corre tra i due? Fermo restando che né l’uno né l’altro può essere ridotto a mero segno, tuttavia col primo ci possiamo riferire a una dimensione simbolica che l’autore introduce inconsciamente o intenzionalmente nell’opera (e magari intenzionalmente nasconde) e che fa riferimento a un preciso “simbolizzato” di natura storica, sociale, culturale, psicologica ed emozionale. Il raffronto in ambito analitico può essere operato con il mascheramento del lavoro onirico: c’è un’immagine predefinita, sebbene sfugga alla coscienza dell’analizzando (o dello spettatore), che può essere slatentizzata dall’interpretazione. I simboli-metafora sono dunque dotati di un contenuto precostituito e serbano al loro interno una rappresentazione forte, già data, la quale può essere celata, o intenzionalmente dall’artista o come esito del lavoro dell’inconscio.

Per il simbolo-immagine le cose si pongono diversamente. Quando Tarkovskij afferma che nel suo lavoro non ci sono simboli evidentemente si riferisce ai simboli-metafora: l’immagine dell’acqua, così frequente nei suoi films, non intende infatti rimandare a un significato predefinito. Al contrario i simboli-immagini, presenti abbondantemente nella sua opera, hanno un potere evocativo e mettono in contatto lo spettatore con una dimensione indefinita e infinita, che precede ( e crea) la rappresentazione. Essi si valgono in forma radicale di un linguaggio poetante  piuttosto che di un linguaggio narrante2

Dal nostro punto di vista potremmo ritenere i simboli-immagine correlati non già con l’inconscio rimosso (come i simboli-metafora), bensì con l’inconscio irrappresentabile (Martini, 2005).

Per chiarire meglio cosa intendo per simbolo-immagine e simbolo-metafora, prima di presentare la tranche di una seduta analitica, vorrei fare riferimento ad un film di un altro grande regista, Il Cineamatore (1979) di K. Kieslowski.

Questo film ha come protagonista un operaio, il quale in occasione della nascita della propria figlia acquista una cinepresa, ma allarga progressivamente il raggio dei propri interessi cineamatoriali filmando in modo onnivoro tutto quanto lo circonda. La sua passione lo porta a insperati successi nei festival cinematografici, ma viene percepita dalla moglie come un fattore distruttivo nei confronti della loro vita familiare, sì che alla fine lei abbandona la casa con la bambina al seguito. Philip, rimasto solo, dopo aver distrutto i rotoli della sua ultima pellicola, volge la cinepresa verso sé stesso e inizia a raccontare la sua storia, a partire dal momento del parto della moglie. Il film termina così con la scena che vede il protagonista, dinanzi all’obiettivo, iniziare la sua narrazione.

La prima scena narra invece di un sogno, o meglio di un incubo che fa la moglie del protagonista nella notte agitata che precede il parto. E’ agevole leggere quest’immagine in termini metaforici, tanto più essendo attraversata da una stratificazione di significati: il divoramento del falco evoca la passione cinematografica che aggredisce e uccide la vita familiare; il falco a sua volta rimanda al titolo di un film di Loach (Falco) che Kieslowsli amava molto ed in cui il falco ha una funzione salvifica (S.Murri, 2004). La scena presenterebbe dunque una carica di ambivalenza relativamente alla dimensione distruttiva o salvifica del falco: c’è una “apertura” del simbolico, ma  i significati sono comunque densi, precisi, alcuni interni all’opera cinematografica e a quello che sarà il suo sviluppo diegetico, altri correlati a riferimenti metacinematografici. Una lettura psicoanalitica dell’opera peraltro li dilaterebbe ulteriormente e si potrebbero chiamare in causa, sempre sul piano del simbolo metafora, gli aspetti fallico aggressivi della figura del falco, secondo una prospettiva freudiana, o la proiezione all’esterno di un feto divorante, secondo una kleiniana…

Nell’ultima scena mi sembra invece che ci si sposti piuttosto nell’ambito del simbolo- immagine. Philip, abbandonato dalla moglie, rivolge verso di sé la cinepresa e racconta : “mia moglie si svegliò che erano le quattro, era madida di sudore, la colsi in braccio e la portai all’ospedale. Il giorno seguente comprai della vodka e andai al lavoro”.

Qui il film finisce con un fotogramma nero che segue al primo piano del protagonista.

Se il simbolo-metafora ha una collocazione ben definita (corrisponde a una precisa immagine o scena cinematografica), quella del simbolo-immagine è molto più incerta. Io la coglierei ad esempio nel continuo battito di ciglia di Philip che sta cercando di raccontare gli avvenimenti che hanno cambiato in modo improvviso la sua vita, o nella espressione di perplessità e sgomento che assume nel volger su di sé la cinepresa, tutti aspetti che lasciano intravedere le tematiche dell’indefinitezza dell’identità personale e dell’incertezza dei rapporti umani, e forniscono alla narrazione un taglio di carattere metafisico (amplificato dall’oscurità finale dello schermo), sia pure a partire, come anche in altri films del regista, da una narrazione che inizialmente pareva  svilupparsi su un piano intimista, se non di denuncia sociale. Questo sbattere le ciglia in modo perplesso e disorientato, questa metafisicità sempre più manifesta, ci confrontano, per dirla ancora con Tarkovskij, con immagini che non significano nulla e nel contempo sono altamente evocative.

Naturalmente il simbolo-immagine e il simbolo- metafora non sono però da intendersi distinti e separati, quasi a volerli oggettivare. Meglio allora parlare di una dimensione immaginifica e di  una dimensione metaforica del simbolo, con cui continuamente ci confrontiamo tanto in campo artistico che in analisi. Da cosa dipende l’evidenziamento dell’una o dell’altra, atteso che, come sosteneva Susanne Langer (1969), il simbolo è dato non tanto dalla modalità di produzione, quanto dalla modalità di fruizione del soggetto interprete? (Va evidenziato come questo possa valere anche per i simboli schizofrenici che sono degli pseudosimboli per il paziente, ma possono essere trasformati in simboli propriamente detti dal lavoro interpretativo dell’analista: Martini, 2011).

La sottolineatura dell’una o dell’altra di queste due dimensioni dipenderà da vari ordini di fattori:

  1. il primo è dato dal contenuto del materiale che il paziente ci propone, che può di per sé orientarci a leggerlo come qualcosa di ineffabile, una sorta di finestra aperta sull’infinito, oppure come la risultante di un processo di rimozione;
  2. tuttavia è abbastanza evidente come lo stesso materiale possa esser letto secondo modalità differenti a seconda dell’analista stesso: dunque il secondo fattore è dato dalla teoria e dalla personalità dell’analista, che lo sollecitano a muoversi più su di un piano o su di un altro. Un analista freudiano ortodosso o kleiniano è forse più portato a muoversi sul piano dell’inconscio rimosso e dei simboli metafora; un analista junghiano o bioniano (la citazione di Bion è qui d’obbligo avendo egli introdotto l’idea di “0”, che rimanda proprio all’inattingibile e all’irrappresentabile, 1970) sarà invece portato a muoversi più sul piano dei simboli-immagine che dei simboli-metafora.
  3. infine un terzo livello è dato dal paziente “in carne e in ossa” che ci troviamo dinanzi, dal suo livello di sofferenza e di destrutturazione: ad esempio, muoversi troppo sul livello del simbolo- immagine può essere confondente per un paziente fortemente disorganizzato, mentre insistere sul piano del simbolo-metafora può essere sentito carico di una eccessiva violenza interpretativa da parte di un paziente che presenta una certa rigidità mentale, o che semplicemente non si senta da noi compreso

Queste considerazioni possono proficuamente combinarsi con una riflessione in merito alla posizione di passività e attività dello spettatore o dell’analista dinanzi alla produzione simbolica del film o del paziente. Scrive I. Marozza (2008), richiamandosi a Masullo: “Una vera antinomia non si viene più a porre tra una dimensione della coscienza e dell’inconscio, bensì tra una posizione attiva dell’Io e una posizione passiva, patica, sensibile e non direttamente conoscitiva, prendendo nel contempo atto che questa condizione di sensibilità recettiva che caratterizza la posizione passiva dell’Io è il presupposto di una apertura al confronto dell’inconscio”.

Evidentemente nel momento in cui l’analista lavora col simbolo-metafora la sua posizione è più attiva in quanto posizione interpretante, di svelamento del significato. Nel momento in cui lavora col simbolo-immagine la sua posizione è più passiva, è una posizione di reverie (cfr. Ogden, 1997), in cui egli si “immerge” nell’immagine (facendo ben i conti con i rischi che ciò comporta specie nel confrontarsi con situazioni psicotiche).

Di qui l’opportunità di valorizzare, anche su questo piano, un atteggiamento dialettico dell’analista.

Anche nel cinema d’altronde lo spettatore può essere indotto a una posizione di maggiore attività o passività. Nel cinema a carattere eminentemente narrativo il momento di passività sta nella identificazione con i personaggi e nella immersione nel plot: spesso noi siamo “costretti” da un sapiente lavoro di regia a immedesimarci nei protagonisti della storia. La posizione attiva, sempre nell’ambito del cinema narrativo, sta invece nella decodifica e nell’interpretazione delle metafore presenti nel film.

Se al contrario ci riferiamo al cinema di poesia (per cui è d’obbligo un rimando alle riflessioni di Pier Paolo Pasolini, 1972), la passività dello spettatore sta nel lasciarsi attraversare dalle immagini senza opporre una resistenza interpretativa, nel convenire con Tarkovskij che l’insistente scorrere dell’acqua nei suoi films davvero non significa nulla3. In tal caso, la posizione contemporaneamente attiva dello spettatore sta piuttosto nella trasformazione di una sensazione di irrappresentabilità in un sentimento e un pensiero passibili comunque di rappresentazione sebbene non in forma “chiusa” e conclusa.

Penso sia utile concludere questa riflessione sulla bidimensionalità del simbolico volgendoci al terreno della psicoanalisi clinica e chiarendo da parte mia cosa intenda con aspetto metaforico e aspetto immaginifico del simbolo riferiti alla relazione con il paziente.

A scopo esemplificativo proporrò due sogni narrati nel corso della stessa seduta da una paziente, sulla cui storia non mi intratterrò in quanto esula dalle finalità di questo lavoro. Di questi sogni vorrei condividere quella che è stata la mia ricezione, conformata nell’un caso al simbolo- metafora e nell’altro al simbolo-immagine.

primo sogno: Entro nella casa ove vivevo 20 anni fa da bambina. Riconosco la signora della porta accanto che non è cambiata, ma ha la faccia del marito. Il resto invece è profondamente modificato: io sono adulta ed anche il quartiere non è più lo stesso;

secondo sogno: Sono con lei, ma mi accorgo che vicino a me c’è una bambina di 4-5 anni. Lei non può sentire o non può sapere cosa le sto dicendo, ma sa che questo discorso attiverà un’emozione tale da non poter più parlare. Allora mi copre con delle coperte…come per proteggermi.

Veniamo ora alla mia ricezione del materiale. Nel primo sogno è in gioco un processo metaforico-metonimico di condensazione e spostamento: la coppia genitoriale è sostituita dalla coppia signora della porta accanto-marito (correlata alla prima anche a seguito della vedovanza del marito della signora in questione, analoga alla vedovanza del proprio padre)

Ci muoviamo, mi sembra, elettivamente sul piano del simbolo-metafora e, conseguentemente, mi è sembrato utile comunicarne l’interpretazione alla paziente, evidenziando l’operazione del Sé adulto osservante che riconfigura la sua dolorosa storia infantile, segnata dal lutto materno e dal complesso rapporto con la figura paterna che era sentita “colonizzare” e assumere in modo confusivo le funzioni materne.

Nel secondo sogno mi pare invece più importante la sottolineatura di un’emozione irrappresentabile. Il contenuto del discorso (che è indicibile) appare irrilevante rispetto all’emozione cui rinvia e allo scambio emozionale che attiva (per certi versi sostitutivo dell’interpretazione)

Qui la dimensione transferale è più evidente4, addirittura dichiarata, ma non sembra richiedere da parte dell’analista l’assunzione di una posizione interpretativa, in quanto è piuttosto la paziente stessa che porta avanti, all’interno del sogno, un lavoro consistente nella rappresentazione di una funzione di contenimento che stempera il potenziale catastrofico di un’emozione impensabile.

In questo caso ho preferito lasciare l’immagine onirica in una situazione di “sospensione”, sebbene molti fossero gli appigli per un “disvelamento metaforico” più in linea con il tradizionale lavoro interpretativo, e piuttosto favorire il potenziale di attivazione emozionale dell’immagine stessa: proprio perché “non significa nulla”, proprio perché lasciata sedimentare nel suo significato “0”, essa può consentire uno scambio emozionale che a partire da una situazione di indicibilità (“non poter più parlare”) e irrappresentabilità può forse consentire di recuperare il luogo della parola e della rappresentazione.


Note

  • 1 Come già si esprimeva Paul Ricoeur: “Il problema dell’interpretazione non consiste nell’appartenenza del simbolo al tesoro verbale dell’umanità, ma nell’uso ‘pittorico’ che ne fa il sogno” (2007, p.108), e poco più oltre: “Ciò che è specifico della scoperta psicoanalitica è che il linguaggio lavora ad un livello pittorico” (2007, p.113).
  • 2 Per una riflessione sulla parola poetante nella psicoanalisi e una discussione degli autori citati nella slide rimando al mio La sfida dell’irrappresentabile (2005).
  •  3 Naturalmente questo è vero e contemporaneamente non vero: la funzione del simbolo è allora anche quella di tenere insieme queste due “attitudini”, psichiche e epistemologiche insieme…
  • 4 Coglierla appropriatamente richiederebbe tuttavia da parte del lettore una conoscenza della storia della paziente, qui non riportata.

Bibliografia

  •  Betti E. (1962), L’ermeneutica come metodica generale delle scienze dello spirito, Città Nuova, Roma,1987.
  • Bion W.(1970), Analisi degli schizofrenici e metodo psicoanalitico, Armando, Roma, 1979 Callieri B. (2001), Quando vince l’ombra, Nuove Edizioni Romane, Roma
  • Galimberti U., La terra senza il male, Feltrinelli, Milano 1984
  • Hillmann J. (19 ), Il sogno e il mondo infero, Edizioni di Comunità, Milano 1984
  • Jones E. (1916), La teoria del simbolismo, in Teoria del simbolismo e altri saggi, Astrolabio, Roma 1972
  • Jung C.G. (1921), Tipi psicologici, Bollati Boringhieri, Torino 1977 Kieslowski K. (1979), Il Cineamatore
  • Langer S. (1969), Filosofia in una nuova chiave, Armando, Roma 1972
  • Marozza I.(2008), Cercarsi nel linguaggio. Il fondamento sensibile dell’identità, in La Forgia M., Marozza M.I. (a cura di), La conoscenza sensibile, Moretti & Vitali, Bergamo.
  • Martini G. (1998), Ermeneutica e Narrazione. Un percorso tra Psichiatria e Psicoanalisi, Bollati Boringhieri, Torino.
  • Martini G. (2005), La sfida dell’irrappresentabile. La prospettiva ermeneutica nella psicoanalisi clinica, Franco Angeli, Milano.
  • Martini G. (2011), La psicosi e la rappresentazione, Borla, Roma. Murri S. (2004), Krzysztof Kieslowski, Il Castoro Cinema, Milano Ogden T. (1997), Reverie e interpretazione, Astrolabio, Roma.
  • Panikkar R. (1998), Tra Dio e il cosmo, Laterza, Bari, 2006.
  • Panikkar R., Per una lettura transculturale del simbolo, Quad. Psicot. Infant., N.5, (1981) Pasolini P.P. (1972), Empirismo eretico, Garzanti, Milano.
  • Ricoeur P. (1965), Della interpretazione. Saggio su Freud, Il Saggiatore, Milano 1967
  • Ricoeur P. (1978), Immagine e linguaggio in psicoanalisi, in Jervolino D., Martini G. (a cura di),
  • Paul Ricoeur e la psicoanalisi, Angeli, Milano, 2007.
  • Ricoeur P. (2007), Conversazione sulla psicoanalisi. Intervista a Paul Ricoeur, in Jervolino D., Martini G. (a cura di), Paul Ricoeur e la psicoanalisi, Angeli, Milano, 2007.
  • Segal H. (1957), Alcune note sulla formazione del simbolo, in Casi clinici, il Pensiero Scientifico, Roma 1980
  • Tarkovskij A. (1986), Scolpire il tempo, Ubulibri, Milano, 2005. Trevi M. (1986), Instrumentum symboli, Metaxù, N.1, pp.43-63.
View Comments (0)

Leave a Reply

Your email address will not be published.


Quaderni di Cultura Junghiana © 2022 CIPA - Istituto di Roma e dell'Italia centrale Tutti i diritti riservati
È consentito l'uso di parti degli articoli, purché sia correttamente citata la fonte.
Registrazione del Tribunale di Roma n° 167/2018 con decreto dell’11/10/2018
P.iva 06514141008 | Privacy Policy