
2016 Numero Extra Ricerche Teorico Cliniche
A CURA DELLA REDAZIONE Ricerca e terapia costituiscono un binomio inscindibile nel pensiero junghiano, tutto spostato sul momento centrale dell’esperienza. La rubrica ospita note, sintesi, riflessioni e quant’altro delle attività svolte dai gruppi di lavoro presenti all’interno del nostro Istituto.
Riflessioni ed esperienza del gruppo di ricerca “Creatività e Adolescenza”
Il gruppo di ricerca teorico-clinico “Creatività e Adolescenza” nasce dal desiderio di coniugare la riflessione intorno a tre grandi interessi: la psicoterapia psicodinamica dell’età evolutiva, l’adolescenza ad alto rischio e, al limite, la creatività nelle sue declinazioni.
Mi sono sempre interessata di arte e creatività, lasciando che la dimensione artistica e creativa diventassero parte del mio modo di pensare e di essere psicoterapeuta e analista.
Ho lavorato con l’adolescenza a rischio, come operatore, coordinatore e responsabile di un progetto di Compagno Adulto[1] in collaborazione con l’ex V (ora IV) Municipio di Roma e da questa esperienza è nata una Associazione che propone un progetto di Compagno Adulto privato.
Il gruppo teorico-clinico da me condotto si svolge quindi sviluppando un discorso intorno alla teoria psicoanalitica dell’adolescenza, una riflessione teorica sulle arti-terapie in genere, per poi rafforzare ed incollare il tutto attraverso l’uso di vignette cliniche.
Il gruppo si avvale spesso della presenza di professionisti delle arti-terapie, invitati a raccontare la loro esperienza, per avere un quadro più completo di come nella stanza d’analisi con gli adolescenti difficili si possano usare strumenti creativi.
Come conduttrice del gruppo ho spesso utilizzato film, cortometraggi, documentari e tutto ciò che sia risultato utile per capire di cosa si parla quando utilizziamo i termini ‘dimensione creativa’ e ‘adolescenza a rischio’, e come psicopatologia e dimensione creativa si siano spesso intrecciate in alcune personalità della letterattura, della musica, della pittura che hanno fatto la storia.
Scrivo perciò questo articolo proprio come se fosse un incontro del gruppo teorico-clinico, partendo da cosa si intende per adolescente al limite e che cosa lo caratterizza, attraversando poi il mondo dell’arte-terapia e alcuni dei suoi princìpi, per concludere con due input clinici.
L’adolescenza a rischio sociale e psicopatologico, o adolescenza al limite, è quella che non accede facilmente alle nostre stanze di analisi per diversi motivi (cognitivi, ambientali, culturali, sociali, economici) e che troverebbe grande difficoltà ad affrontare un setting incentrato sulla parola o quasi esclusivamente sulla parola: si tratta di quei ragazzi in cui il processo di creazione-individuazione non è rappresentabile se non attraverso gli agiti, desimbolizzati, senza un pensiero unificatore.; l’adolescenza che nasce e cresce nelle periferie, l’adolescenza per cui si pensa alla casa-famiglia o alla comunità terapeutica, l’adolescenza per cui non viene riconosciuto lo stato di adolescente da nessun adulto di riferimento.
Un’adolescenza che si trova ad affrontare, partendo da una posizione fortemente svantaggiata, una fase già universalmente riconosciuta come critica, caratterizzata da cambiamenti, sconvolgimenti, dalla compresenza e l’incongruenza di elementi infantili e adulti, dalla sessualità che preme, dalla ricerca di senso.
Adolescenti il cui sistema valoriale di riferimento è spesso fortemente decentrato rispetto ai valori, gli atteggiamenti e i comportamenti con cui un adolescente, in genere, si confronta durante il suo cammino di crescita, e in cui la drammaticità e la platealità di alcuni gesti raggiunge livelli davvero impegnativi, esprimendo un rischioso arresto o una distorsione grave del processo evolutivo.
In questi adolescenti il desiderio, il piacere, le pulsioni non sono solo motori energetici di difficile tenuta, ma possono diventare dei veri e propri nemici; l’angoscia e l’incertezza rispetto alle proprie capacità e competenze possono precludere qualsiasi forma di futuro.
Questo adolescente ha bisogno prima di tutto di scoprire che esiste un modo per classificare le sue emozioni e i suoi stati d’animo, e che esistono adulti in grado di organizzare la sua esperienza e di prendersi la responsabilità della relazione, coerentemente e senza paura.
Il contatto vero con l’adolescente, e con questo adolescente in particolare, finisce per far mettere in discussione l’adulto, il terapeuta, che non potrà essere adeguato se non terrà conto dell’adolescente che è stato e dell’adolescente che ancora si nasconde dentro di sè e, se non lavorerà con l’adolescente attraverso la propria equazione personale (Jung C.G., 1934, vol.X), assumendosi la responsabilità della relazione, fallirà.
Osserva Winnicott:
« Dove c’è un ragazzo che lancia una sfida per crescere, là deve esserci un adulto pronto a raccoglierla. Non sarà cosa piacevole. Ma a livello profondo, nella fantasia inconscia, si tratta di una questione di vita o di morte per l’adolescente » (Winnicott,1981).
Non riuscire a raccogliere la sfida o, peggio, temerla, vorrebbe dire, infatti, mettere gravemente a rischio l’adolescente, aumentarne il disagio, e sperperare l’enorme patrimonio creativo che l’adolescente è, e che si trova in ogni adolescente.
Una splendida immagine del setting con questi adolescenti, terrorizzati dalla loro ingovernabile emergenza pulsionale, dalla dipendenza dal setting, ostili ai rappresentanti del Super-Io, la propone S. Bolognini: è un po’ come alcuni bar di quei film on the road degli anni ‘70, quando i protagonisti attraversano sterminati deserti nord-americani e nei posti più impensabili trovano una baracca di legno, che è un bar. Di solito in questi imprevisti punti di riferimento c’è un barista che, sul piano psicologico, ha la caratteristica di non meravigliarsi mai di nulla: è uno che sta lì, con la porta sempre aperta, e nonostante tutto quello che gli si presenta, rimane un punto fermo, tiene aperto il suo chiosco nel deserto, ed è riservato, ma disponibile (Bolognini S., 2005, p. 35-36).
Lavorare in una stanza di analisi con questo tipo di adolescenza vuol dire spesso abbandonare per un attimo o due la propria struttura tecnico-metodologica, aprire e chiudere i confini della teoria, avvalendosi di strumenti mutuati dalle arti-terapie, dallo psicodramma, o dal lavoro svolto con questi ragazzi in strada o in casa.
Riuscire a trasformarsi in un «oggetto di passaggio, dimenticabile […], che dia la sensazione di poter essere lasciato indietro e ritrovato in seguito» ( Ivi, p.35).
Con questi adolescenti, in cui la capacità simbolica è fortemente in difetto, il fare insieme attraverso l’esperienza creativa o condividendo situazioni e attività, lavorando perciò non tanto sul racconto o la narrazione, quanto sul condividere un’esperienza reale, facilita l’instaurarsi di una relazione e della fiducia terapeutica, donando a molti di loro un accesso ad un setting terapeutico individuale, altrimenti precluso.
Il terapeuta dovrebbe riuscire a mettere in campo la propria dimensione creativa, attivando la dimensione psicologica della creatività nel paziente adolescente, dimensione utile anche per quella autocreazione adolescente (P. Gutton, 2009, pag. 27) che il ragazzo si trova ad affrontare, tra continuità e cambiamento, che mette fortemente in crisi la verità di sé: quel restare veri che tanto preoccupa l’adolescente.
«In adolescenza l’opera è la personalità stessa in corso d’attuazione, che rifiuta le ripetizioni pulsionali e narcisistiche e si apre verso l’ignoto. L’opera […] implica la solitudine, lo sforzo, un dolore stoicamente concentrato e anche sbandierato […]. Con l’adolescenza, una delle belle arti, s’improvvisa e si innova, come nel jazz. Si può ricominciare, correggere, cancellare, trovare altre variazioni, momentanee o talvolta definitive. L’adolescenza è un tentativo di conciliare ripetizione e originalità, quotidianità e aspirazione » (Ivi, p. 21-22).
Il terapeuta che accetta la sfida deve possedere un’importante arma: la conoscenza del territorio.
L’angoscia dell’adolescente è stata la sua, gli è appartenuta, quindi conosce direttamente il suo problema e l’ha affrontato prima di lui.
Si stanno incontrando un adolescente sofferente e un guaritore ferito (Sedgwick D., 2001) la cui dimensione interna si fa setting capace di accogliere nella propria stanza affettiva, fisica, psichica, i dolori dell’adolescente.
Lavorare con un adolescente a rischio significa aiutare l’adolescente a trovare risposte al suo disorientamento e, affinché ciò avvenga, il ricordo di quel disorientamento deve essere ancora vivido nel terapeuta, così come quell’aspetto puer che è capace di apportare idee brillanti, intuizioni, uno spazio e una sintonia con l’adolescente e per i suoi interessi (Jung. C.G. 1934 e 1940, vol IX).
Aspetti Puer e aspetti Senex del terapeuta devono essere fluttuanti nel rapporto con l’adolescente, il quale deve poter percepire che il terapeuta sappia cosa vuol dire sentirsi Puer, mortalmente debole e spesso zoppicante, tormentato, ma anche creativo, fresco, irriflessivo e bello, ma possa anche limitarne l’onnipotenza attraverso la virtù Senex.
Il Senex, simbolo del padre, figura assennata e saggia, in ogni caso autorevole, capace di raffreddare il caldo entusiasmo e la pericolosa unilateralità del Puer (Hillman J., 1988, p. 22).
Nel lavoro con gli adolescenti a rischio il Senex rappresenta anche il margine, il confine: l’adolescente sa riconoscere l’adolescente che sta nell’adulto e solo da un adulto coerente accetterà regole e confini, i margini, l’aiuto, la cura.
I concetti di simmetria, autorità, fiducia e coerenza sono fondamentali nel rapporto terapeutico con l’adolescenza perché, come scrivono egregiamente Benasayag e Schmit: «siamo testimoni di una sofferenza legata ad un’eclissi o ad un tracollo del principio di autorità. […]. Il Principio di autorità si differenzia dall’autoritarismo in quanto rappresenta una sorta di fondamento comune ai due termini della relazione, in virtù del quale è chiaro che uno rappresenta l’autorità e l’altro ubbidisce; ma allo stesso tempo è convenuto che entrambi ubbidiscono a quel principio comune che, per così dire, predetermina dall’esterno la relazione. […] ‘Perchè devo ubbidirti?’ […] Se il giovane non è sedotto o dominato, non vede nessun motivo di ubbidire a questo suo simile che pretende di meritare il rispetto […]. Io ti ubbidisco perché tu rappresenti l’invito a dirigersi verso questo obiettivo comune perché so che questa ubbidienza ti ha permesso di diventare l’adulto che sei oggi, come lo sarò io domani». (Benasayag M., Schmit G., 2003, p. 27-28).
Introduco a questo punto il secondo polo della creatività, di cui ci occupiamo nel gruppo teorico-clinico, e dei diversi livelli e delle diverse forme che l’istanza creativa può assumere all’interno del setting terapeutico.
Ho già discusso precedentemente della creatività intesa come processo ‘adolescente’ di messa in opera e costruzione della propria personalità, del proprio divenire, della propria individuazione.
Cosa sia la creatività è definizione ardua da dare in maniera univoca e completa.
Non è mio interesse in questa sede menzionare in maniera bibliografica l’enorme numero di definizioni e spiegazioni che del termine si son date nei diversi ambiti, mi piacerebbe concentrarmi maggiormente sul concetto di creatività come istanza da poter utilizzare nel lavoro con l’adolescenza, come la possibilità di individuare ed utilizzare talenti e capacità inespresse, non individuate, non valorizzate, sottovalutate nei nostri adolescenti, e contemporaneamente della creatività intesa come utilizzazione del mezzo creativo per l’espressione di ansie e tensioni e per promuovere l’integrazione psichica.
Non posso però sottovalutare quanto parlare di creatività significhi anche parlare della capacità creativa del terapeuta di inserire mezzi creativi nel lavoro terapeutico, ma ancor di più della sua capacità creativa nel reinventare se stesso nel cambiamento, veloce in maniera esponenziale, dei mezzi di comunicazione e delle nuove patologie che colpiscono i giovani.
Mai come negli ultimi decenni il lavoro con l’adolescenza ha messo gli operatori della salute mentale di fronte alla necessità di evolversi rispetto ai veloci cambiamenti comunicativi, socio-psicologici, tecnologici, rispondendo anche a domande sull’opportunità o meno di contravvenire a certe fondamentali regole del setting, valorizzando il rapporto con la modernità e il cambiamento.
Nel 2009 G. Manfrida scriveva un interessante testo intitolato Gli sms in psicoterapia ponendo l’attenzione su quanto l’uso degli sms ponesse una sfida agli psicoterapeuti, notoriamente abituati alla comunicazione verbale e come, a causa di una delle caratteristiche dell’sms, cioè il ristretto utilizzo di 160 caratteri, ci si scontrasse con una vera e propria modificazione nell’alfabeto, nella grammatica e nella sintassi (l’uso di ke al posto di che, Xchè al posto di perché, + al posto di più).
Mi impressiona pensare come, nemmeno 5 anni dopo, la crescita altrettanto esponenziale dell’utilizzo di Facebook, Skype, WhatsApp, Viber, l’uso degli iMessage, di emoticons, la nascita delle applicazioni per iPhone e Samsung, rendano quel testo, e le riflessioni che ne derivano, già obsoleti.
Jung nel 1937, nel saggio intitolato Determinanti psicologiche del comportamento umano (Jung C.G., vol. VIII), rileva che dal punto di vista psicologico il fattore creativo sia un vero e proprio istinto per l’uomo come fame, sessualità, l’attività e la riflessione, una necessità della vita che, quindi, richiede anche appagamento.
Ma Jung, come sottolinea Hillman nel 1972, cade nel fraintendimento in cui tutti tendiamo a cadere, cioè confondere il creativo con l’artistico, contraddicendosi, per dichiarare poi: «Ma che cosa può ‘creare’ un uomo se non gli è toccato di essere un poeta? […] se non hai proprio nulla da creare, allora forse crei te stesso». (Jung C.G., vol. IX, p.566).
Jung considerava la creatività indispensabile per il raggiungimento di un equilibrio emozionale e psichico ed era convinto che l’attività manuale, che lui stesso portava avanti con dedizione, facilitasse l’espressione della creatività, presente in chiunque seppur con una possibilità di essere espressa in maniera diversa per capacità e profondità individuali.
Questo punto di vista, che alleggerisce il versante della qualità del prodotto creativo, permette una riflessione sulla applicabilità e utilità dell’utilizzo della dimensione creativa nel lavoro terapeutico, facendola diventare una spinta energetica a cui tutti possono attingere e che si può utilizzare nelle maniere più disparate e applicabile ad ogni attività umana.
Citerò quindi una sola definizione di creatività che mi sembra utile per semplicità e precisione, e per la finalità della nostra riflessione, fornita da H. Poincaré: «Creatività è unire elementi esistenti con connessioni nuove, che siano utili » (Poincaré J.H., a cura di Bartocci C., Scienza e metodo – Einaudi, 1997).
Quindi andiamo ad unire elementi esistenti, come le conoscenze che abbiamo sul setting analitico e sull’adolescenza, con connessioni nuove, quali la capacità creativa del terapeuta di mettere in campo e utilizzare strumenti creativi per superare momenti di impasse o di immobilità da parte del paziente adolescente grave e la capacità intuitiva di introdurli al momento giusto, instaurando una buona relazione.
Per arte-terapia si intende un intervento di aiuto e sostegno non verbale, che si basa sul principio che il processo creativo produce già da solo benessere; attraverso le tecniche dell’arte-terapia l’individuo si sente capace di fare, di esprimere e di attivare risorse; è considerato un intervento educativo nel senso etimologico del temine: educere ⇨ tirare fuori.
Colei che viene considerata la fondatrice dell’arte-terapia, M. Naumburg (psichiatra e psicoanalista), la connota inizialmente come intervento di supporto in situazioni particolarmente gravi in cui non sia possibile un accesso alla psicoterapia, o, comunque, di supporto ad essa.
La Naumburg parte dall’ipotesi che l’arte-terapia stimoli la comunicazione simbolica tra paziente ed arte-terapeuta facendo riferimento alle immagini prodotte dal paziente sulle quali vengono inevitabilmente proiettati emozioni e vissuti personali; elabora, così, il metodo dell’arte-terapia dinamicamente orientata che utilizza l’arte come strumento per svelare significati inconsci che vengono, poi, descritti e resi comprensibili grazie all’utilizzo della comunicazione verbale normalmente utilizzata nella seduta di psicoterapia[2].
Milner, psicoanalista e pittrice, nei suoi 60 anni di presenza nel mondo psicoanalitico anglosassone, ha mantenuto scambi fecondi in molte direzioni: sul tema della simbolizzazione, con la Klein; sui temi della creatività e dell’illusione, con Winnicott, e ha portato avanti la sua ricerca portando la creatività nella stanza d’analisi.
Il suo riflettere incessante sui processi creativi, sia nell’elaborazione artistica che nella vita quotidiana e nello svolgimento di una seduta, la porta a concludere che il simbolo creato dall’artista sia l’espressione più alta di una normale tendenza a creare simboli per la vita emotiva, come modalità di rendere conoscibile la vita interiore[3].
Mi piacerebbe a questo punto descrivere con un paio di brevissimi esempi cosa concretamente accade nella pratica clinica applicando ciò di cui fino ad ora si è discusso teoricamente.
Con una ragazza adolescente è stato possibile, grazie all’utilizzo di una tecnica psicodrammatica, da me sperimentata in una esperienza di gruppo, dare un nome, una concretezza, una forma ad un area difficile da affrontare, promuovendo contenimento, sollievo, e aiutandola a portare fuori il proprio vissuto rispetto ad una persistente sintomatologia psicosomatica, trasformarlo in azione, e successivamente pensarlo, invece di esserne intrappolata.
Lasciar scegliere al paziente un oggetto, un peluche, una bambola o una marionetta, dargli un nome, renderlo parte del dialogo e dello spazio analitico, offrendogli una sedia e dandogli la parola attraverso il paziente, spronandolo ad immaginare una conversazione con il suo sintomo, o emozione: tutto questo può offrire al paziente adolescente una apertura ad un mondo interiore molto difficile da esplorare, proiettandolo all’esterno.
Utilizzare l’azione come mezzo, come strategia, come risorsa terapeutica, anche quando appare confusa, può inserire nello spazio terapeutico una possibilità di costruzione, di riorganizzione e contenimento dell’esperienza.
Nel caso in questione il dialogo con il peluche ha rappresentato per la giovane ragazza un momento importante e di svolta di un momento doloroso e a cui non si riusciva ad accedere con nessun altro registro.
Il nostro amico peluche è rimasto per tutti gli anni successivi della terapia con questa ragazza sulla mensola del mio studio, mai più interrogato, né utilizzato, ma presente con tutto il suo peso.
Il lavoro con un’altra ragazza, fortemente sbilanciata sul versante degli agiti e della concretezza, che nel lavoro terapeutico vietava qualsiasi tentativo di perlustrazione di un ambiente interno che permettesse un punto di osservazione e di riflessione su dolore, autostima, mancanze affettive e di contenimento, mi mette di fronte alla riflessione rispetto alla possibilità e all’opportunità di fare un intervento da ‘Compagno Adulto’, portando il ‘Compagno Adulto’ nella stanza di analisi e l’analista in strada.
Percependo molto chiaramente che le risorse di questa ragazza hanno bisogno di un appoggio stabile su cui crescere, ed essendo i suoi genitori impossibilitati, in quel momento, a rappresentare questo aiuto, decido di intervenire come se fossi un ‘Compagno Adulto’ accompagnandola ad iscriversi ad un corso, fornendo un accudimento materno sufficientemente buono (Winnicott, 1974), capace di contenere l’ansia di non farcela.
La funzione trasformativa di un intervento di questo tipo non risiede nella capacità di restituire un pensiero, rinominare, correggere o interpretare, ma nell’ascolto empatico e nell’essere presente insieme, nel fare insieme condividendo una esperienza.
In un secondo momento si può agire la funzione di appoggio al funzionamento psichico, mettendo a disposizione il proprio funzionamento mentale nella condivisione dell’esperienza restituendola, per dirla bionianamente, rielaborata. Una sorta di rêverie (Bion W., 1962) che permetta di restituire i contenuti già digeriti, un modo di prestare la propria mente al ragazzo.
In altre parole, dopo aver vissuto insieme l’esperienza, e solo in virtù del fatto che l’esperienza è stata resa conoscibile al terapeuta (o all’operatore di Compagno Adulto) attraverso la condivisione, il terapeuta può rimandare al ragazzo la sua elaborazione dell’esperienza.
Il fine ultimo di un intervento del genere con un ragazzo a rischio non è quello di modificare il comportamento, riconosciuto sintomatico, ma di fare in modo che l’adolescente si renda conto della propria difficoltà su un piano di funzionamento mentale, permettendogli di sentirsi confermato, appoggiato, e sostenuto narcisisticamente, all’interno di una relazione affettiva.
Mi piacerebbe concludere ipotizzando che noi analisti che lavoriamo con l’adolescenza, e con l’adolescenza al limite, e che abbiamo acquisito nuove competenze e sperimentato nuovi procedimenti clinici, potremmo allestire ed utilizzare diversi setting interni.
Parafrasando T. Baldini, potremmo pensare di allestire una stanza psichica per il setting analitico classico, quello con la poltrona, vis à vis o sul divanetto, per gli adulti; poi una stanza, calda e accogliente, che può rappresentare lo spazio per gli adolescenti che «amano parlare e impostare la relazione di aiuto su un piano dialogico» (Baldini T., 2005, p.101); infine una stanza, grande e disordinata «senza quadri, con ai muri fogli scritti da ragazzi di oggi e di ieri» in cui gli «adolescenti più difficili, proprio in virtù di quella confusione, sentono uno spazio in cui la loro parte borderline può essere accolta» (Ibidem).
Note
- [1]Quando si parla di Compagno Adulto si intende un servizio nato intorno all’inizio degli anni ’80 all’interno dell’Istituto di Neuropsichiatria Infantile della Università ‘La Sapienza’ Di Roma, coordinato dal dottor Mauro Ferrara, neuropsichiatra infantile, dal confluire di due esperienze: il servizio di accoglienza e psicoterapia ad orientamento psicoanalitico indirizzato esclusivamente agli adolescenti, e un reparto psichiatrico di ricovero per adolescenti in crisi che, all’occorrenza, si riservava di attivare risorse esterne per i ragazzi ricoverati. Compagno Adulto è una definizione costruita, e a marchio registrato, dai suoi fondatori, tuttavia è di fatto usato per specificare un vero e proprio ruolo nell’aiuto all’adolescenza al limite, e così lo useremo in questo lavoro.
- [2]Per approfondire: Naumburg, M. (1966), Dynamically Oriented Art Therapy: Its Principles and Practice, Grune and Stratton, New York and London.
- [3] Per approfondire: Milner M. 1990, La follia rimossa delle persone sane, Borla, Roma; Milner M. 1974, Le mani del dio vivente, Armando, Roma.
Bibliografia
- Benasayag M, Schmit G. 2003, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano.
- Bolognini S. 2005, Il bar nel deserto. Simmetria e asimmetria nel trattamento di adolescenti difficili, in «Rivista di Psicoanalisi», , LI, 1.
- Carbone P. (a cura di) 2005, Adolescenze, Edizioni Magi, Roma.
- Di Benedetto P. 2003, La creatività nella stanza di analisi, Marion Milner 1900-1998, CLUEB, Bologna.
- Jung C.G. 1994, La dinamica dell’inconscio, in «OCGJ», vol. VIII, Bollati Boringhieri, Torino.
- Jung C.G. 1994, Gli archetipi e l’inconscio collettivo, in «OCGJ», vol. IX, Bollati Boringhieri, Torino.
- Hillman J. 2012, Il mito dell’analisi, Adelphi, Milano.
- Hillman J. 1988, Saggi sul puer, Raffaello Cortina Editore, Milano.
- Manciocchi M. 2012, Antigone e le trame della psiche. Mitologia e creatività in psicoterapia, Edizioni Magi, Roma.
- Manfrida G. 2009, Gli sms in psicoterapia, Antigone Edizioni, Torino.
- Mazzara G. 2008, Vite Urlate. Adolescenti e psicodramma, Franco Angeli, Milano.