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Recensione a: Enzo Vittorio Trapanese “Itinerari postjunghiani. Appunti per una psicologia della complessità”

Rivista annuale a cura del Centro Italiano di Psicologia Analitica Istituto di Roma e dell’Italia centrale

Invito alla Lettura

2016 Numero Extra Invito alla Lettura

A CURA DI FRANCESCO DI NUOVO E ROBERTO MANCIOCCHI La rubrica Invito alla lettura propone indicazioni in merito ai contributi più attuali e significativi della psicoterapia con uno sguardo attento agli attuali sviluppi del pensiero teorico; sarà ovviamente presente una forma di dialogo con la letteratura, la filosofia, le neuroscienze e le arti. La rubrica sarà, a seconda dei numeri, completata da una sezione di recensioni, nella quale alcuni psicoterapeuti commenteranno le più interessanti novità del panorama italiano e internazionale.

Recensione a: Enzo Vittorio Trapanese “Itinerari postjunghiani. Appunti per una psicologia della complessità”

Enzo Vittorio Trapanese, Itinerari postjunghiani. Appunti per una psicologia della complessità
La Biblioteca di Vivarium, Milano 2016

Non è facile presentare il libro del Professor Trapanese Itinerari postjunghiani che pone il lettore, già dall’interessante e significativo sottotitolo, Appunti per una psicologia della complessità, nella condizione di dover pensare in modo attivo e, appunto, complesso senza che possa attendersi ‘itinerari’ lineari e precostituiti.

Non è neanche facile scegliere un itinerario piuttosto che un altro nel tentativo di illustrare le moltissime sollecitazione che il libro propone.

Ne prenderò in esame alcune tralasciandone inevitabilmente altre, non perché meno importanti ma per mera mancanza di spazio.

La complessità menzionata si riferisce sia allo ‘statuto epistemologico’ junghiano nel suo presentare osservazioni e soluzioni molteplici e talvolta contraddittorie al suo interno sia alle nuove forme della società con cui i nuovi itinerari devono confrontarsi. Il tentativo è quello di mettere a confronto un corpus teorico che, sebbene «non può essere organizzato in un sistema teorico coerente […], ma appare piuttosto […] come un sistema asistematico di osservazioni ora approfondite e ora meno, quasi sempre originali […] e situabili in una zona di confine tra la psicologia propriamente detta e l’antropologia nel significato originario e tradizionale della parola» (Trevi 1987, pag 67), deve comunque tener conto delle rapide e radicali trasformazioni che la società ha conosciuto dopo la morte di Jung e che ha creato un tipo antropologico completamente diverso da quello che lo psichiatra zurighese aveva incontrato.

Pertanto l’autore ritiene interessante porsi la domanda: «Cosa direbbe oggi Jung se, come certe note figure bibliche, fosse un ultracentenario destinato a vivere ancora tanto tempo? Si ostinerebbe a ribadire le considerazioni di sessanta anni fa, o, piuttosto, modificherebbe le sue critiche e forse anche certe sue ‘trame’ teoriche?» (Trapanese 2016, pag 27).

Rispondere a questa domanda non ha alcun senso per ‘l’analisi testuale’ ma lo acquista «per le congetture che […] possono essere avanzate a partire dalla ineluttabilità della storicità di qualsiasi pensiero e qualsivoglia interpretazione, ossia dal fatto che la soggettività dell’interpretazione è ancorata ad esperienze di vita vissuta, nelle quali possono essere ovviamente incluse non solo quelle della vita di tutti i giorni (affetti, emozioni, azioni ecc), ma anche quelle che traggono origine da ciò che in un determinato contesto culturale, è stato possibile attingere sia attraverso le interazioni con altri soggetti, sia dalla lettura di testi della più disparata natura e dall’esposizione selettiva ai flussi della comunicazione della nostra epoca» (ibidem).

Quindi, sottolinea l’autore «devo precisare che in questo libro parlo soprattutto di tutto ciò che ho potuto trarre, per contagio, dalla frequentazione degli scritti junghiani, ma al contempo senza trascurare la prospettiva interpretativa che ho lentamente maturato nel corso degli ultimi decenni» (ibidem).

È un libro che si presenta come una riflessione ampia e talvolta critica rispetto alla enorme attività culturale e clinica dell’autore, preziosissima per chi ha in animo di avventurarsi nella vastissima e spesso caotica letteratura postjunghiana. Senza trascurare di approfondire l’aspetto sociologico – il Prof. Trapanese ha occupato a lungo la cattedra di Sociologia presso le Università di Urbino e della ‘Sapienza’ di Roma – ma anzi dedicando ampio spazio all’analisi delle nuove forme che la società moderna e post moderna presenta.

E affrontando i temi classici della ricerca junghiana non, come ammesso chiaramente dall’autore, in modo esaustivo, ma anzi operando una selezione che dipende, nel più ortodosso dettato di Jung, dalla struttura di personalità di chi scrive, riflette sulle tematiche che ritiene essere ancora attuali e incidenti sulle modalità di svolgere la psicoterapia nell’era moderna.

Il libro è strutturato in modo altamente didattico che lo rende particolarmente adatto ad essere letto sia come un’introduzione moderna ed approfondita alla lettura dei testi di Jung sia come una riflessione approfondita per chi ha frequentato in modo assiduo la letteratura junghiana.

L’esposizione è particolarmente attenta alla definizione di termini e concetti così che si ha sempre la sensazione di essere in un percorso conosciuto e nonostante la complessità dell’esposizione, non si perde mai la direzione del discorso né la rigorosità è a scapito della semplicità.

In particolare il metodo si evidenzia nei capitoli che riguardano la teoria di Jung che hanno per titolo «Il lascito junghiano», a sottolineare l’importanza di ciò che è ancora utilizzabile dell’immenso complesso degli scritti che ci sono pervenuti dall’iniziatore della psicologia analitica.

Nella prima parte vengono proposte alcune tematiche proprie del ‘giovane Jung’, la concezione della psiche cosciente e l’atteggiamento della coscienza con una chiara esposizione della tematica dei tipi psicologici. Concetti basilari per la comprensione della psiche cosciente ipotizzata da Jung sono quelli di: a) coscienza, b) Io, o complesso dell’Io, c) atteggiamento, d) tipo psicologico. Nello specifico «il tipo –afferma Jung– è un esempio o un modello che riproduce in modo peculiare il carattere di una specie o di una collettività [e, nel senso più ristretto della tipologia, è] un modello caratteristico di atteggiamento generale che ricorre in molte forme individuali» (ivi, p. 93).

Non trascurando di approfondire la relazione tra “«tipo e conoscenza psicologica» che «può essere pensata in almeno tre diversi modi, che chiamerò:

a) tesi epistemica, b) tesi ermeneutica, c) tesi intermedia» (ivi, p.96).

La tesi epistemica «rimanda alla soggettività ed alla storicità degli enunciati psicologici e, quindi, alla impossibilità di giungere ad un’interpretazione oggettiva dei fenomeni psichici o, quanto meno, di disporre di un punto di vista unitario. Dall’altro, sembrano in essa emergere con una certa frequenza convinzioni che (diversamente da altre affermazioni di segno opposto o relativistico) postulano come possibile il superamento dei fattori di natura soggettiva e storico-culturale che inquinano i costrutti psicologici e, dunque, l’idea di giungere ad un’osservazione neutrale, ad una descrizione obiettiva e ad una spiegazione altrettanto oggettiva della vita psichica» (pag. 98).

Secondo la tesi ermeneutica dovrebbe far parte delle scienze umane «nelle quali prevalgono la categoria della possibilità, il relativismo non ‘pirroniano’ e interpretazioni basate sull’idea che gli enunciati di volta in volta formulati possono pretendere di avere solo il valore di metafore perfettamente sostituibili da altre metafore» (pag. 99-100).

Nella tesi intermedia «la connessione tra tipo e teoria psicologica può anche essere concepita come un condizionamento del punto di vista soggettivo che non esclude la possibilità di giungere alla costruzione di enunciati che, pur non potendo pretendere di essere concepiti come ‘modelli legali’ della vita psichica, si prestano ad essere sottoposti ad un qualche criterio di valutazione tale da renderli preferibili ad altri enunciati» (pag. 100).

Nella seconda parte dedicata al lascito junghiano i temi affrontati sono quelli della maturità che hanno causato spesso dibattiti aspri e controversi, in particolare il concetto di inconscio collettivo e quello di archetipo come pure l’esposizione e la spiegazione del concetto di simbolo e di metafora che rappresentano secondo l’autore una delle più feconde intuizioni di Jung.

In questa fondamentale parte del lavoro si ripercorrono criticamente con riferimenti sempre puntuali e coerenti tutte le maggiori correnti di pensiero, in termini a volte contraddittori, che si sono interessati al tema.

L’inconscio collettivo «designa una disposizione germinale originaria e uniforme della psiche umana, sottostante alla psiche cosciente ed allo stesso inconscio personale. Essa includerebbe tutti i contenuti che non derivano affatto dalle acquisizioni personali, bensì dalle capacità funzionali che la psiche ha ereditato, ossia dalla struttura cerebrale ereditata, e costituirebbe ciò che dà senso  persino ai processi psichici consci. Da questa concezione radicale dell’inconscio prendono tuttavia le mosse almeno due ipotesi interpretative.

Per la prima, l’inconscio collettivo ed i suoi archetipi sarebbero i fondamenti ultimi dell’uomo biopsichico e le forze plasmatici dell’intera vita psichica.

Per la seconda, l’inconscio collettivo dovrebbe essere pensato come una categoria euristica utile a definire l’insieme dei contenuti rimossi per esigenze adattative, delle capacità funzionali inibite dallo sviluppo della personalità cosciente e, infine, degli elementi che formano lo sfondo opaco ‘della’ psiche, al quale rimanda ogni discorso ‘sulla” psiche’» (Trevi 1986, in Trapanese 2016, p. 117).

Nel capitolo dedicato al rapporto tra Jung e la modernità l’autore prende in esame innanzitutto lo studio della religione intesa come «[…] un insieme di credenze, riti, pratiche culturali, norme etiche, istituzioni ecclesiastiche che può essere analizzato, interpretato e spiegato indipendentemente dalle categorie del pensiero teologico e dalle convinzioni dei credenti, e si è manifestato con vigore già dalla ‘prima modernità’ e si è gradualmente sviluppato in diversi campi delle discipline umane» (ivi, p. 177).

Essa cioè negli ultimi tre secoli è stata considerata «un oggetto di indagine razionale e studiata da una vasta pluralità di punti di vista disciplinari e di paradigmi teorici» (ivi, p. 188).

Dopo aver valutato le teorie che si sono interessate all’argomento dal punto di vista storico e sociologico l’autore afferma che «al tempo ciclico e dell’eterno ritorno delle società arcaiche fondate sui racconti mitici delle origini e sulla loro attualizzazione attraverso il rito, al tempo lineare del cristianesimo, alla concezione rinascimentale del tempo prospettico, ma ancora legata alla visione cristiana, la modernità ha aggiunto l’idea di una temporalità propria della storia degli uomini e la visione di un progresso lineare verso il meglio, contraddistinto da una maggiore consapevolezza del carattere peculiare dei fenomeni religiosi, concepiti ora come testimonianze di uno stadio essenzialmente primitivo della civiltà ed ora come fenomeni non riducibili della cultura moderna, ma non per questo privi di una loro validità ontologica» (ivi, p. 182)

Ma è l’Illuminismo che ha assunto la Ragione «ad esclusivo tribunale della validità dei valori, credenze, costumi, abiti mentali, leggi e rapporti di potere che la tradizione postulava come ovvi o, per meglio dire, come inscritti interamente in un ordine di realtà voluto e progettato da Dio» (ivi, p. 184), ed ha gettato le basi per far emergere la soggettività considerata «un tratto basilare della modernità» ivi, p. 185).

E l’emergere della soggettività ha permesso di percepire la sensazione di vivere una profonda crisi sociale e morale che, pur essendo stata presente in tutte le epoche ha acquistato nella nostra una particolare accentuazione.

L’idea stesso di progresso, che aveva rappresentato una evoluzione lineare verso il meglio, ha finito per essere considerata portatrice di ‘pesanti costrizioni’ e sofferenze.

«Tenendo presenti le trasformazioni finora ricordate, una chiarificazione di alcuni dei presupposti che hanno ispirato le critiche mosse da Jung all’ordine moderno può essere offerta dall’analisi delle posizioni che egli ha assunto nei confronti di tre fenomeni socio-culturali connessi all’affermazione di tale ordine:

(1) l’istituzionalizzazione del mutamento ed il suo costituirsi a principio normativo della vita dell’uomo;

(2) la ‘mutazione antropologica’ ovvero le trasformazioni del rapporto individuo-società e, quindi, anche dei processi generativi dell’identità personale;

(3) la secolarizzazione (ivi, p. 187).

In particolare, secondo l’autore, il concetto di secolarizzazione ha assunto perlomeno quattro significati nell’ambito delle riflessioni sulle caratteristiche del mondo moderno:

«Per una prima accezione, esso designa ‘il processo di differenziazione della sfera religiosa dalle sfere secolari dell’economia, della scienza, del diritto, dell’arte, della politica’» (Rosati 2005, in ivi, p. 200).

Per una seconda concezione, indica «‘la privatizzazione delle credenze religiose e la loro estromissione dalla sfera pubblica’» (Rosati 2005, in ivi, p. 200).

Per la terza concezione si intende «il declino della religione, per alcuni destinata a scomparire completamente e, per altri, ormai costretta a sopravvivere stentatamente nella temperie culturale della tarda modernità» (ivi, p. 203).

Per la quarta e ultima concezione, può essere intesa come la trasposizione di credenze, riti, e bisogni dall’ambito religioso all’ambito profano con la creazione di religioni surrogate o di equivalenti funzionali della religione.

Il lavoro si conclude con un saggio sul tema della morte e si apre con un epigrafe che, ‘sarebbe stata condivisa da Jung’:

«Conosciamo tutti la morte  sotto l’aspetto di scheletro con la falce. Ma che cosa può conferire alla vita la sua dignità se non la morte? Che cosa deporremmo sull’altare della vita, nel suo cammino verso l’avvenire, se mancasse la morte? Tutto nella vita diverrebbe incolore, grigio, indifferente, insignificante; e la vita stessa non meriterebbe più di essere vissuta. […] La morte fa nascere la nozione di una vita; lo fa mettendo fine a questa vita» ( Minkowski 1933, in ivi, p. 329).

Jung nella sua opera ha presentato due visioni della morte. «La prima, prevalente nel corpus junghiano, si prefigge di cogliere i legami che unirebbero la trascendenza di tipo religioso a quella dell’inconscio collettivo e dei suoi archetipi. La seconda, deducibile dalle oscillazione meta-teoriche di Jung, affronta il tema della morte a partire dall’ipotesi per la quale la percezione del limite del cosciente esser-Io (e, quindi, del morire) può essere espressa solo in modo indiretto e mai esaustivo» (ivi, p. 330).

Queste visioni sono ispirate da altrettante concezioni che Jung presenta del disturbo psichico che «sembrano declinare verso un insieme di ‘ritratti’, intesi come rappresentazioni immaginali della vita psichica umana utilizzabili per ogni tempo ed ogni luogo, ora invece capaci di rimandare opacamente al processo psichico delle individualità psicologiche» (ibidem).

«Nella prima linea di ricerca sulla morte, la psicologizzazione del concetto di Dio rimanda soprattutto all’ipotesi di una Psiche oggettiva, impersonale astorica e pre-relazionale, consona al ‘modulo costruttivo’ di una psicologia altrettanto oggettiva ed assoluta, sostanzialmente appiattita sul modello delle scienze naturali e, ciò che forse più conta, intrisa di consistenti ‘residui platonici’. Opposto a questo modulo è quello della considerazione psicologica (Marozza 2005, in ivi, p. 331) che ispira le seconda linea di ricerca sulla morte desumibile dagli scritti junghiani e insita negli usi e nelle molte amplificazioni della metafora dell’Ombra» (ivi, pag 331).

Queste due concezioni, pur essendo inconciliabili, permettono una vera e propria donazione di senso dell’inconscio nei confronti del processo conscio e favoriscono  «la presa di coscienza dell’ineluttabilità di una parabola esistenziale la cui fine naturale o ‘spirituale’ è data dall’essere inscritta nel destino del vivente. Non a caso, l’Ombra, figura che include anche la morte, è intesa da Jung sia come uno degli archetipi del cosiddetto inconscio collettivo che la coscienza egoica tende a negare o a rimuovere, sia come metafora della prospettiva esistenziale che, rimandando allusivamente al morire, è pregna di significati (di prospettive) che sono di norma escluse dall’Io» (ibidem).

Jung si è occupato del tema della morte in numerosi scritti e in Anima e morte del 1934 afferma che: «non voler vivere e non voler morire sono la stessa cosa» e che «il senso della vita é dato dalla morte».

Nella stanza d’analisi il tema della morte occupa un posizione privilegiata  soprattutto nelle condizione depressive e si manifesta in tutte le sue manifestazioni emotive e relazionali. In queste occasioni, come anche quando ci troviamo di fronte al problema di ‘accompagnare alla morte’, il terapeuta deve non tanto ‘saper fare’ ma piuttosto ‘saper ascoltare’ e poter essere coinvolto nei vissuto del soggetto.

In conclusione si può dire che il libro del Prof. Trapanese sia una  delle pubblicazioni di maggiore interesse negli ultimi anni e che rappresenti una svolta anche nelle modalità della editoria di stampo postjunghiano, da studiare e non semplicemente leggere, che stimola nel lettore l’approfondimento delle innumerevoli suggestioni emergenti e dei diversi percorsi suggeriti. Si presenta pertanto non come un manuale statico ma come una dinamica riflessione su tutto ciò che di moderno ed attuale emerge dalla letteratura junghiana.


Bibliografia

  • Iapoce A., a cura di/ Edited by, (2013), Riflettere con Jung / Understanding Jung, Fattore Umano Edizioni, Roma.
  • Jung C.G. (1934b), Anima e morte, in OCGJ, vol. 8.
  • La Forgia M. (1995), L’epistemologia junghiana, in L. Aversa (a cura di), Fondamenti di psicologia analitica, Laterza, Roma-Bari, 1995.
  • La Forgia M., Marozza M.I. a cura di, (2008), La conoscenza sensibile, Moretti&Vitali, Bergamo.
  • Marozza M.I. (2015), Ritorno alla talking cure, Giovanni Fioriti Editore, Roma.
  • Minkowski E. (1933), Il tempo vissuto. Fenomenologia e psicopatologia, trad. it., Corriere della sera, Milano, 2011.
  • Trapanese E.V. (2006), Jung e la modernità, in AA.VV., La psiche nell’epoca della tecnica, Atti del tredicesimo Convegno nazionale del Centro Italiano di Psicologia Analitica, Vivarium, Milano 2006.
  • Trapanese E.V. (2008), Sfondi della psicoterapia analitica, in Atque. Materiali tra filosofia e psicoterapia, Nuova Serie, n. 5, «Fare e pensare in psicoterapia», Moretti&Vitali, Bergamo 2008.
  • Trevi M. (1987), Per uno junghismo critico, Bompiani, Milano.
  • Trevi M. (1995), Il problema del simbolo, in L. Aversa (a cura di), Fondamenti di psicologia analitica, Laterza, Bari 1995.

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