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Origini precoci della dipendenza e relazione analitica

Rivista annuale a cura del Centro Italiano di Psicologia Analitica Istituto di Roma e dell’Italia centrale

QCJ 2014

2014 Numero 3

Origini precoci della dipendenza e relazione analitica

Come psicologo che opera in un Servizio pubblico per le Dipendenze, e occupato nelle istituzioni da molti anni, ho sempre auspicato che gli operatori dei servizi e delle strutture socio-sanitarie potessero avvalersi dell’apporto della cultura psicoanalitica, in particolare dell’assetto emozionale proprio dell’ascolto analitico, rivolto al paziente e rivolto – con significato ed effetti forse più incisivi – alle risonanze e alle difficoltà vissute dall’operatore nel rapporto con i pazienti. Mi riferisco non solo allo psicoterapeuta, ma a qualunque figura coinvolta nella cura o assistenza di chi vive il disagio psichico. Penso che tutti conveniamo di quale valore culturale e diffusa sensibilità la comunità potrebbe dotarsi in virtù di un più vasto ricorso alla ‘cura d’anima’, accanto al tradizionale approccio di carattere farmacologico, ancora prevalente soprattutto in quei servizi deputati alla terapia di persone gravemente compromesse nel rapporto con la realtà e nelle relazioni interpersonali.

Per la verità, dobbiamo riconoscere che un certo cammino è stato fatto nell’acquisizione dei principi psicoanalitici, avviato dal grande contributo giunto dai Servizi per l’infanzia, dove l’operatore è abituato a privilegiare gli approcci relazionali, nel lavoro terapeutico individuale, in quello con i genitori, con i servizi educativi. Quei principi, quindi, si sono irradiati in qualche misura anche in coloro che trattano con l’adolescenza e l’età adulta: sono i principi dell’ascolto empatico, dell’accoglienza e dell’alleanza terapeutica, della sospensione del giudizio, e quello – pure ancora carente – della vigilanza interna rispetto ai processi di identificazione o di proiezione con il paziente e la sua famiglia.

Il nostro essere psicoanalisti impegnati nei contesti istituzionali ci distingue per una concezione della salute mentale e della cura della sofferenza psichica che pone al centro la relazione terapeutica, quale matrice della prassi clinico-trasformativa. Di fronte alle diverse forme di espressione del disagio psichico, colte anche grazie alle evoluzioni delle teorizzazioni, a loro volta influenzate dall’incontro di nuove popolazioni cliniche, si conferma sempre più evidente il fatto che quella matrice relazionale interviene nella formazione delle strutture psichiche e correlativamente ne permette il cambiamento profondo – nel rispetto non eccepibile per noi junghiani del ‘destino’ individuativo di ognuno. Tale prospettiva, da una parte, non assume come propri modelli il controllo o la correzione dei sintomi e dei comportamenti, modalità ancora operanti nel tradizionale approccio psichiatrico, da un’altra parte, trascende la parcellazione diagnostica dei disturbi, anch’essa emanazione di un’impostazione medicalista. Anche il paziente dipendente, tradizionalmente trascurato, quando non inviso all’intervento psicoanalitico, ci mostra come il metodo analitico accogliente, consapevole e modulante le delicate dinamiche interazionali possa giovare al cambiamento del suo stato psichico. Il mio approccio terapeutico, in particolare, non è modificato dal tipo di disturbo o dai diversi sintomi dei pazienti, se non nella necessità di individuare la precocità dell’insorgenza del danno e le sue primitive dinamiche al fine di modulare al meglio il mio assetto, fungendo da sostanza primaria, nella relazione analitica. La condizione necessaria alle possibilità trasformative sta come sempre nella consapevolezza del paziente del suo dolore psichico e nella richiesta di aiuto, diretta o espressa con azioni eloquenti. Avviene pure che, sebbene inizialmente egli non immagini il legame potenziale tra la sua sofferenza e il sostrato psichico da cui emana, acceda – grazie a una sua disponibilità inconscia combinata con l’incontro analitico appropriato – alla possibilità di riconoscerlo e volerlo affrontare.

Aggiungiamo, per ribadire ancora la nostra specificità e sottolineare il valore del nostro contributo di analisti, che il nostro modello – unico nel proporre una teoria dello sviluppo che attualmente le stesse ricerche sperimentali confermano solidamente – ci permette di correlare, proprio per quel che riguarda il dispiegamento delle vicende relazionali, la psicopatologia dell’adulto allo svolgimento delle esperienze precoci.

Il confronto con stati psichici a rischio, patologie gravi, psicosi, dipendenze, fratture gravi del tessuto psichico ha richiesto negli ultimi decenni nuove costruzioni clinico-concettuali, pur nel solco scavato già da molto tempo soprattutto dai teorici dei processi di sviluppo dell’età evolutiva. Psicopatologia dello sviluppo, tematiche del trauma, pluralità dei sistemi di memoria, meccanismi di difesa precoci, come scissione e diniego, sono i temi che ricorrono quando la clinica analitica é posta di fronte alla sofferenza psichica di quelle fenomenologie patologiche. Tutti questi temi sono riconducibili a un clima generale di cambiamento delle linee teoriche esplicative dello psichismo che prende in maggiore considerazione le influenze ambientali a partire dalle anticipazioni di Ferenczi sull’origine eteroindotta del trauma, per proseguire con i contributi di Winnicott e le successive ricerche sull’interazione madre-bambino. La teoria delle relazioni oggettuali che ne è seguita e la teoria del , dell’Infant research, dell’attaccamento, della trasmissione transgenerazionale, delle neuroscienze (queste ultime da una prospettiva diversa) hanno pertanto delineato un paradigma complesso della psicopatologia dello sviluppo.

Tali temi presuppongono un’idea di inconscio nel quale sono inscritte esperienze non rimosse secondariamente. In ambito freudiano si parla finalmente di ‘inconscio non rimosso’, di contenuti strutturatisi nelle profondità dell’inconscio in epoca preverbale e presimbolica, i quali non esprimono quindi conflitti interni tra pulsioni e competenze emergenti dell’io. Anche la psicoanalisi freudiana, quindi, estende l’inconscio e i suoi contenuti verso gli aspetti primitivi e primari della formazione psichica, le esperienze sensoriali e corporee precoci, l’unità corpo-mente. Forse, anche questo è un segnale di una ridotta distanza con la concezione junghiana dell’inconscio, da sempre consapevole della infinita vastità, complessità e preesistenza del ‘mondo infero’. Quei nuovi orizzonti e studi comunque hanno permesso di capire meglio e in profondità esiti psicopatologici come i processi dissociativi nelle psicosi e negli stati traumatici, i quadri narcisistici e borderline, i disturbi alimentari, le dipendenze e le tossicomanie.

Quanto a queste ultime, dipendenze e tossicomanie, di cui qui ci occupiamo, ricordo che il primo termine, dipendenze, pur comprendendo una serie di comportamenti e di sintomi più esteso ma al contempo più centrato nel circoscrivere l’economia psichica che li sottende, si è affermato molto più di recente rispetto al termine tossicodipendenza o tossicomania. Sono d’accordo con Joyce McDougall che quest’ultima terminologia, in francese nel suo caso, come in italiano nel nostro, che significa alla lettera “folle desiderio di veleno”, sembra motivare qualsiasi tensione psichica di dipendenza come una tendenza masochistica a intossicarsi. Senza escludere che un elemento caratterizzante le compulsioni da dipendenza risieda in una spinta autolesiva, la dimensione dominante che osservo nella mia esperienza clinica si configura in un tentativo paradossale di autocura come risposta a una preesistente sofferenza psichica esordita nell’infanzia. Svilupperò più avanti questo argomento. Vorrei dapprima allargare lo sguardo, accennando a quegli orientamenti di indagine attenti alle vicende iniziali dello sviluppo come condizioni della psicopatologia dell’adulto, giacché a mio parere da essi non si può prescindere per intendere di questa gli esordi e l’evoluzione.

Tradizionalmente, in particolare da Winnicott, da Bion e generalmente dalla scuola britannica, le esperienze di comprensione, contenimento e rispecchiamento da parte delle figure primarie nei periodi precoci della vita sono state collegate alla possibilità di acquisire e maturare la capacità di modulare gli affetti e di pensarli. Le sensazioni e le emozioni primitive del bambino, contenute, ossia ricevute, condivise e trasformate dalla madre in affetti significativi, in elaborazioni affettive e cognitive, conducono il lattante e poi il bambino a interiorizzare un’attività autoregolatrice indipendente, legata a oggetti del mondo esterno, i noti oggetti transizionali, che mantengono l’illusione diadica con la madre e insieme consentono il graduale accesso alla fiducia nel mondo, all’immaginazione, alla creatività, alla simbolizzazione.

Quando invece le condizioni ambientali non rispecchiano, elaborandole, le manifestazioni spontanee, i bisogni, le paure del bambino, e per di più quando sono attribuiti a lui sensazioni, emozioni, funzioni o compiti alieni, ciò porta a strutturare legami interni ed esterni patologici, piuttosto che favorire un sano sviluppo affettivo, cognitivo e relazionale. Questi bambini sono perciò indotti ad affidarsi per la loro regolazione a comportamenti protodifensivi, con i quali tentano di evitare la registrazione e la ripetizione degli affetti dolorosi, e a ricorrere ad attività autosensoriali o a oggetti di sensazione, tutte modalità primitive di regolazione affettiva che riflettono un livello presimbolico di organizzazione emotiva. Tutto ciò viene a costituire la memoria arcaica delle esperienze che si inscrivono precocemente nell’inconscio e giungono a costituire la matrice della struttura psichica.

L’esperienza lascia dunque una traccia. Freud parlò di traccia mnestica, e le neuroscienze convergono attualmente sulla concezione che le emozioni sono memorizzate nei circuiti neuronali indipendentemente dalla consapevolezza conscia, depositate su di un livello inconscio molto più arcaico e profondo, percepite ed elaborate inconsapevolmente, con un’enfasi posta sulle funzioni automatiche della mente. Rispetto a tale impostazione, la psicoanalisi non rinuncia alla propria specificità che consiste nell’approfondire tali luoghi e forme di inscrizione inconscia allorché derivano da modulazioni affettive deleterie, da difese primitive adottate per fronteggiare l’angoscia, le quali trovano una loro prima articolazione simbolica nelle rappresentazioni oniriche, negli agiti, nell’identificazione proiettiva e infine nel transfert, nel quale pertanto possono ripararsi – nella varia accezione di questo termine.

L’attenzione crescente rivolta alla formazione delle strutture psichiche, grazie all’incontro della psicoanalisi con le patologie gravi che hanno ampliato il valore attribuito all’affetto nel processo terapeutico, porta a un convergere degli orientamenti tale da delineare un’area dell’inconscio, nella quale una memoria definita variamente implicita, procedurale, emotiva, trattiene la componente emotiva delle esperienze precoci disturbate e la riattualizza costantemente fuori dal contesto originario e dalla consapevolezza. Essa risulta perciò relativamente inestinguibile fissando lo schema invariante della relazione affettiva con se stessi e con gli altri. E’ distinta dal sistema di memoria esplicita o narrativa o dichiarativa, la cui maturazione è successiva e consente l’attivazione di ricordi molto più dipendenti dal contesto interno ed esterno, che possono essere richiamati in maniera cosciente e verbalizzati, dichiarati appunto. Le memorie procedurali si esprimono, invece, non a parole ma nell’azione, nell’esecuzione automatica della procedura, ossia della trascrizione delle esperienze di modulazione affettiva tra sé e l’altro da sé, apprese in epoca preverbale. Il nesso con il tema junghiano di ‘complesso autonomo a tonalità affettiva’ è evidente, nei suoi tratti distintivi di autonomia dal conscio e di affettività implicata. Ci è pure utile a questo proposito la definizione di Bollas di inconscio primario, il conosciuto non pensato, che indica proprio quelle procedure non pensate, ma consolidatesi nel modo di essere e di mettersi in rapporto, derivate dall’incontro del vero sé del bambino con l’idioma di cure del caregiver.

Tale sistema di memoria implicita nel quale è trattenuto il ricordo emotivo dell’esperienza ha assunto un’importanza crescente con lo studio degli effetti delle esperienze traumatiche. Dopo il prolungato abbandono – durato decenni – del problema dell’abuso al bambino come evento realmente avvenuto in favore delle fantasie di seduzione (un’eccezione era data, vivente Freud, dal lavoro di Sandor Ferenczi, che però venne osteggiato), almeno da un paio di decenni l’orientamento sul tema del trauma è decisamente cambiato, se è vero che si assiste ripetutamente a una miriade di pubblicazioni attinenti. Uno dei motivi di questo nuovo preciso ruolo patogeno assegnato al trauma infantile nello sviluppo psichico disadattivo – inteso  nel senso di microtraumi continuamente ripetuti, il trauma cumulativo di Masud Khan – risiede senz’altro nell’importanza che le teorie relazionali hanno sin dagli inizi attribuito ad altre difese rispetto alla rimozione, che per decenni ha costituito in ambito freudiano il ponte esclusivo con l’inconscio, il meccanismo che seppelliva i ricordi nell’inconscio stesso, inteso quest’ultimo come il luogo ove i contenuti spiacevoli, i desideri incoffessabili o gli istinti primitivi erano depositati. Ma l’inconscio – Jung ce lo insegna – non si esaurisce nel rimosso. Assegnare un maggior ruolo ad altre difese, come la scissione, il diniego e l’identificazione proiettiva, essi stessi meccanismi inconsci, ha spostato l’interesse clinico sul preedipico piuttosto che sull’edipico, sui disordini narcisistici e borderline piuttosto che sulle classiche nevrosi. Con l’identificazione proiettiva, ma già con il concetto junghiano di infezione inconscia, poco sviluppato dai continuatori, il concetto di inconscio si estende più che mai al campo bi-personale: la proiezione agisce, sia pur differentemente, sia sul soggetto che proietta sia sull’oggetto che riceve la proiezione.

Queste ricerche tendono ad appurare che, contrariamente alle credenze a lungo diffuse, l’esperienza degli stati mentali non avviene in virtù di una intrinseca maturazione, né per imitazione di altre menti; essa si acquisisce lungo un processo nel quale è necessaria una sufficiente interazione con adulti abbastanza amorevoli. Gli stessi archetipi per declinarsi nell’anima individuale hanno necessità di incontrare la storia, gli oggetti reali. Noi analisti ci occupiamo di persone che si sono sentite private di un accudimento amoroso e rispettoso della loro autenticità. Il loro diritto di essere se stessi è stato alienato per la mancanza o la carenza di un ambiente capace di trasmettere affetti e facilitare l’acquisizione di capacità vitali, che è alla base di successive modalità patologiche di contenere gli affetti. Essi sono stati  chiamati da P. Heimann “spoilt children”, ‘bambini guastati’, nei quali – citiamo F. Borgogno che riprende in un bell’articolo quell’immagine – «non soltanto vengono posti proiettivamente delle esigenze, dei desideri che non sono loro, ma da cui vengono estratte aree di espressività e di esistenza. L’evoluzione, che per diritto naturale spetterebbe a ogni essere, viene così del tutto o in parte impedita o bloccata: il bambino risulta infatti espropriato di qualcosa di suo e di specifico, trovandosi depositato internamente qualcosa di alieno ed estraneo, che proviene dai genitori», (Borgogno F., 1999, p. 101). Il sentimento di fusione che la madre-ambiente di Winnicott vive con il figlio nelle prime settimane di vita di quest’ultimo, quando si protrae oltre tale periodo, il più delle volte induce in vario modo patologia e dipendenza e la tendenza del neonato a conformarsi a tutto quel che su di lui viene proiettato. Investito narcisisticamente, egli funge da palliativo ai bisogni inappagati e alle paure che abitano il mondo interno degli adulti i quali lo forzano ad assumere un processo identificatorio per molti versi estraneo a lui. Spesso viene sottratta un’area sostanziale di sviluppo, perché è venuta a mancare quella necessaria esperienza affettiva e provvidente  che permette l’accesso alla pensabilità e a relazioni mutualmente soddisfacenti.

E’ ben evidente che nel bambino gli esiti psicopatologici al problema della separazione sono disparati. Naturalmente la soluzione finale non è necessariamente una economia psichica dipendente. Che cosa possiamo ipotizzare, allora, alle origini della soluzione-dipendenza? Torniamo a Winnicott, al concetto di spazio transazionale  e di oggetti transizionali, attraverso i quali egli ci ha fornito uno straordinario strumento per intendere i processi psichici che testimoniano la capacità del bambino di emergere dall’assoluta dipendenza in vista della propria autonomia. Come abbiamo visto, la madre, rispondendo in maniera sollecita e sintonica ai bisogni del neonato evita a lui la percezione precoce dell’alterità e della separazione; in altre parole, sostiene la sua illusione di essere lui l’artefice del suo soddisfacimento, gli permette di organizzare un campo potenziale, un’area transizionale in grado di dar significato agli stati sensoriali che egli vive immediatamente così da infondergli la fiducia nel fronteggiare la realtà in modo personale e creativo. La mancanza di tali accudimenti da parte dell’ambiente rende lo stato affettivo preda di angosce impensabili e lascia cadere nel vuoto la necessità di strutturare i rappresentanti psichici degli stati sensoriali. In questa modalità non c’è posto per la separazione, non si può accettare una distanza tra sé e l’oggetto, non può esordire la simbolizzazione, la “capacità di essere solo” in presenza della madre, che anticipa a sua volta la capacità adulta di essere solo e di stabilire nuove relazioni.

Per difendersi dal caos, dovuto alla mancata attribuzione di significato amorevole e vitale alle proprie sensazioni ed emozioni, offerta in stadi precocissimi con una semantica prelinguistica, si fisserà nell’individuo una richiesta tributaria alla realtà esterna, caratterizzata da una modalità difensiva arcaica fondata sul bisogno. Qui troviamo una prima risposta alle domande: “Quali sono le fonti della dipendenza come soluzione al disagio mentale?” e “Perché si scelgono tali deleteri strumenti per affrontare le esperienze emotive?”. La soluzione-dipendenza è fondamentalmente una risposta a un preesistente dolore psichico, originatosi quasi sempre nell’infanzia, e talvolta nell’adolescenza; dunque, come tutti i sintomi psicologici, rappresenta un tentativo di autocura di fronte a uno stress psichico conscio o inconscio. E’ una soluzione essenzialmente psicosomatica, piuttosto che psichica, in quanto espelle proprio la parte psichica dell’emozione ed esprime quella fisiologica come nella prima infanzia: è l’azione difatti a essere utilizzata come difesa contro il dolore mentale. Tutti noi quando siamo stressati scarichiamo le nostre tensioni nell’azione: mangiamo, beviamo, fumiamo di più. Ma può dirsi dipendente chi fa questo con continuità e in preda a una compulsività che lo sottomette.

Coscientemente l’aspirazione di una persona dipendente, è la ricerca del piacere, sia essa espressa nella forma di abuso di droghe, di alcolismo, bulimia, tabagismo, gioco o sesso-dipendenza. I fini raggiunti procurano rapidamente un senso di benessere, anche quando l’individuo può sentire di esserne schiavo. E possono rappresentare a un grado estremo gli unici scopi in grado di dare senso alla vita. Ciò proviene dal fatto che gli atti dipendenti permettono di dissipare in tempi quasi immediati ogni senso di ansia, depressione, rabbia, ecc., quindi illudono, ripetendoli, di attenuare gran parte delle esperienze angoscianti.

Possiamo collegare questi stati affettivi a quelli di un bambino che non è stato messo in grado di stabilire una rappresentazione interna di figura materna (e successivamente paterna) facilitante la sua capacità di contenere la pena psichica o gli stati di ipereccitazione. Più verosimilmente in questi pazienti la figura di accudimento, a causa delle proprie angosce o della propria dipendenza affettiva o dei propri sintomi anaffettivi, ha instillato in età precoce un costante stato emotivo di dipendenza, una procedura implicita in grado di fissarsi e permanere al di fuori del contesto di quella relazione. Un bambino impossibilitato a introiettare una funzione di lenimento e premure per se stesso, in momenti di tensione interna o esterna, anche da adulto, cercherà inevitabilmente la soluzione nel mondo esterno.

Così le droghe, l’alcol, il tabacco, il cibo, il lavoro e così via vengono scoperti come oggetti ansiolitici, svolgendo quella funzione materna che l’individuo non è in grado di offrire a se stesso. Possiamo vedere che questi oggetti di dipendenza assumono lo stesso ruolo degli oggetti transizionali dell’infanzia, che se incontrati avrebbero permesso di liberare il bambino dalla totale dipendenza materna e di fargli assumere risorse autonome, magari con l’ausilio di una terza figura, il padre, che nell’osservazione clinica risulta, invece, spesso assente, concentrato sulla sua attività di lavoro, oppure inconsistente, quando addirittura non incestuoso o dipendente lui stesso. Tuttavia, a differenza degli oggetti transizionali, le sostanze e gli atti ripetitivi della dipendenza, al di là di rappresentare inconsciamente il tentativo da parte di chi vi ricorre di rendersi autonomi nella cura di sé, falliscono perché tutt’al più placano l’emozione su un piano somatico, ma non hanno cura del piano psichico: il sollievo è solo temporaneo mentre manca l’elaborazione interna di autocura, di significazione, di acquisizione di risorse più evolute. Poiché la deprivazione del mondo psichico interno non può essere colmata da sostanze od oggetti provvisori e artificiali, inevitabilmente il comportamento dipendente acquista una dimensione compulsiva.

Come si può modificare l’energia non simbolizzata in energia trasformabile in significato? Come è possibile un innesto di potenzialità simboliche e rappresentative nell’edificio che ne è stato soprattutto deprivato? Quando un minimo di capacità simbolizzanti è mantenuto quell’obiettivo è raggiungibile col metodo e il setting psicoanalitico. Qui l’analizzando può rivivere, entro una dimensione relazionale del tutto particolare, le precondizioni della simbolizzazione, che le interazioni precoci non gratificarono. Il setting analitico, infatti, con i suoi elementi di continuità, ritmicità, regolarità e immodificabilità, analoghi alle cure materne, quando sono accompagnati da un ascolto attento e partecipe e da un accurato dosaggio della parola interpretativa, è un potente apparato di simbolizzazione. La possibilità di vivere soggettivamente l’esperienza e di potersene appropriare viene perseguita attraverso lo sviluppo di quei processi transizionali che la situazione analitica sa ricreare, sia colmando le carenze ereditate dalla originaria funzione di rispecchiamento-significazione materna, sia per l’accesso del paziente al registro metaforico del paterno, che il sistema di regole del setting veicola con sé.

Tuttavia con i pazienti che abbiamo descritto, che hanno subito una tale ferita narcisistica da spingerli a disinvestire (o sovrainvestire) l’oggetto primario, che non hanno potuto interiorizzare una madre-ambiente  che contiene psichicamente e usa le emozioni per comprendere, la nostra tradizionale identità analitica è a rischio. Il rischio è che l’analisi perda le caratteristiche di lavoro sulla rappresentazione, essendo alterato nel paziente l’apparato mentale capace di simbolizzare le emozioni, di utilizzare la funzione del pensiero, di introiettare le percezioni: le difese arcaiche che si innestano su tale sistema, gli stati maniacali, dipendenti, paranoidi incidono ulteriormente sulla capacità di autoosservazione e sulla consapevolezza dei propri processi emotivi.

Talune condizioni estreme, in cui è degradato perfino l’interdetto della regola sociale, e dove il paziente ha scarsa capacità di tollerare nel setting classico l’assenza del curante negli intervalli delle sedute, unita alla insufficiente possibilità dell’analista di tollerare nel paziente il deficit delle risorse simboliche, suggeriscono, inevitabilmente, l’esigenza di affidarsi a una situazione stabile e sicura che può essere esaudita ricorrendo a dispositivi terapeutici comunitari, dove l’intero contesto istituzionale è deputato ad assumere la funzione di setting, di protezione e ristrutturazione dell’area simbiotica.

In ogni caso, all’origine della cura è di grande utilità distinguere due livelli dell’apparato psichico e della relazione analitica. Il primo analista a concettualizzarli in modo sistematico fu  Balint che enfatizzò il livello arcaico, meno strutturato, il cd. difetto di base e lo riconobbe come essenzialmente diverso dal livello più maturo, edipico, o a base nevrotica. Il primo è pre-rappresentativo, presimbolico, caratterizzato dal primato dell’affettività sulla rappresentazione, appartenente all’area fusionale, sensoriale, contiguo-autistica di Ogden. Con un paziente il cui disturbo si colloca in questo piano, le cui richieste attengono a livelli asimbolici dello psichismo, all’area dell’identificazione primaria e all’annessione totale fra sé e l’altro, se interveniamo con l’interpretazione, privilegiando i contenuti, sia pure impliciti, delle sue parole, affrettiamo, vanificandola, la differenziazione tra l’apparato psichico dell’analista e il suo, e impediamo soprattutto a lui la possibilità di elaborare per sé con i tempi che egli richiede quella consistenza e continuità che può acquisire grazie al contenitore analitico. Anche astenendosi dalla interpretazione verbale, comunque permane il lavoro di silenziosa elaborazione dell’analista, che mira a capire le radici della sofferenza del paziente e a ricostruire una sua plausibile storia. Per chi è stato carente di holding primario e, quindi, non può accettare che la propria esperienza interna sia distinta dalla realtà esterna, se stesso dall’oggetto-sé, rendere cosciente l’esperienza inconscia può risultare molto destabilizzante. Nei casi migliori le interpretazioni non suscitano i cambiamenti auspicati, e se non ne prendiamo atto e non correggiamo la prassi analitica in direzione di un livello più ‘basale’ la cura analitica è destinata al fallimento.

Quali tracce e segni psichici possiamo considerare allora per comprendere i significati non rappresentati del paziente nell’ambito privilegiato della relazione transferale? Come è possibile facilitare la capacità di reverie dell’analista e il suo effetto germinativo sulla capacità di reverie del paziente, quel processo di rinascita che lega sensazione, emozione e pensiero simbolico? Qui entrano in gioco probabilmente anche sensibilità, intuizioni, attitudini personali del singolo analista. Quindi, preferisco riferire, per quanto è possibile trattandosi di piani comunicativi non  prevalentemente verbali, la mia personale esperienza. Io centro l’attenzione su quelle qualità espressive che giungono sia dall’organo del linguaggio, il timbro di voce, il suono, sia dai diversi movimenti del respiro, come dalle improvvise, varie espressioni mimiche: mi focalizzo su quel che è, per così dire, incarnato nel corpo, eppure animato, palpitante. Questo livello translinguistico è quello che mi avvicina all’affetto del paziente, all’emozione non contenuta, quindi non simbolizzata.

D’altra parte, è un livello translinguistico anche quello in cui i pazienti ci dicono molte cose per non dire nulla, per non rivelare – neppure a se stessi – ciò che si cela dietro le loro verbalizzazioni, o che parlano per tenere a distanza l’analista, almeno quando questi differenzia e separa. Questa comunicazione non è veramente simbolica, le parole sono usate in luogo dell’azione, in fondo – come per tutti in certe circostanze – servono per conservare un contatto, essere parte, in comune con l’altra persona. E’ un parlare che possiamo associare al gridare, al vociare, all’urlare o brontolare, che intende scaricare emozioni, indurre stati d’animo, condividere una sofferenza, collegata a situazioni traumatiche infantili, non in grado di essere pensata.

Vedo tutte queste manifestazioni tendere alla diffusione, alla pervasività, alla scarica corporea, all’agito. Come tali esse riescono più a provocare un disturbo della comunicazione che a favorirla con i prevedibili mezzi linguistici. Testimoniano un conflitto, sia interiore che nella interazione. Senza dubbio, testimoniano di un complesso psichico preesistente. Ma tale complesso viene attualizzato nel qui ed ora di questa relazione, nella quale è presente e attivo anche l’altro, l’analista, su cui si proietta ma non solo, dall’incontro con la cui realtà conscia e inconscia vengono sollecitate anche quelle aeree sofferenti non dispiegate nel proprio flusso vitale. L’attivazione della reverie permette però di rendere l’esperienza inconscia oggetto di riflessione. Per dirla con Winnicott «lo stato non integrato[ …] va perduto se non viene osservato e rispecchiato da qualcuno cui viene concessa fiducia e risponde alla dipendenza.» (Winnicott D., 1971, p.112). Dunque, hanno valore come oggetti analitici non solo i significanti linguistici, ma tutto quel che rimanda direttamente al corpo, che esprime nel suo modo quel quantum di affetto che non è stato contenuto e rappresentato in parole significate, e perciò tende all’accumulazione, alla diffusione, alla scarica corporea. Proprio quel che nel paziente appare confuso, indistinto, o appena abbozzato, ha maggiore bisogno di acquistare senso, attraverso la sensibilità di un altro, recettivo a tutti gli aspetti sensoriali della relazione. Non si tratta tanto di contenuti da svelare, ancor meno da parte di un altro supposto potente e sapiente, quanto riconoscere che c’è un contenuto virtuale, mai vissuto, nel rispetto del quale favorire potenzialità espressiva e simbolica mediante una disposizione devota e amorevole. Balint – che insieme a Winnicott rappresenta, a mio avviso, per questi temi un ‘apripista’ da cui tutte le teorizzazioni successive derivano – suggerisce di concedere al paziente di regredire fino alla situazione, cioè fino alla particolare forma di rapporto oggettuale, che ha causato l’originario stato di deficit. Solo in seguito il paziente potrà ricominciare, cioè sviluppare nuovi modelli di rapporto, meno difensivi, più adattivi e appaganti. Come favorisce l’analista questa regressione terapeutica? Evitando di porsi come oggetto separato dai contorni netti o a comportarsi come tale, badando piuttosto a offrirsi come se fosse la sostanza primaria, la cui funzione principale è di riconoscere il paziente e di stare dalla sua parte, sviluppando un rapporto di fiducia primitivo e mantenendo il paziente in una pace imperturbata finché egli non sia in grado di scoprire e sperimentare nuove forme di rapporto. Così pure, d’altro canto, l’analista ha cura di non apparire agli occhi di lui, onnipotente, informato di ogni cosa e onnipresente, colui che ha il potere di esprimere tutto correttamente in parole: ciò forzerebbe il paziente a regredire malignamente in una dimensione di invidia, oppure di dipendenza, fatta di richieste da soddisfare e impossibilità di evolvere.

Insomma, l’analista ha il compito di predisporre e mantenere il clima emotivo che permetta al paziente l’espressione delle proprie possibilità e necessità. Tale assetto consente, in più, di osservare le comunicazioni inconsce del paziente, di operare una ricognizione delle sue relazioni interne e di come sono espresse nella interazione con l’analista, di comprendere le influenze reciproche al fine di regolare sempre meglio l’ambiente alle problematiche esistenti. Ciò mostra al paziente il modo in cui l’analista le fronteggia, sì che egli può gradualmente affidarsi a vivere esperienze diverse da quelle fino allora vissute grazie alla risposta differente che l’analista dà.

Due immagini, estratte dagli scritti di Winnicott e di Balint, sintetizzano magnificamente quel che stiamo esponendo.

Winnicott scrive in un articolo famoso del 1969, quindi al culmine della sua maturità, queste parole: «Mi sgomenta pensare alla quantità di cambiamento profondo che io ho impedito o ritardato, in pazienti che appartengono a una certa categoria di classificazione, a causa del mio personale bisogno di interpretare. Se soltanto sappiamo aspettare, il paziente arriva a capire in maniera creativa e con gioia immensa, e ora io godo di questa gioia più di quanto fossi solito godere della sensazione di essere stato intelligente.» (Winnicott D., 1971, p.152).

Balint ci avverte così: «L’analista deve essere disposto a sostenere il paziente non in modo attivo, ma come l’acqua sostiene il nuotatore e la terra chi cammina: deve “essere lì” per il paziente, pronto a venire utilizzato senza opporre troppa resistenza. A dire il vero, una certa resistenza non solo è permessa, ma è indispensabile. Tuttavia l’analista deve badare che la sua resistenza crei quel tanto di contrasto necessario perché il trattamento progredisca, ma assolutamente non di più […].  L’analista deve soprattutto essere presente, esserci sempre, e deve essere indistruttibile, come l’acqua e la terra.» (Balint M. e E, 1995, p. 295)

La condizione umana comprende nella sua essenzialità la dipendenza: dall’universo simbiotico degli inizi – che ci fa attraversare, come ricordava Neumann, un periodo embrionale post-uterino dopo quello intra-uterino – fino a giungere alle nostre disparate appartenenze, non esclusa quella (di noi analisti) nei confronti di una definita identità psicoanalitica, non possiamo fare a meno di vivere in una serie di dipendenze. Chi però delle dipendenze è vittima, è impegnato in una immensa sfida alla universale limitatezza e sudditanza umana; per essi andare verso il Sé e la ricerca della completezza si configura come annullamento, negazione del conflitto evolutivo. Ma avviene il momento della crisi dell’onnipotenza e alcune di queste vittime si rivolgono con coraggio a noi per dare un senso alle angosce primitive e trasformarle in esperienza di conoscenza, di possibilità d’amore, in una parola di rinascita di sé.


Bibliografia

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