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Nel ricordo di quale amore?

Rivista annuale a cura del Centro Italiano di Psicologia Analitica Istituto di Roma e dell’Italia centrale

A tema

2020 Nuova Serie Numero 1 A Tema

A CURA DELLA REDAZIONE Se si dovesse sintetizzare in cosa si esprime l’essenza e lo specifico dell’attività di cura della psiche, si potrebbe riassumerla nel suo continuo ‘stare tra’: Logos ed Eros, esperienza della relazione e possibilità di riflessione, pratica clinica e teoria. La rubrica a tema si pone come uno spazio di confronto, di espressione ed elaborazione di tutte le tematiche che partendo dalla pratica clinica evolvono in visioni della psiche, favorendo la possibilità di mantenere continuamente viva una sospensione che si interroga.

Nel ricordo di quale amore?

La mia riflessione nasce dalla clinica che permea il lavoro analitico e si palesa con la difficoltà da parte di alcuni pazienti a instaurare una relazione amorosa più o meno stabile con l’altro sesso. Si nota come l’età avanzata sia il campanello d’allarme di qualcosa che non riesce ad evolversi, che rimane bloccato in una giovinezza ʽnon più tanto giovaneʼ. Mi riferisco alla fascia d’età di pazienti tra i 35-40 anni, una fascia in cui si incontrano ormai ʽgiovani adultiʼ, adolescenti adultomorfi, che si ritrovano confusi tra età anagrafica ed età psichica.

Sembrerebbe quindi essere un difetto relazionale a portare lì dove la relazione cura, cosicché la diade terapeutica possa diventare un’occasione ulteriore di mettere in relazione il sociale e l’individuale, l’individuale e il collettivo, il collettivo e l’intrapsichico, traducendo quella che sembrerebbe essere una domanda esterna in una domanda interna. È così che la stanza d’analisi si ritrova ad accogliere la forma nevrotica di uno spirito del tempo che porta l’Eros o ʽsui palcosceniciʼ o su forme di ripiegamento narcisistico che non facilitano la visione dell’Altro. La modalità istrionica e quella narcisistica diventano la manifestazione di una forma di inautenticità che non permette di conoscere la propria reale natura (di conseguenza la natura dell’Altro). Scrive Jung riguardo lo spirito del tempo e lo spirito del profondo:

«Ho imparato che, oltre allo spirito di questo tempo, è all’opera anche un altro spirito, e cioè quello che governa la profondità di ogni presente […] Ma non consideravo che lo spirito del profondo, da tempo immemorabile e per ogni avvenire, possiede un potere più grande dello spirito di questo tempo, che muta con le generazioni» (Jung 1913-1930)

Potremmo quindi dire che l’impegno analitico si traduce nel trascendere lo spirito del tempo per contattare lo spirito del profondo?

A tal proposito vorrei portare sotto la lente di ingrandimento quel momento in cui si affaccia la possibilità di abbandonare una parte conosciuta di sé per avvicinarsi ad un qualcosa di sconosciuto, quindi all’Altro, al non-Io, entrando così in contatto con nuove parti di sé e creare nuovo. Colpisce come in alcune circostanze l’incontro con l’Altro, invece di essere vissuto come una possibilità, possa portare paradossalmente a sottrarsi al proprio percorso individuativo. Si adottano così diverse strategie che allontanano dalla relazione, quando invece sembrerebbe rappresentare l’unico modo per recuperare una parte di sé che rischia di andare perduta.

Jung ha dedicato molta attenzione all’importanza della relazione, ne è dimostrazione il suo testo Misterium coniuctionis (Jung 1956). Seguendo il suo approccio, il tentativo della riflessione risulta essere il recupero di una dimensione altra che lo spirito del tempo sta portando via.

Quale domanda?

Nella domanda dei pazienti che vogliono una relazione, che pensano di ʽdoverla volereʼ, che si accorgono di non riuscire a portarla avanti o a starci realmente, colpisce come si aprano tante possibilità individuative in cui la relazione rischia di diventare solo un concretismo (se la si considera come obiettivo terapeutico da raggiungere). Il desiderio, accompagnato alla paura, di conoscere realmente l’altro (fuori e dentro) sembrerebbe invece essere un appello a Eros nel tentativo di rimettere insieme i pezzi. Quelli scissi, dimenticati, negati, rimossi, che si trovano alla base di quel movimento difensivo atto paradossalmente a non andare in pezzi. Forse la domanda dei nostri pazienti non è quella di avere semplicemente una relazione socialmente riconosciuta, bensì un richiamo a un’interiorità parzialmente perduta.

La tendenza sociale della nostra epoca che è ‘stare al di sopra’ – al di sopra delle proprie possibilità economiche, al di sopra degli altri, al di sopra delle emozioni, al di sopra della sofferenza – porta il paziente all’amaro sentore di non riuscire a sentire quello che si prova o che si dovrebbe provare. Il sentore di non riuscire a collocarsi nella propria vita. Nei confronti di una crescita asincrona anziché complessa, che metta in discussione una consapevolezza identitaria poco credibile, poiché mossa da una salvifica inconscietà, il movimento terapeutico necessario sembrerebbe essere quello di riallineare l’esperienza vissuta con l’emozione provata, tornando in quei luoghi dove si era in grado di farsi guidare dall’emozione, lì dove è stata lasciata. La domanda verbalizzabile appare allora quella vòlta a ritrovare la capacità di innamorarsi, a tornare ad essere quelli del primo amore, a recuperare, in ultima analisi, quei pezzi andati perduti. In questo disorientamento tra passato, presente e futuro, dove si chiede di essere quelli di oggi con l’emozione di ieri, il nostro compito potrebbe essere quello di prendere carta e penna e riscrivere una biografia che parta dal passato per potere, quantomeno, immaginare un futuro. Scrive Jung:

«I turbamenti nevrotici, molto frequenti nell’età adulta, si assomigliano in quanto tutti hanno la caratteristica di portare la psicologia propria della gioventù oltre la soglia dei quarant’anni […] Il nevrotico è colui che non riesce mai nel presente come vorrebbe e che non può nemmeno mai rallegrarsi del passato. Prima non riusciva a staccarsi dall’infanzia; ora non può liberarsi dal periodo della gioventù» (Jung 1931, p.425).

La situazione dei pazienti sembra allora denotare un’impossibilità a stare nel proprio tempo, ripetendo quasi compulsivamente le stesse esperienze, legate a una fase della vita che non riesce a tramutarsi in un passaggio individuativo. Vengono in mente a riguardo quei pazienti che tendono a raccontare cercando di rivivere il passato e tentando di conferirgli lo stesso vissuto, tentativo che sporadicamente riesce e che suscita un retrogusto quasi depressivo. Sono quelle persone che vivono nel ricordo e che fondamentalmente perdono la visione prospettica; si ritrovano a pianificare primi appuntamenti che vengono del tutto evitati o vengono svuotati. Ci si trova nell’area della ʽripetitività involutivaʼ dove si trovano anche tutti quei casi di sessualità compulsiva, masturbazione compulsiva ed esperienze sessuali particolarmente eccentriche. Ciò che colpisce in situazioni del genere è l’apparente tendenza a non lasciare nessun segno, a non agganciare e/o non contattare l’emotività, sembrerebbe essere presente solamente il fatto esterno, nell’assenza di una risonanza interna, addirittura in assenza di un’innervazione fisiologica. Relegati nell’incapacità di vedere realmente l’altro e nella difficoltà di attualizzare le esperienze, i pazienti sembrano essere bloccati nel passato, nel ricordo di quello che è stato, in un vecchio amore, idealizzato e molto poco elaborato; bloccati in una problematicità riguardante l’assenza di relazione (esterna e interna) che solo secondariamente si declina in un’azione.

Quale relazione?

Affacciandosi alla seconda fase della vita, lì dove ci si dovrebbe avvicinare alla controparte intrapsichica, si palesa il rischio di una possessione da parte dell’Anima per gli uomini e dell’Animus per le donne. Sembrerebbe quindi che, nel caso in cui non si riesca a concretizzare una relazione, la seconda fase della vita diventi il momento in cui la componente intrapsichica, alla quale non è stato dato spazio prima, tende a straripare. Nella misura in cui si parla di Anima e Animus come archetipi della relazione, se ne deduce un fallimento o quantomeno una fatica relazionale che si manifesta a un certo punto in maniera importante, fin troppo visibile. Nell’emergere della terza forma di coscienza, quella dualistica, l’individuo si trova costretto a riconoscere e ad ammettere che il non-Io, l’estraneo, è anch’esso parte della propria vita, e parte di sé. È in questa fase che si colloca il primo amore, a volte l’unico e a volte quello che non si dimentica. Clinicamente sembrerebbe che il fallimento e l’elaborazione del primo amore influenzi fortemente la capacità di rimettersi in gioco esplorando altre parti di sé. Chiaramente questo avviene anche perché l’innamoramento può seguire a reazioni affettive inadeguate o esagerate rispetto allo stimolo, che sono il campanello di un complesso a tonalità affettiva. Una semplice azione o una sola parola possono andare a riaprire ferite del passato producendo reazioni incongrue. La risposta alla delusione per la conclusione di una storia d’amore potrebbe quindi strutturarsi come un arroccamento ideologico dell’Io, che si scolla ancora di più dall’affettività; da lì le parole dei nostri pazienti che suonano così: ‘non voglio avere una relazione […] sto bene da solo […] non rinuncio alla mia libertà […] non scendo a compromessi […] non vedo coppie che funzionano […] tanto è tutto finto’.

Però sono le stesse persone che, davanti alla possibilità che possa non essere così, cadono in un vissuto di angoscia e disorientamento. Quando la vita li mette nella condizione di allargare la propria coscienza essi fanno un passo indietro. Un tentativo disperato di mettere al sicuro la ʽlimitazione della coscienzaʼ, invece di spezzarla con l’opposizione dei contrari e costruire così uno stato di coscienza più ampio ed elevato (ivi, p. 423). La coloritura adolescenziale con la quale leggono gli eventi fa fatica a sfumare, e la possibilità di una relazione psichicamente matura stenta ad emergere. Scrive Jung che

«[…] quando parliamo di relazione psicologica, presupponiamo la coscienza. Non esiste relazione psicologica tra due persone che siano entrambe in condizione di inconsapevolezza. Dal punto di vista psicologico, esse sarebbero totalmente prive di rapporto» (1925, p.183)

Quindi per essere consci di sé stessi è necessario aver attuato un processo di differenziazione. Si intuisce, in un’atmosfera del genere, quella nota traumatica, che alla luce di quello che attualmente viene definito trauma complesso, trova la massima espressione (patologica) nel primo amore o quantomeno nella fine di questo. In tal senso, tale evento, mette in connessione passato e presente, nella riattivazione più o meno traumatica e chiude ogni possibilità al futuro. Il lungo periodo di latenza conseguente la chiusura di una relazione sembra essere infinito e quando si affaccia l’emozione si attua la fuga. Jung scrive che «appena subentra un’alterazione fisiologica (emozione) siete travolti, dissociati, cacciati dalla vostra casa, che allora resta spalancata ai diavoli» (1935, p.41).

Davanti all’emozione che travolge e che non si riesce a governare, davanti alla possibilità di incontrare l’aspetto più luciferino che abita la psiche, l’Io chiede venia, bloccando un processo e continuando a crogiolarsi nel passato, in quello che ʽè statoʼ, nel ricordo. Proprio perché la relazione offre la possibilità di far avanzare nuove parti, è un momento in cui il Sé spinge per allargare la visione dell’Io, un impulso del Sé a realizzarsi. Scrive Giulia Valerio:

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«[…] in ogni vicenda amorosa una scheggia perduta di noi stessi chiede udienza, sia essa gloriosa oppure patologica […] È un sentimento che complica la vita rendendola complessa, chiamando vicino un ospite spesso indesiderato, sempre inatteso […] non ci si innamora di esseri umani perfetti, ma della nostra parte più remota, lacera, sconosciuta, che racchiude le nostre ferite, il nostro complemento, ciò che vorremmo lasciare fuori dalla nostra storia» (Valerio 2011, p. 94).

A questo punto una fuga dalla relazione è quasi legittima! Il problema però è che così facendo si espunge l’Altro come fonte del problema e si tende a separare, direi ʽdiabolicamenteʼ gli elementi critici tra loro. Scrive ancora Jung in Misterium Coniunctionis che: «il problema dell’amore tra opposti va collocato e sciolto nel luogo in cui esso è sorto». (1955/1956, p.91). È forse a questo punto che subentra Eros a unire e a tenere insieme i paradossi della psiche.

Quale ricordo?

Alla luce di quello che è stato detto, il timore della relazione si fa portavoce della paura di poter entrare in contatto con qualcosa di sepolto, in parte nuovo, con qualcosa che ci appartiene, con qualcosa che potrebbe non piacere; nasconderebbe la paura di rendersi conto di non essere quelli che si pensava di diventare. L’aver già vissuto un pezzetto di quel futuro che angoscia, mette davanti alla possibilità di constatare di aver mancato qualche obiettivo: scegliendo una strada se ne scarta del resto un’altra. Il vissuto adolescenziale onnipotente viene meno per lasciare spazio a un principio di realtà generazionale che pone il soggetto davanti alla sua reale essenza. La capacità di vivere una relazione rappresenterebbe quindi quel momento in cui ci si può affidare a quella bussola interna che indica la strada individuale per l’apertura relazionale alla ʽfertilità inconsciaʼ. Non è più un ripiegamento narcisistico bensì un movimento di introversione. Si passa così da uno spirito del tempo ad uno spirito del profondo. Non si cerca più di tornare ad essere quelli del primo amore, ma si inizia a poter ricordare il primo amore come un evento ormai appartenente al passato, potendo quindi riprendere a scrivere la propria biografia. Il ricordo non è più così un motivo per guardare dietro, ma una possibilità per andare avanti. Liberando il potenziale erotico che era in principio della madre e poi dell’Amore, si sblocca quella situazione di isolamento autoerotico di chi invece ha realmente il desiderio di un’intimità che sia fortemente relazionale.

Concludo con una frase di Daniele Ribola:

«La Madre/Vita chiede al figlio di sacrificare la relazione con la mamma, gli chiede cioè di staccare le energie psichiche dal suo mondo infantile, per poterle investire nella vita. Il figlio muore alla mamma e rinasce alla Madre» (Ribola 2013, p.30).

L’elaborazione e il superamento di una fase della vita, permette di approdare così alla fase successiva con le risorse necessarie, autentiche, permettendo di vivere il proprio spazio e il proprio tempo, senza rimanere irretiti nel passato caratterizzato da un ricordo ossessivo e irrigidito. La relazione terapeutica diviene così il luogo per fare esperienza della relazionalità che acquista nuovamente una visione prospettica di crescita interna.


Bibliografia

  • Jung C.G. 1931, Gli stadi della vita, in Opere, vol.VIII, Bollati Boringhieri, Torino 2004.
  • Jung C.G. 1935, Fondamenti della psicologia analitica, in Opere, vol. XV, Bollati Boringhieri, Torino 2004.
  • Jung C.G. 1925, Il matrimonio come relazione psicologica, in Opere, vol. XVII, Bollati Boringhieri, Torino 2004.
  • Jung C.G. 1955/1956, Mysterium coniunctionis, in Opere, vol. XIV, Bollati Boringhieri, Torino 2008.
  • Jung C.G. 1913/1930, Il Libro Rosso – Liber Novus, Bollati Boringhieri, Torino 2010.
  • Ribola D. 2013, La proiezione da Freud a Jung: difesa e svelamento, in AA.VV., Quattro saggi sulla proiezione, Vivarium, Milano.
  • Valerio G. 2011, Jung e i misteri d’amore, in AA.VV, In dialogo con l’inconscio, Edizioni Magi, Roma.

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