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Modernità della Teoria dei Complessi di C.G. Jung

Rivista annuale a cura del Centro Italiano di Psicologia Analitica Istituto di Roma e dell’Italia centrale

QCJ 2014

2014 Numero 3

Modernità della Teoria dei Complessi di C.G. Jung

Ho apprezzato molto del testo di Marilena Marozza “Jung dopo Jung”, oltre che la chiarezza con la quale sono esposti concetti tutt’altro che intuitivi, la capacità di rintracciare e proporre una linea di lettura coerente negli intricati e contraddittori testi junghiani,  presentata con grande precisione e profondità.

Mi è piaciuto, soprattutto, che abbia esplicitato il fatto che lo spirito dello junghismo sia racchiuso dalla “trasmissione di un sistema di valori e un insieme di atteggiamenti” più che dall’insegnamento di ipotesi e modelli formalizzati, cosicchè è possibile per lo psicologo analista junghiano aprirsi al confronto con teorizzazioni e modelli forniti anche da discipline diverse dalla psicoanalisi e, soprattutto,  ad un contatto con il paziente con un atteggiamento scevro da pregiudizi e pronto a cogliere e recepire gli elementi destabilizzanti (per il paziente ma anche per il terapeuta), interpretati come fattori in grado di produrre cambiamenti.

Mi è sembrato inoltre che fosse possibile enucleare dal testo alcuni temi portanti, uno dei quali è costituito dal riconoscimento, nel testo junghiano, di un modello della mente dotato di grande forza esplicativa, fruibilità clinica, flessibile e non riduttivo che permette un confronto con le acquisizioni delle neuroscienze, senza piegarsi alle metodologie di queste ultime.  Mi riferisco, ovviamente, alla Teoria dei Complessi autonomi a tonalità affettiva, che Marilena identifica come la teorizzazione che informa, rimanendo sottotraccia, tutto il corpus degli scritti junghiani.

L’altra tematica, strettamente connessa alla precedente, è costituita dalla valorizzazione  dell’attenzione al clima affettivo dell’incontro analitico e ai suoi mutamenti e dunque della sensibilità percettiva dell’analista come principale organo informativo.

Infine, l’aver mostrato il rapporto fra la parola e la sensorialità ha consentito di cogliere pienamente il senso e l’efficacia di una terapia fondata sullo scambio verbale.

A proposito  di questo, le riflessioni di Marilena, mi hanno suggerito un esercizio di comparazione tra la teoria junghiana dei complessi e il modello di coscienza di Edelman, che sembrano presentare numerose analogie. Il raffronto con le teorie formulate nell’ambito delle neuroscienze è reso più facile dalla posizione monista di Jung rispetto al problema della relazione mente-corpo, come Marilena mette bene in evidenza nel capitolo dedicato al confronto fra la teorizzazione junghiana e quella di Freud: l’opposizione fra cervello e psiche è interna alla coscienza dell’osservatore e risultante dall’impossibilità di assumere da parte di questa contemporaneamente la prospettiva dell’uno o dell’altro termine.

E’ necessaria una descrizione, sintetica per quanto possibile, del modello di Edelman, per mettere meglio in rilievo le sovrapposizioni fra la sua teoria sul funzionamento del cervello e la descrizione di Jung del funzionamento dei complessi.

L’interesse presentato da tale modello risiede nel fatto che Edelman tenta di dar conto delle qualità fenomeniche della Coscienza, ovvero dell’esperienza in prima persona del possesso di stati qualitativi.

Egli ritiene che soggettività e privatezza della coscienza possono essere adeguatamente spiegate all’interno della cornice generale della Teoria Evoluzionistica: la coscienza sarebbe, da questo punto di vista, frutto della pressione selettiva, grazie al suo elevato valore adattativo; essa, inoltre, sarebbe il prodotto non solo dell’attività del cervello ma della struttura e delle funzioni dell’intero corpo umano.

Edelman, critico nei confronti tanto del riduzionismo fisicalista quanto del funzionalismo, ritiene che la comprensione del “mistero” della Coscienza non possa prescindere dalla complessità degli organismi biologici  e dalle leggi che regolano la sopravvivenza corporea, all’interno di intervalli limitati di temperatura e pressione in  condizioni ambientali variabili.

Egli definisce la Coscienza come un processo privato, selettivo e continuo le cui caratteristiche sono unità e integrazione (ogni stato di coscienza è vissuto come indivisibile), differenziazione e informatività (ciascuno stato è selezionato tra molteplici possibili ed ha effetti peculiari sul comportamento). Essendo dunque la Coscienza un processo, più che individuare eventuali aree in cui essa possa risiedere, lo studioso si propone di descrivere il tipo di attività cerebrale che possa generarla, sottraendosi in tal modo al problema dell’homunculus. Si tratterebbe, per Edelman, di un’attività  distribuita in numerose aree del sistema talamo-corticale, capace di discriminare tra un numero elevato di stati.[1]

Edelman distingue due forme di Coscienza: la Coscienza primaria e la Coscienza di ordine superiore; la prima è la capacità di costruire una scena integrata dellesperienza attuale, capacità che l’uomo condivide con gli animali e che deriva dall’integrazione, mediata dal rientro,  fra le aree deputate alla categorizzazione percettiva e la memoria valore-categoria. [2]

E’ molto interessante il fatto che la nozione di categorizzazione percettiva non basi i processi conoscitivi sulla formazione, all’interno del cervello, di depositi di rappresentazioni, ma, coinvolgendo la sensorialità e la motricità, faccia si che il corpo nella sua interezza, con le proprie  possibilità percettive ed esplorative venga ad essere implicato nella relazione col mondo.  Di conseguenza la memoria è svincolata da relazioni topografiche con accumuli di informazioni  per divenire una proprietà generale di sistema consistente nella capacità di ripetere una prestazione; essa è presente a ciascun livello di attività nervosa con livelli differenti di complessità, consta nella facilitazione dei processi di categorizzazione percettiva, i quali, col ripetersi delle prestazioni comportamentali possono coinvolgere circuiti differenti da quelli utilizzati in origine. Essa è dunque la capacità di scegliere circuiti idonei a generare prestazioni comportamentali adeguate ad un determinato stimolo, all’interno di un repertorio variato.

E’ molto suggestiva  la raffigurazione di Edelman dell’aggregato di strutture che sostengono sul piano neurale l’attività della coscienza e che egli definisce nucleo dinamico: si tratterebbe di un sistema ampiamente distribuito nel cervello di mappe di ordine superiore, associate da connessioni rientranti, che si attivano in un intervallo temporale definito (non inferiore  ai 100 msec come dimostrano gli esperimenti di percezione subliminale). Grazie alla forza delle connessioni, le mappe attive nell’unità di tempo possiedono un elevato grado di coesione (ecco perché il termine nucleo) e la loro integrazione  darebbe conto, sul piano fenomenico, di privatezza, selettività e coerenza di ciascuno degli stati di coscienza.  L’attivazione di sottoinsiemi di mappe, all’interno di un repertorio più vasto, con la possibilità di aggregare successivamente altri sottoinsiemi,  esprime la dinamicità  del nucleo ed è la base dell’informatività della coscienza. [3] Con l’esperienza le dimensioni del nucleo si ampliano continuamente.

Secondo Edelman le prime dimensioni ad essere incluse nel nucleo riguardano lo stato del corpo e delle sue relazioni con l’ambiente esterno ed interno, formando così una coscienza corporea primitiva. La Coscienza Primaria è dunque una scena integrata in un arco temporale ristretto ( da poche centinaia di msec a qualche sec), che permette una  pianificazione immediata e limitata alle circostanze contingenti dei propri comportamenti.  L’emergenza, nel corso dell’evoluzione, della Coscienza di Ordine Superiore si realizza nel momento in cui le connessioni rientranti collegano le mappe concettuali alla aree linguistiche. Tale connessione permette di riferirsi a stati interni, eventi ed oggetti interni tramite l’uso di simboli e quindi, conseguentemente, di  compiere una discriminazione fra sé e oggetto e di costruire narrazioni che  comportano l’uso di una temporalità estesa, articolata tra passato e futuro che permette da un lato un comportamento più flessibile ed adattativo e dall’altro la modifica dei sistemi di valore.

Desidero sottolineare  in particolare l’idea di Edelman che la coscienza di ordine superiore debba al linguaggio, frutto a sua volta della pressione selettiva e della peculiare struttura del corpo umano, il proprio sorgere. E’ al linguaggio che, grazie alla manipolazione dei simboli, si deve infatti la nascita del senso del tempo e della distinzione sè-oggetto, che costituiscono a loro volta il fondamento  dell’identità personale, coesa e invariante attraverso il flusso temporale. Il linguaggio permette dunque di collegare sentimenti e valori, emozioni e cognizioni, di stabilire differenze tra ciò che è stato, ciò che è e ciò che sarà e consentendo di raccontarsi stabilisce la nascita del senso dell’identità personale.

L’eleganza del modello di Edelman risiede nel fatto che gli stessi meccanismi operando a livelli di complessità crescente riescono a dar luogo ad esperienze che riflettono  il grado di organizzazione raggiunto. Analogamente la definizione di memoria come proprietà di sistema consente di evitare di dover spiegare come avvenga a livello del substrato nervoso il rapporto fra le diverse forme di memoria e quelle di coscienza, ed, eludendo il problema di localizzare i depositi delle rappresentazioni mnemoniche, le consegna esclusivamente alla mente.

L’interesse per i modelli neurofisiologici della coscienza non è certo dovuto alla necessità di dare un fondamento scientifico alle teorizzazioni della psicologia analitica, essendo i domini delle neuroscienze e della psicoterapia differenti sia per quanto riguarda il livello della descrizione, come Marilena ci ha spiegato con puntualità e anche Edelman asserisce, sia per quanto attiene agli scopi. L’importanza di un confronto tra la teorizzazione neuroscientifica e psicodinamica  risiede nel fatto che il rilievo di un elevato grado di compatibilità dei modelli può permettere di chiarirli e dettagliarli ulteriormente.  Inoltre può risultare di utilità pratica disporre oltre che di un modello di funzionamento della mente anche di un modello di funzionamento del cervello. Sempre più di frequente, infatti, ci troviamo ad essere in relazione con pazienti che praticano contemporaneamente una terapia farmacologica e una psicoterapia e tutti noi sappiamo che il farmaco non si limita ad esercitare effetti chimico-fisici ma è dotato di un valore simbolico, influente sulla relazione psicologica. Di  conseguenza, un modello di funzionamento del substrato organico dell’attività psichica può essere utile a trattare in maniera più adeguata la presenza del terzo incomodo. Inoltre, anche per chi si trova a somministrare il farmaco è vantaggioso disporre di una teoria che non salti dal piano del vissuto a quello molecolare, poichè, a tutt’oggi, poco continuiamo a sapere del reale effetto dei farmaci sul piano dell’attività chimico-fisica, mentre il loro utilizzo si basa prevalentemente sulle osservazioni empiriche della risposta a livello dei sintomi.

La descrizione che Edelman fa del nucleo dinamico ha evocato visivamente nella mia mente la configurazione della coscienza che Jung delinea nel saggio “Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche”. Qui la coscienza è rappresentata come un arcipelago di luminescenze in cui l’io è posto al centro, isola più intensamente luminosa e stabile. Se immaginiamo l’attivarsi del nucleo dinamico, all’interno del quale, in ogni singolo atto di coscienza, aree cerebrali diverse vengono interconnesse, come un illuminarsi  (il fatto che il funzionamento nervoso sia di tipo elettrochimico  giustifica questa fantasia),  il gioco delle analogie  è presto fatto. Inoltre, il fatto che Edelman teorizzi l’ampliamento dell’esperienza cosciente come un inclusione di ulteriori aree nel nucleo dinamico,  richiama la descrizione di Jung della relazione fra il Complesso dell’Io e quelli secondari.

Marilena ha molto ben approfondito questo argomento, avvalendosi delle riflessioni di Aversa e di Ruberto, che hanno ulteriormente delucidato la natura e il funzionamento tanto del complesso dell’Io quanto di quelli secondari, mostrandoci come tutti condividano una stessa struttura: nucleo affettivo, componente rappresentativa e coscienza. Fra complesso dell’Io e complessi secondari sussistono però differenze qualitative; il primo presenta maggior coesione e stabilità del legame tra le componenti e coscienza discriminativa, dotata di temporalità estesa tra passato, presente e futuro e capacità di esercitare la propria volontà; i secondi sono caratterizzati da frammentarietà, temporalità puntiforme e istantanea, automatismo di funzionamento. ( Anche in questo caso possiamo rilevare una corrispondenza con la descrizione di Edelman di Coscienza di ordine superiore e Coscienza primaria)

Soprattutto Marilena ha evidenziato come il ricorso alla teoria dei complessi consenta di fare riferimento nella pratica terapeutica a due proprietà basilari dell’apparato psichico: dissociabilità e fondamento affettivo di qualunque tipo di attività psicologica.

La dissociabilità  descrive la fluidità della costituzione attuale della mente, nella quale può accadere  la rimozione di parti, che sono sempre composte da un nucleo affettivo, che coagula un gruppo di rappresentazioni (rimozione quindi di  uno o più complessi secondari) o l’annessione di parti mai precedentemente collegate all’Io.

Il fondamento affettivo dà ragione del fatto che la tonalità affettiva costituisca il trasmettitore e il sensore dello stato psichico e delle sue eventuali variazioni nell’individuo. Con questo ci vengono fornite preziose indicazioni sull’atteggiamento da tenere nella relazione terapeutica, nonché sugli elementi ai quali occorre prestare attenzione. Come Marilena ci suggerisce, dovremmo tener presente che è  l’atteggiamento del complesso dell’Io e la sua capacità di mettersi in relazione con i complessi secondari a fare la differenza. In altri termini, la capacità soggettiva di reggere l’impatto con stati emotivi inattesi e perturbanti è determinante nella formazione del sintomo. Poiché l’elemento qualificante del complesso è l’affetto, potremo lavorare con i nostri pazienti dedicando la nostra attenzione a cogliere il clima emotivo della relazione terapeutica, le sue variazioni e gli elementi dai quali queste ultime sono indotte. Con i pazienti più gravi il cosiddetto lavoro di “rinforzo dell’Io” assume, alla luce della teoria dei complessi, un senso etico oltre che empirico. Ho in mente, ad esempio, una mia paziente con un grave delirio di influenzamento, bloccata nella relazione con “gli abitanti della sua testa”, dalla quale derivavano reazioni comportamentali ovviamente incomprensibili per gli osservatori esterni. Dopo anni di terapia basata prevalentemente sulla ripetizione di conversazioni apparentemente banali, riguardanti aspetti quotidiani minimali, ha acquisito la capacità di accedere ad un mondo e a una temporalità  condivisi con gli altri umani e a sostenere un’attività lavorativa sia pure limitata e protetta. Naturalmente assume una terapia farmacologica che, però, inizialmente, si limitava a contenere le esplosioni comportamentali, senza influire sull’incistamento e l’esclusione dalla comunità di appartenenza. L’esperienza con M mi sembra possa indicare il senso dell’uso della parola come strumento terapeutico che Marilena sottolinea. Se, infatti, la parola si dota dello spessore affettivo che la genera può  costituire il fattore  di trasformazione dell’Io migliorando le sue capacità di rapporto con i complessi secondari e con ciò con il mondo.

Per M la reiterazione, l’invarianza dei temi, il sostare sulla minuzie del quotidiano hanno potuto costruire un fragile nucleo di stabilità e di  continuità di sé,  permettendole di percepirsi come individuo dotato di autonomia e volontà, sia pure in maniera limitata e precaria, all’interno di una cornice protettiva di ripetizioni e abitudini.

Questo modo di intendere il linguaggio trova ancora un eco nel modello di Edelman, che, come abbiamo visto, per quest’autore rappresenta uno dei fattori critici nel costituirsi della coscienza estesa. Al linguaggio si deve la possibilità della distinzione io mondo e della costituzione di una temporalità articolata tra presente passato e futuro, fondamento a sua volta della memoria episodica e narrativa,  fulcro dell’identità personale. Tale potenza del linguaggio ne spiega l’efficacia causale e sostiene, in linea di principio, lo sforzo di chi fa del linguaggio uno strumento di terapia, senza avere la possibilità di appoggiarsi su fattori oggettivi, poiché ogni storia narrata nella stanza di terapia è una storia individuale, unica e irripetibile e il linguaggio che la racconta è idiosincratico alla coppia che costruendo la narrazione si impegna a modificarne il corso.


Note

  • [1] Tali aree sarebbero selezionate inizialmente nel corso dell’embriogenesi sotto la guida del patrimonio genetico (selezione con lo sviluppo), dando origine ad un repertorio primario di gruppi di neuroni e, dopo la nascita, l’esperienza, agendo su questo, (selezione con l’esperienza) determinerebbe la formazione di un repertorio secondario di gruppi neurali uniti da connessioni eterogenee che assicurano pertanto la variabilità necessaria ad un sistema selettivo.La caratteristica fondamentale delle mappe neurali coinvolte nella produzione dell’attività cosciente è rappresentata dal fatto che esse sono collegate da connessioni rientranti, ossia da giunzioni numerose, fitte, parallele e reciproche che consentono la diffusione e il ritorno da una mappa all’altra della scarica nervosa con rapidità tale da permettere sincronizzazione e coordinamento della loro attività. Grazie a questa modalità di connessione, il rientro, le mappe possono essere attivate da informazioni non prespecificate e possono costruire  risposte dotate di nuove proprietà, realizzare la sintesi di funzioni cerebrali collegando fra loro varie sottomodalità,  risolvere conflitti di segnali in competizione e correlare variazioni dell’attività sinaptica in aree distanti. Infine grazie alla proprietà della degenerazione circuiti nervosi differenti sarebbero in grado di originare il medesimo comportamento in risposta agli stessi stimoli. Il funzionamento dei gruppi neurali avviene all’interno dei limiti posti dai sistemi di valore, costituiti dalle strutture sottocorticali che informano i centri cortico-talamici sullo stato comportamentale dell’organismo e sulla sua situazione ormonale e neurovegetativa in relazione anche alla comparsa di un evento saliente nel campo d’azione dell’organismo.
  • [2] Il concetto di categorizzazione percettiva è posto da Edelman alla base dei processi di apprendimento e che consiste, sul piano neurale, nell’accoppiamento, sempre mediante il rientro, di mappe che rilevano caratteristiche sensoriali diverse di uno stesso oggetto e di mappe che controllano il comportamento motorio, formando così una mappa globale. L’accoppiamento di più mappe globali riguardanti uno stesso oggetto da luogo alla formazione di mappe di ordine superiore che sono informative sulle caratteristiche generali dell’oggetto, costituendo la base neurale dei concetti.
  • [3] Infatti quanto più numerosi sono gli stati possibili del nucleo dinamico tanto più è elevata la sua capacità di discriminazione. Ogni variazione nell’andamento di scarica di un gruppo di neuroni impegnati in un processo di categorizzazione percettiva è anche un processo di scelta fra molti stati possibili del nucleo. Essa viene a costituire un repertorio di memoria e fa sì che lo stato integrato del nucleo sia allo stesso tempo il significato e la memoria dell’esperienza cosciente.
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