
2016 Numero Extra A Tema
A CURA DELLA REDAZIONE Se si dovesse sintetizzare in cosa si esprime l’essenza e lo specifico dell’attività di cura della psiche, si potrebbe riassumerla nel suo continuo ‘stare tra’: Logos ed Eros, esperienza della relazione e possibilità di riflessione, pratica clinica e teoria. La rubrica a tema si pone come uno spazio di confronto, di espressione ed elaborazione di tutte le tematiche che partendo dalla pratica clinica evolvono in visioni della psiche, favorendo la possibilità di mantenere continuamente viva una sospensione che si interroga.
Massimo Russo intervista Luigi Aversa
Interrogarsi intorno al metodo della propria disciplina, valutandone le possibilità e i limiti, circoscrivendone l’ambito, rimanda immediatamente alla tradizione della riflessione epistemologica. Un campo di ricerca particolarmente attuale nonostante il tema che, nel nostro caso, potrebbe sembrare storicamente datato. Soprattutto, in riferimento alla contemporaneità, dove avvengono trasformazioni socio-culturali che premono per affermarsi e nei confronti delle quali è particolarmente importante avviare un dialogo nel rispetto delle reciproche identità. Il metodo della psicologia analitica, nell’ambito più esteso della psicologia del profondo, grazie alla sua specificità, potrebbe proporsi come il più idoneo, data la sua caratteristica versatilità, ad affrontare, in modo adeguato, molteplici e variegate situazioni che oggi si presentano come nuove e a volte destabilizzanti. Tuttavia, è di indubbia importanza definire sempre meglio il metodo non solo per evitare derive semplicistiche e qualunquistiche ma anche per sperare in una ulteriore evoluzione dello stesso in funzione di eventuali miglioramenti. In proposito l’intervista a Luigi Aversa circa la specificità del metodo in psicologia analitica ci permetterà di approfondire l’argomento.
Come è noto, Luigi Aversa è stato già docente di Psicologia dinamica all’Università ‘La Sapienza’ di Roma e successivamente a ‘Tor Vergata’ presso la cattedra di specializzazione in Clinica psichiatrica della facoltà di Medicina e Chirurgia. Fondatore, insieme a Mario Trevi, della rivista Metaxù, e autore di numerose pubblicazioni, tra le quali ha curato: «Psicologia analitica. La teoria della clinica», Bollati Boringhieri, Torino 1999.
Esiste una tradizione di studi epistemologici in ambito junghiano che si è occupata del problema del metodo in psicologia analitica?
Il problema del metodo, nell’ambito del pensiero junghiano, sin dall’inizio prospetta un punto cruciale della riflessione epistemologica in riferimento alla psicologia del profondo, perché mentre in Freud l’obiettivo è, prevalentemente, quello di fondare la psicoanalisi come Naturwissenschaft, come scienza della natura (sogno inizialmente condiviso anche da Jung in riferimento alla spiegazione della schizofrenia), per la psicologia analitica, invece, il problema del metodo viene radicalizzato al punto da essere messo in crisi, quasi al punto di esplodere. Questa posizione non si traduce in un abbandono del metodo (che rimane strutturato) da parte di Jung, ma, al contrario, è proteso a fare emergere la psiche così come la sperimentiamo, anche quando questa si rivela in qualità di un «disturbo del metodo» stesso. In questo caso non è il metodo che conferma l’ipotesi ma è il metodo che si apre alla psiche. È nota l’affermazione di Jung che sottolinea come la psicologia per perseguire il suo scopo scientifico debba abolirsi come scienza. Questa radicalizzazione del metodo che si spinge quasi alla sua abolizione ci introduce all’importanza del discorso ermeneutico in psicologia analitica. In effetti l’ermeneutica permette all’interpretazione di approcciare il testo spingendosi fino al limite massimo, addirittura potendo pensare contro il testo. Potremmo dire che Gadamer, in ambito filosofico, quando approfondisce il concetto di verità, descrivendola come esperienza extra-metodica, compie un’operazione analoga a quella che opera Jung rispetto al suo metodo in psicologia analitica.
Nell’ambito della psicologia analitica chi ha approfondito questa posizione metodologica?
Mario Trevi è stato il primo, in ambito nazionale e internazionale, ad assumersi la responsabilità di percorrere la strada dell’ermeneutica. Tale posizione fu anticipata dallo stesso Jung in occasione del primo convegno mondiale della psicoanalisi quando fu incaricato da Freud a confutare le tesi di Adler. Jung, tuttavia, ammettendo come plausibili sia le teorie freudiane che quelle adleriane, riconobbe che, in questi casi, il metodo viene ricondotto ad un aspetto soggettivo della personalità del teorico aprendo, così, la via all’ermeneutica nell’ambito della psicologia analitica.
Che ruolo svolge la verifica empirica in psicologia analitica?
La verifica empirica può svolgere un ruolo in psicologia analitica purchè non venga assunta nella sua dimensione forte, così come viene intesa spesso oggi nell’ambito della psicologia sperimentale. Anche Jung si proclama un empirico ma il concetto di esperienza alla quale fa riferimento non va tradotto come dato dell’oggettività, che nell’ambito della psicologia del profondo è impossibile reperire, ma piuttosto come «evidenza naturale», à la Blankenburg, così come viene descritto in fenomenologia psichiatrica. Se ci pensiamo anche in matematica esiste il calcolo della probabilità dove il concetto stesso di probabilità, per definizione, denota una oscillazione della certezza incontrovertibile. La verifica empirica, nel nostro caso, viene dunque assunta come elemento debole, appunto come un’ermeneutica.
Anche se pensiamo agli studi di Jung nei primi anni del Novecento?
In quegli anni, gli anni degli studi psichiatrici, Jung subì molto il fascino di Freud soprattutto considerando la reciproca formazione medica e l’ascendente che il maestro poteva esercitare su di lui ma, progressivamente, egli continuò ad elaborare in piena autonomia la sua teoria, fino al punto di affermare che si può concepire presumibilmente un livello psichico anche a livello dei protozoi. È evidente che se noi immettiamo lo psichico a questo livello il concetto di verificabilità oggettiva si indebolisce. Anche in teologia, rispettando la pur utile distinzione diltheyana tra scienze della natura e scienze dello spirito, si cerca in Dio un fondamento assoluto, ma noi, junghianamente, non possiamo prescindere in questa ricerca dall’inevitabilità di contemplare il non conosciuto come aspetto centrale dell’inconscio. L’inconscio stesso non è soltanto descritto attraverso il rimosso freudiano e la progressione teleologica junghiana, ma anche grazie al non conosciuto. In questo senso Jung ribadisce la sua concezione di una psiche antinomica. Come afferma Hegel, riprendendo una concezione spinoziana: omnis determinatio est negatio. Per Hegel cioè, il nulla non può essere concepito se non in contrapposizione all’essere. L’inconscio si pone come assoluta negazione di ciò che chiamiamo coscienza.
Tuttavia Jung non rinuncia ad utilizzare il concetto di scienza per denominare la sua teoria…
Non ci rinuncia perché intende la scienza come una oscillazione tra il soggettivo e l’oggettivo e non come l’acquisizione di un sapere ultimo; privilegia un approccio metodologico che rispetti l’antinomia della psiche.
Secondo Jung esistono delle immagini oggettive della psiche?
Consideriamo che in Jung ci sono delle ambivalenze produttive nel testo e tra queste è presente anche la necessità di approcciare ad un’oggettività della psiche. A partire da questa acquisizione del suo pensiero si sono sviluppate diverse direttive teoriche nell’ambito dello junghismo e dei post-junghiani. La scuola di Zurigo, ad esempio, nello studio dell’archetipo rimane fedele a questa possibilità. Al contempo quella italiana maturata da Mario Trevi privilegia un concetto di simbolo che mette in crisi l’oggettività assoluta della psiche. Consideriamo anche che la coscienza per strutturarsi ha bisogno di una ‘cosa ultima’. Quest’ultima risponde a un bisogno ma può darsi che tale fondamento oggettivo non esista. Tuttavia, l’esperienza ci offre contemporaneamente aspetti fondativi e non fondativi. Da un lato, perché quando sperimentiamo qualcosa che ci coinvolge non vogliamo dubitarne, come se ci dicessero: «tu non sei tu». Come scrive, in proposito, Shakespeare: «la rosa non perde il suo profumo se gli diamo un altro nome»; dall’altro, comunque, sappiamo che quando aggettiviamo queste certezze – come accade spesso nella patologia – spesso restiamo delusi. Dobbiamo registrare i dati nella loro duplicità per conquistare un equilibrio.
Jung nella sua opera ha preservato questo equilibrio?
A volte sì e a volte no. La sua esperienza professionale si intreccia alla sua vita personale, come leggiamo nella sua autobiografia e nel Libro rosso, per cui la valenza teorica della sua opera risulta estremamente connessa a quella della sua esperienza. Nel suo caso tale esperienza ha comportato un rischio a livello psicopatologico nel confronto con l’inconscio. Jung va considerato in un’ottica vicina all’esperienza nietzschiana di chi si sporge a guardare oltre la coscienza e sporgendosi progressivamente amplia il suo orizzonte ma, al contempo, aumenta anche il pericolo. Jung, tuttavia, a differenza di Nietzsche, ha dimostrato di poter usufruire di un metodo capace di analizzare l’inconscio. Sebbene da questo punto di vista Jung, in ogni caso, trascende la prudenza freudiana. Basterebbe, per confermare questa ipotesi, rivolgersi all’epistolario che li coinvolge entrambi. Freud rimane legato al metodo scientifico al punto da sacrificare l’esperienza della psiche, Jung, al contrario, paga un prezzo maggiore per ciò che riguarda il metodo perché vuole saggiare la forza della psiche, per cui è pronto addirittura a sacrificare il metodo stesso.
Il processo di individuazione, attraverso la testimonianza, può declinarsi come aspetto fondante del metodo in psicologia analitica?
Sì, direi che è l’aspetto più pregnante della testimonianza di Jung, che, al tempo stesso, non è rigidamente definitorio, è analogo a quello che riguarda l’ermeneutica. In analogia all’ermeneutica di Paul Ricoeur che afferma: «spiegare di più per comprendere meglio». Non dobbiamo rinunciare a spiegare in modo meticoloso. Anche Jaspers, distinguendo tra erklären e verstehen, tra lo spiegare e il comprendere, ci dice che la spiegazione è necessaria a sostenere la potenza oscura della vita. Senza la quale rimarremmo allagati, o, come direbbe Jung, inflazionati. La spiegazione ci aiuta a comprendere meglio. Tuttavia lo stesso concetto di empatia ci dice che per poter comprendere l’altro non possiamo prescindere dall’accettazione di quel radicale sconosciuto che alberga anche in noi. Socrate, non a caso, si rivolge al tempio del dio ignoto sul quale è scritto: conosci te stesso.
Concludendo, vuole aggiungere qualcosa sul discorso del metodo in psicologia analitica?
Direi che l’aspetto più importante è acquisire la capacità di condurre fino al limite il discorso sulla psicologia, per cui assume pregnanza l’antinomia della psiche enfatizzata da Jung e ricordata da Mario Trevi in riferimento all’etimologia di psicologia stessa: non soltanto come discorso sulla psiche ma altrettanto come discorso della psiche. La psiche non va intesa soltanto come oggetto di studio ma anche come espressione di se stessa attraverso le teorie psicologiche. La parola chiave è: complementarietà. In effetti, come scrive Jaspers: «la psiche parla anche attraverso la sua Weltaschauung». In effetti egli scrive: Psicologia delle visioni del mondo.
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