Non si può certo dire che tutto abbia avuto inizio dalla vicenda di Marco Cavallo, ma che in questa vicenda si condensi a meraviglia il succo di quella storia di riconoscimento e di redenzione che finì per essere la 180, questo sì, a buon diritto, possiamo sostenerlo.
In breve, dunque, la vicenda di Marco Cavallo.
Il cavallo Marco (questo il nome datogli dai pazienti del Manicomio di Trieste) dal 1959 era la bestia da soma di quel luogo: giorno per giorno vi trainava il carretto della lavanderia, dei rifiuti e di altro ancora.
Marco Cavallo potrebbe dunque essere situato al punto più deietto della scala delle creature lì viventi, e quando la sua vita sembrò infine approssimarsi all’ultima ora, quell’altro punto deietto, che lì viveva, in immediata simmetria di vita, si prese a cuore la sua sorte: incantevole solidarietà, questa, forse così non tanto frequente tra gli ultimi!
Fu così che nel giugno del 1972 i ricoverati del Manicomio di Trieste si presero il pensiero d’indirizzare una lettera a Michele Zanetti, illuminato democristiano del tempo, presidente della Provincia di Trieste – che qui merita certamente di essere menzionato, quale prezioso interlocutore istituzionale di Franco Basaglia e poi suo caro amico; senza di lui, infatti, chissà come sarebbe andata la storia di cui si narra!
In quel testo, scritto in prima persona, come fosse stato redatto dallo stesso Marco Cavallo, se ne chiedeva un dignitoso “pensionamento” all’interno della struttura, il Manicomio, ove la povera bestia aveva da sempre faticato, in luogo della sua macellazione. E ciò, sia per i meriti lavorativi acquisiti sul campo, sia per l’affetto che tutti, ma proprio tutti, operatori e pazienti, per lui nutrivano.
E non solo questo. In quella lettera ci si assumeva anche l’impegno di addossarsi l’onere delle spese relative: tanto per il versamento di una somma pari al ricavato della vendita per la macellazione, quanto per il suo mantenimento per la restante vita.
Il 30 ottobre dello stesso anno la Provincia di Trieste accolse la richiesta, stanziando l’acquisto di un motocarro in sostituzione del cavallo, che veniva quindi ceduto e affidato alle cure dei suoi salvatori.
Si arriva così al 1973. Avvenne dunque che il drammaturgo Giuliano Scabia e l’artista Vittorio Basaglia, insieme ad alcuni operatori, infermieri e pazienti, idearono il Marco Cavallo. Era questo un monumentale cavallo di legno e cartapesta che raffigurava l’animale reale: insomma, il simbolo della fine dell’isolamento dei malati mentali, un “cavallo di Troia”, contenitore e veicolo speciale d’irradiamento, luogo di infiniti sentieri, delle istanze di libertà e umanità dei malati.
I pazienti non parteciparono direttamente della sua costruzione, ma furono coinvolti nella scelta dei suoi contenuti artistici e immaginifici: ne decisero infatti il colore azzurro, simbolo della gioia di vivere e vollero che la “pancia” del cavallo contenesse i loro più profondi aneliti.
Il problema si presentò in occasione della prima esibizione nel febbraio di quell’anno. E per un momento, sembrò la fine di un sogno: costruita all’interno della struttura, non si era infatti tenuto conto dell’altezza dell’opera, sproporzionatamente sovradimensionata rispetto a tutte le porte dell’ospedale. Marco Cavallo, con profonda frustrazione dei pazienti, rischiava di rimanere recluso nello spazio dell’ospedale: e quale metafora mortifera ciò ebbe certamente a rappresentare per l’ineludibile paragone con la condizione dei malati.
L’impasse però fu superata con la decisione di sfondare alcune porte e un architrave; ciò permise l’uscita dell’installazione dall’ospedale, con l’iscrizione di una nuova metafora, questa sì, di vita piena.
Scarica il PDF
- 3 Marco Cavallo • 123 kB • 0 download