Il rapporto con l’oggetto è una delle possibili chiavi di lettura delle differenti scuole di psicoterapia. Una delle chiavi, certo, forse però la più importante perché contiene al suo interno la dimensione dell’individuale e del collettivo, dell’intrapsichico e della relazione.
L’oggetto freudiano e kleiniano
Asse centrale del modello freudiano è il concetto di pulsione:
<<Processo dinamico consistente in una spinta (carica energetica, fattore di motricità) che fa tendere l’organismo verso una meta. Secondo Freud, una pulsione ha la sua fonte in un eccitamento somatico (stato di tensione); la sua meta è di sopprimere lo stato di tensione che regna nella fonte pulsionale; la pulsione può raggiungere la sua meta nell’oggetto o grazie ad esso.>> (Laplance J.et Pontalis J.B. 1968, p.458)Il termine tedesco usato (Trieb) differenzia la pulsione dall’Istinto (Instinkt) e sottolinea il carattere di spinta della stessa, spinta dal corporeo allo psichico, talchè la pulsione si colloca al limite, al confine tra le due dimensioni.Negli anni dal 1880 al 1905, Freud elaborò il modello di affetti/difese, fondato sul principio di costanza: meta dell’apparato psichico è mantenere la stimolazione al livello più basso. La mancanza di scarica della pulsione determina l’evento patogeno. L’abreazione attraverso la ricostruzione e la rievocazione in terapia porta allo scioglimento del sintomo.Nel 1899, con L’Interpretazione dei sogni, Freud temporaneamente sostituisce l’affetto col desiderio, di fatto confermando un approccio orientato alla specificità di situazione “esterne” che determinano la maturazione del desiderio come ricrearsi di una percezione di appagamento, la cosiddetta identità percettiva. La tesi è confermata ne Gli Studi sull’Isteria (Freud S. 1905). Il salto epistemologico è notevole:sembra una evoluzione del modello mentre in realtà si tratta di una sua palese messa in crisi. Lo statuto per sua natura complesso, dinamico, contraddittorio, ansiogeno del desiderio si contrappone quasi per definizione all’omeostasi, assicurata dal principio di costanza. Sulla rotta del desiderio non ci sono stelle (de-sidera) che muovono l’uomo: il terreno è impervio, oscuro, la direzione ignota e, per giunta, è questo il suo fascino. Il successivo modello strutturale (1905/1910) delle pulsioni, infatti, abbandona questa impostazione e afferma definitivamente la natura delle pulsioni. Le pulsioni sessuali o libidiche e le pulsioni dell’Io o di autoconservazione(1) sono pulsioni primarie, originarie, come una forza di origine interna sottesa all’attività umana. E’ così che gli eventi esterni perdono progressivamente valore.Ne consegue che resistenza e rimozione, nel modello precedente scatenate dal complesso di idee dominanti secondo valori sociali, vengono attribuite ad una forza innata, filogenetica, come la pulsione originaria.Una sorta di rimozione organica. Nel consolidarsi del modello intrapsichico, oggetto e relazioni oggettuali non possono che essere per Freud funzioni della pulsione: la libido è orientata al suo soddisfacimento, la libido non è alla ricerca dell’oggetto. Tanto è vero che il passaggio dal primo oggetto parziale all’oggetto globale avviene attraverso l’integrazione delle pulsioni parziali nella sessualità genitale:dunque ciò che va superata è la scissione della pulsione non la scissione dell’oggetto. Potrà formarsi l’oggetto globale solo laddove e allorquando si realizzi integrazione dei disaggregati impulsi infantili (che hanno via via formato differenti oggetti parziali) nella sessualità genitale, la sola che può investire su un oggetto globale. Questo il perimetro nettamente definito del modello intrapsichico: l’oggetto, vale a dire la realtà esterna, le cose, le persone, le relazioni, sono funzioni della pulsione. E’ la pulsione che crea l’oggetto.
Si deve a Melanie Klein l’originale e fondamentale definizione di una nuova teoria della mente, che fa da cornice a originali definizioni dell’oggetto e della pulsione. La fantasia inconscia è la sostanza di base dei processi mentali innati del neonato:la fantasia non è più, come per Freud, un processo mentale che emerge in conseguenza di una frustrazione, ma un a priori fondativo di conoscenza
e di conoscenza attraverso l’esperienza. Esperienze certo fantasmatiche e onnipotenti, nelle quali l’amore per l’oggetto-seno buono è protettivo, l’odio per l’oggetto-seno cattivo è distruttivo.
Indubbia la portata innovativa del costrutto di fantasia inconscia primaria come “rappresentante psichico” delle pulsioni e del loro impasto. Altrettanto significativo il riferimento alla dimensione esperenziale. “Il bambino kleiniano immagina di possedere nel suo corpo gli oggetti buoni (che lo arricchiscono) e gli oggetti cattivi (che lo aggrediscono) contenuti nel corpo della madre. Tale scissione è la grande difesa, di fatto l’unica, in capo all’Io per rispondere all’angoscia primaria, che segna la nascita e dunque la rottura dell’unità prenatale”. (2)
L’ esperienza fantasmatica della rabbia e della frustrazione porta il bambino a sviluppare fantasie di possesso, controllo e distruzione, inevitabilmente accompagnate da paura della rappresaglia. La Klein definirà questa fase(3) come posizione paranoide, successivamente chiamata schizoparanoide, sotto l’influenza di Fairbairn che aveva sostenuto la corrispondenza delle scissioni di oggetti con le scissioni dell’Io. Sulla difesa da scissione, la Klein articola il meccanismo difensivo dell’identificazione proiettiva, per sua natura molto più “relazionale” della proiezione. Nella seconda metà del primo anno di vita, il bambino sviluppa la capacità di ricomporre oggetti buoni e oggetti cattivi: il terrore di distruggere l’oggetto intero scatena l’angoscia depressiva e la necessaria riparazione. In altri termini, quando è forte la spinta aggressiva, gli oggetti sono fantastici e di derivazione interna, quando prevale la ricomposizione, gli oggetti sembrano essere sintetizzati sulla base di assorbimenti di esperienza con oggetti reali. La fantasia inconscia primaria in quanto a-priori conoscitivo sostiene le prime sensazioni e dà loro forma di oggetti proiettabili e proiettati ma proprio perché cacciati all’esterno diventano necessariamente materia di negoziazione con la realtà.
E’ molto interessante l’ammissione delle incursioni della realtà nella trasformazione dei prodotti della fantasia inconscia primaria. Soprattutto è molto interessante l’evoluzione del pensiero kleiniano che, pur muovendosi dentro un orizzonte dichiaratamente freudiano, lavora sulle aporie dello stesso e ne modifica la sostanza. La distanza è vistosa se si esamina la natura delle pulsioni.
La meta della pulsione kleiniana è l’oggetto, non la sua scarica. Essa utilizza il corpo come strumento di espressione. La pulsione è un’emozione fortemente e necessariamente orientata alla relazione con l’Altro.
Jung :cade il paradigma centrista
Il percorso dinamico e progressivo della storia delle teorie di psicoanalisi e psicoterapia (in qualche modo lineare nel senso che dalle contraddizioni di un’impostazione nasce una nuova teorizzazione che ne scioglie le aporie, aprendone di nuove e così via) viene “interrotto” da Jung che di fatto sposta altrove il centro dell’attenzione. A partire da un ribaltamento del concetto stesso di centro della psiche. E’ quindi con Jung che cambia il paradigma di riferimento.(4)
Centrale nei modelli freudiani e kleiniani l’Io, mentre come sostiene Pieri<<Nella psicologia analitica decade il concetto di un centro della psiche costituito dall’Io, e si formula il concetto di un “centro potenziale” della psiche non identico all’Io, e attorno al quale lo stesso Io ruota. In altre parole, il termine viene utilizzato per designare fondamentalmente il “centro oggettivo” o luogo della trasformazione creatrice:esterno al soggetto già costituito, e costruito dall’attività psichica generale. In questo significato, è sinonimo di centro il termine Sé…, mentre l’Io è al centro della coscienza.>> (Pieri P.F. 1998, p.73) Il centro junghiano è totale, completo e globale. E’ un’immagine senza spazio e tempo al quale il soggetto può progressivamente accedere solo “esperendo” (perché di esperienza e non di conoscenza si tratta) la parzialità e l’unilateralità della coscienza.
L’Io non è più dunque servitore di due padroni ma di uno solo: l’acquisizione della consapevolezza del suo limite, compensabile da un’esperienza di totalità se impara a navigare tra le isole dell’arcipelago della psiche. Perché tutto ciò sia possibile, intanto sul piano metapsicologico, bisogna fare un passo indietro e comprendere bene l’origine della psicologia complessa e quindi il concetto di complesso. E’ da qui, infatti, che comincia tutto.
Negli anni tra il 1900 e il 1910 (quelli freudiani del modello affetti/difese e del successivo modello strutturale delle pulsioni), Jung sviluppa la teoria della complessità della psiche e dei complessi a tonalità affettiva. La psiche è complessa in quanto costituita da molteplici nuclei di organizzazione psichica, i complessi, dotati di relativa autonomia e di forte compattezza al proprio interno. Tale compattezza è garantita dalla tonalità affettiva che lega le componenti ideative (rappresentazioni prodotte dal pensiero) e le percezioni sensoriali (rappresentazioni prodotte dall’esperienza sensibile).
Se per Freud l’affetto è colore e intensità della libido, per Jung l’affetto è evento psichico fondamento della personalità. La distanza è netta. Pensieri e azioni sono sintomi dell’affettività e le rappresentazioni sono selezionate e raggruppate in insiemi più grandi dall’affetto.
La questione dunque – per tornare al tema della mia ricerca – non è sulla collocazione dell’oggetto. L’oggetto junghiano è (fin qui) la materia prima delle sensazioni e delle cognizioni, ha una sua realtà, è “esterno”. Non è funzione della pulsione. Non è contenitore di proiezioni.
Il tema non è questo. Il tema è la “qualità” della sua rappresentazione interna, rappresentazione sempre sensoriale – cognitiva – affettiva. E’ la possibilità della combinazione di queste componenti e della loro integrazione col complesso dell’Io che fa la differenza:<<[…]l’individuo è messo in crisi da se stesso o meglio dalla psiche stessa…>>. (Pieri P.F. 1992, p.762)
L’oggetto reale e l’oggetto della conoscenza
Se dunque l’oggetto è esterno in quanto materia prima delle sensazioni corporee e delle rappresentazioni ideative, è vero anche che il nuovo oggetto col quale ci misuriamo non è più realtà esterna, ma prodotto specifico del nostro apparato sensoriale e del nostro processo di pensiero.
<< In quanto tale, esso è ciò che si dà sul piano del pensiero, ed è, per così dire, la traduzione o sublimazione dell’oggetto reale, ottenuta attraverso la struttura logico-concettuale, e quindi ciò che è espresso o ricostruito nel linguaggio di uno specifico sistema teorico. In questo senso la conoscenza della realtà non è mai un rispecchiamento della realtà stessa o un’identificazione o riproduzione dei rapporti costitutivi dell’oggetto, cioè dell’ordine dei suoi elementi o delle sue strutture profonde.>> (Ivi p.102)
L’assonanza con l’epistemologia kantiana è immediata. Si tratta di capire quanto Jung abbia ripercorso il solco e quanta strada nuova abbia aperto. (5)
Secondo Kant, si ha conoscenza quando il giudizio che la esprime si fonda sull’esperienza (giudizi sintetici a posteriori) e su forme generali valide universalmente (giudizi analitici a priori). Il meccanismo percettivo e intellettivo è non solo lavorato ma reso possibile ai fini della conoscenza,da categorie che in quanto aprioristiche sono generali e generalizzabili. La conoscenza attraverso i giudizi sintetici a priori realizza la sintesi e supera la dicotomia uno/molteplice attraverso un’unità più profonda posta a presupposto di tutti gli atti: l’io penso, unità trascendentale dell’autocoscienza, che precede tutti i pensieri e fa sì che risultino connessi. Se questo è vero, allora è il processo conoscitivo stesso che valida l’esistenza, la possibilità, la necessità dei giudizi sintetici a priori. D’altronde, sostiene Kant, Copernico ha fatto la stessa cosa quando ha verificato che facendo ruotare la terra invece degli astri, la spiegazione dei movimenti celesti è risultata molto più semplice. Kant parla di conoscenza come approccio agli oggetti reali in forma di fenomeni.
In quanto fenomeni saranno manifestazioni di qualcos’altro: il fenomeno rimanda a qualcosa che non può essere un fenomeno, ma un oggetto che prescinde quindi dai nostri sensi, fuori dalla portata delle categorie applicabili secondo lo schema trascendentale. Di fatto un non-oggetto per il nostro intelletto. La cosa in sé, il noumeno contemporaneamente inconoscibile ma condizione stessa della conoscenza fenomenica. E ciò deve bastare, dice Kant. (6) Jung si misura dunque con questo impianto epistemologico che sancisce una netta demarcazione tra il fenomeno e il noumeno cioè fra il cosa e il come, il piano dell’effettualità e il piano di realtà. << […]quando parlo di realtà mi riferisco alle determinazioni della cosa in quanto tale, a tutto ciò che risulta necessario per poterla pensare in tutta la sua estensione possibile, in tutte le sue possibili varianti e modalità di presentazione, quando parlo di effettualità non aggiungo un elemento o aspetto che riguardi la cosa “in e per se stessa” ma pongo questa stessa cosa nella relazione conoscitiva. Ed è soltanto in questa relazione, secondo Kant, che il reale si legittima come effettivo.>> . (Tagliagambe, Malinconico A. 2011, p.56). E’di questa conclusione che Jung non si accontenta.
La rottura epistemologica che Jung attua passa attraverso un’estensione del concetto di realtà e uno spostamento dell’asse dalla conoscenza all’esperienza nella psiche.<< La realtà contiene tutto ciò che si può sapere, perché reale è ciò che agisce.>> (Jung C.G. 1933, p.411)
Solo l’unilateralità della coscienza dell’uomo occidentale considera reale tutto e solo ciò che proviene dai sensi, confinando nell’irrealtà del sovrumano, sovrasensoriale, soprannaturale tutto il resto,al punto da considerare elemento di disturbo persino lo psichico:
<< Nella nostra “realtà” ciò che è psichico non può essere altro che un effetto di terza mano…E’ “reale” un pensiero? Senza dubbio solo nella misura in cui – secondo questo modo di pensare – è in relazione con una realtà sensoriale. Se non lo è, è considerato “irreale”, “fantastico” e viene quindi respinto come inesistente.>> (ivi,p.413)
Eppure noi sappiamo quanto possa essere reale un pensiero, così come sappiamo che il rapporto della coscienza con la realtà materiale passa attraverso immagini, prodotte da quello che Jung stesso chiama un complicato processo inconscio. (7) <<Soltanto a ciò che è psichico va riconosciuto il carattere di realtà immediata, e precisamente ad ogni forma di ciò che è psichico,perfino alle rappresentazioni e ai pensieri “irreali”che non si riferiscono a niente che “sia al di fuori.”>> (op.cit. ,p.413)
Triplo salto mortale: Jung ha esteso il concetto di realtà, aperto la dimensione della possibilità, sostituito la psicologia alla filosofia. L’intelletto, il pensiero razionale, la conoscenza, la sophia si fermano davanti all’ignoto. La psiche è fatta (anche) di ignoto.
<<Dalla psiche procede assolutamente ogni esperienza umana, e a lei ritornano infine tutte le conoscenze acquisite. La psiche è inizio e fine di ogni conoscenza. Anzi, essa non è soltanto l’oggetto della sua scienza, ma ne è anche il soggetto.>> (Jung C.G. 1936, p.143)
Se la psiche è soggetto e oggetto di conoscenza, se è divenire e divenuto, se è un elemento del mondo e condizione per l’esistenza del mondo, la vera questione è attraversare – e come – queste polarità per arrivare alla totalità.Risulta rivoluzionata la logica classica:vale il principio di contraddizione, l’antinomia è situazione fondante della psiche e del discorso sulla/nella psiche.
Risulta rivoluzionata anche la dialettica perché non c’è una sintesi superiore che cancelli la tesi e l’antitesi, ma una nuova combinazione che realizza un nuovo equilibrio tra opposti in tensione tra loro, attraverso la formazione del simbolo. Jung attribuisce questa possibilità alla funzione trascendente, cosiddetta non perché evochi scenari metafisici, ma perché consente il passaggio da un atteggiamento a un altro.
<<Il compito che Jung assegna alla funzione trascendente è quello di unificare in una sintesi dinamica i polivalenti significati dell’immagine metaforica producendo l’evento che rappresenta, appunto, l’esperienza simbolica. Di promuovere il passaggio dalla metafora al simbolo.>> (Migliorati P. 2000, p.90)
La metafora ci aiuta nel trasportare un’immagine, il simbolo produce senso e attiva esperienza trasformatrice. Il simbolo è azione dinamica, <<[…]è come un accadimento che nasce quando la coscienza si è posta in uno stato sospensivo.>> (ivi, p.96)
Che ne è, a questo punto del nostro oggetto della conoscenza come prodotto del processo di pensiero?
Le due forme del pensare e del conoscere
Di quale pensiero parliamo quando parliamo di pensiero? Per Jung, com’è noto, non esiste una sola forma di pensiero.C’è un pensare logico e razionale,indirizzato e adattato, un pensare con parole e un secondo, un pensiero soggettivo, inutile, improduttivo ai fini dell’adattamento che, invece, <<volge le spalle alla realtà, mette in libertà tendenze soggettive>>. (Jung C.G. 1912/52, p.32)
Questa forma del pensare per il fatto stesso che c’è si afferma come un dato di fatto oggettivo che non vuol dire razionale: vuol dire reale perché, come abbiamo visto, reale è ciò che agisce. L’azione (diciamo così) prodotta da questa forma del pensare arriva all’immagine primigenia che il pensiero esperisce in tutta la sua rivelazione, tornando indietro verso quell’universo archetipico in cui <<Il pensiero era oggetto di percezione interna, non era pensato ma sentito, per così dire veduto, udito come fenomeno esterno. Il pensiero era essenzialmente rivelazione; non era inventato ma imposto, o convincente per la sua diretta realtà. Il pensare precede la primitiva coscienza dell’Io, che ne è piuttosto l’oggetto che il soggetto.>> (Jung C.G. 1934-1954, p.31)
Stiamo parlando di un pensiero percepito sensorialmente, precedente alla formazione dell’Io. Stiamo parlando di una realtà (in senso junghiano) che precede scienza e coscienza, nella quale il capovolgimento è tale che soggetto e oggetto cambiano completamente segno e direzione.Se ci sono due forme del pensare ci sono anche due forme del conoscere.<<Nel processo della conoscenza vengono…distinti sia un momento di chiusura sia un momento di apertura. Nella chiusura del processo conoscitivo l’oggetto reale e l’oggetto della conoscenza coincidono analogicamente…e in quanto tali tendono a sovrapporsi confusamente…Nella riapertura del processo conoscitivo, essi non coincidono più e, -proprio nella non coincidenza- tendono a mostrare l’irriducibile differenza che intercorre tra l’uno e l’altro. In tale riapertura si dà anche la possibilità di una nuova attribuzione di significato all’oggetto reale, che in questo senso assume il carattere di un nuovo oggetto della conoscenza. >> (Pieri P.F. 1998, p.291)Pieri sostiene che nel momento di chiusura si realizza “un guadagno provvisorio” di indipendenza dell’oggetto dal soggetto,dalla sua coscienza e dallo stesso processo di conoscenza: il sistema si blocca quando i suoi vari passaggi non sono più in sinergia l’uno con l’altro. Un sapere fondato sull’autonomia dell’oggetto è sapere autoreferenziale: è il suo stesso limite a decretarne l’assolutezza. Nel momento, invece, di riapertura, tutti i differenti attori del processo cognitivo sono chiamati a raccolta, per conferire un nuovo significato all’oggetto, al soggetto e allo stesso processo cognitivo.La chiusura produce segni. La riapertura simboli.
Stante dunque l’oggetto reale così come si presenta al soggetto cosciente,il primo lascia al secondo due possibilità: assumerlo in una conoscenza collettiva valida e condivisa che sull’indipendenza di quell’oggetto fonda la sua legittimità oppure scavare dentro l’oggetto e dentro se stesso, andare nel fondo comune, mantenere viva la tensione oppositiva. (8)
La nostra coscienza si trova tra i due fuochi della verità razionale e della verità irrazionale:<<l’una offende il nostro sentimento,l’altra la nostra ragione e tuttavia l’umanità ha sempre provato il bisogno di conciliare in qualche modo le due immagini del mondo…Ritengo che la conciliazione…possa realizzarsi nel simbolo, perché il simbolo contiene, per sua natura, ambedue gli aspetti, quello razionale e quello irrazionale. Ciascuno di essi esprime anche l’altro, cosicché il simbolo li abbraccia entrambi senza identificarsi con nessuno dei due.>> (Jung C.G. 1918, pp.16-17)
Appunto, il simbolo non “si schiera”, combina e compone le differenze. Se c’è una differenza che si vede, palese, conscia, chiusa quindi finita non possiamo non pensare che esista un’identità nascosta, inconscia, infinita che attiva e sostanzia la funzione simbolizzatrice.
Lo sfondo
<< L’identità è sempre un fenomeno inconscio, giacché un’uguaglianza cosciente sarebbe di già la consapevolezza di due cose uguali tra loro e presupporrebbe quindi una separazione tra soggetto e oggetto, con il che il fenomeno dell’identità sarebbe già annullato. L’identità psicologica ha come presupposto il suo essere inconscia. Essa è una caratteristica della mentalità primitiva ed è la base vera e propria della partecipatione mystique la quale infatti altro non è che un residuo della primordiale mancanza di distinzione psichica fra soggetto e oggetto, dunque del primordiale stato inconscio >> (Jung C.G. 1921, p.451)
Mentalità primitiva, stato mentale della prima infanzia, inconscio dell’uomo civilizzato adulto, partecipation mystique sono mete e mezzi del viaggio verso l’identità inconscia: viaggio quasi obbligato se e quando vogliamo attribuire nuovo senso al nostro cammino.
<<Tale stato di indifferenziazione o di indifferenza è intenzionato (o in tale stadio ci si viene a trovare) non una volta per tutte, ma ogni volta che ci sia da ristrutturare i significati delle cose e di sé, in quanto i significati già assegnati non hanno più senso.>> (Pieri P.F. 2000, p.779)
Cioè quando siamo schiavi dell’indipendenza dell’oggetto.
Cioè quando siamo intrappolati nell’unilateralità della coscienza.
Cioè quando una selva di segni blocca l’azione del simbolo.
Quella della coscienza discriminante, sostiene Jef Dehing,è una maledizione: conosciamo la differenza tra il bene e il male, ma abbiamo perso il legame naturale con la Realtà perché non sopportiamo il peso della sua inaccessibilità. Identità primaria inconscia e coscienza discriminante hanno, però, pari dignità: a pensarci bene, è difficile anche dire se c’è un prima e un dopo. (9)
Perché sicuramente la differenziazione avviene staccandosi dall’unità originaria ma di questo il soggetto cosciente non ha consapevolezza, tanto che qualsiasi passo compia per conferire nuovo significato a sé e alle cose gli sembra un passo avanti. Quando invece è più possibile pensare che sia un passo indietro.<<La coscienza tuttavia – in quanto organo che distingue – percepisce la differenza prima di scoprire l’identità: uno stato di identità inconscia non può essere considerato tal quale è; la differenza va di pari passo con l’identità perduta, ma solamente aprés coup.” E ancora:“quei passaggi possono sembrare al soggetto una sua scelta ma sappiamo che in realtà nell’identità primigenia è già contenuto il germe del futuro. >>( Dehing J. 1999,p.61) (10)
Abbiamo visto che lo stesso Kant supera la dicotomia uno/molteplice attraverso un’unità più profonda posta a presupposto di tutti gli atti: l’io penso, unità trascendentale dell’autocoscienza, che precede tutti i pensieri e fa sì che risultino connessi.Mi sembra che Jung, assumendo questa impostazione, le fa compiere una significativa evoluzione definendo come totalità del Sé quell’unità trascendentale, fondativa della conoscenza ma anche dell’esperienza, di pensieri ma anche di sensazioni, memorie, affetti.Esperienza del nostro altro modo di pensare e di quella che – come abbiamo visto- Dehing chiama coscienza non discriminante, quella che riesce a vivere la partecipation mystique.Un residuo, un anello di possibile congiunzione con l’identità inconscia primaria, un aggancio naturale, una sorta di calamita alla quale la coscienza discriminante dell’uomo adulto civilizzato oppone resistenza ma che, non per questo, smette di esercitare il suo potere attrattivo intanto nelle forme più immediate come può essere la proiezione di contenuti inconsci nell’oggetto.
Lo stesso Jung, secondo Dehing, rivede la sua posizione sulla proiezione quando, nel seminario Visioni afferma che il termine proiezione è del tutto improprio perché <<tutti i nostri contenuti psicologici sono stati trovati nel mondo esterno:in origine non si trovavano assolutamente nelle nostre tasche>> (Jung C.G. 1930-34, pp.159-160) con grande smacco della coscienza.
A questa affermazione scioccante di Jung, Dehing dà la seguente spiegazione:
<<D’altronde le pre-concezioni innate hanno sempre (o quasi sempre) bisogno di un oggetto esterno per realizzarsi. E’ solo dopo questa realizzazione, con l’esperienza emozionale concomitante, che il contenuto potrà essere “integrato, “introiettato”, come elemento psichico.>> (op.cit, p.70) Senza quella preconcezione innata, senza l’a priori, senza l’archetipo, l’abisso tra soggetto e oggetto, tra individuo e realtà esterna sarebbe incolmabile. Sarà poi la coscienza che differenzia, sarà l’Io a dare vita, su queste fondamenta, alle costruzioni dell’homo sapiens.Tanto più sapiente se accetta il limite della sua coscienza e ri-attiva il legame profondo con la Realtà: luogo primo e ultimo dove cadono le differenze tra soggetto e oggetto, tra oggetto interno e oggetto esterno. Difficile parlarne e impossibile descriverlo. Di fatto, quindi, l’archetipo in sé come un a priori conoscitivo, <<una possibilità innata di rappresentazione che in quanto tale presiede all’attività immaginativa>> (op.cit., p.42), e per questo contemporaneamente un apriori esperenziale che rende possibile vivere la potenza dell’archetipo stesso.
<<All’uomo primitivo non importa quasi affatto conoscere la spiegazione oggettiva dei fenomeni evidenti; egli sente invece la perentoria necessità, o meglio, la sua psiche inconscia avverte l’irresistibile impulso di far risalire ogni esperienza sensibile a un accadere psichico. Al primitivo non basta veder sorgere e tramontare il sole: quell’osservazione esteriore deve costituire al tempo stesso anche un “accadimento psichico”, e cioè il sole nel suo peregrinare deve rappresentare il destino di un dio o di un eroe il quale, in fin dei conti, non vive che nell’anima dell’uomo. Tutti i fenomeni naturali mitizzati [.. sono..espressioni simboliche dell’interno e inconscio dramma dell’anima il quale diventa accessibile alla coscienza umana per mezzo della proiezione[…]La proiezione(11) è così radicata che sono occorsi alcuni millenni di civiltà per separarla, sia pure in misura relativa, dall’oggetto esterno.>> (Jung C.G. 1934, pp.5-6) In fondo, l’uomo primitivo mitizza i fenomeni naturali perché ha paura che il sole non sorga più, perché è terrorizzato dalle fiere, dall’altro uomo, dalla donna. E quella paura, quei fenomeni rimarranno miti per sempre.
Il mito, la fiaba ci aiutano a comprendere cosa sia psicologicamente l’archetipo: mai l’umanità ha mancato di immagini potenti, apportatrici di magica protezione contro la perturbante realtà delle profondità psichiche. Ogni volta che l’uomo ha riflettuto su queste immagini l’ha fatto con la ragione,cioè con la somma delle sue prevenzioni e miopie. Occorre invece ricostruire la dimora spirituale nella quale l’intelletto è detronizzato e si possa manifestare la presenza numinosa.
Il calderone di quelle immagini archetipiche è l’inconscio collettivo:<< L’inconscio collettivo non è affatto un sistema personale incapsulato, è oggettività ampia come il mondo, aperta al mondo. Io vi sono l’oggetto di tutti i soggetti, nel più pieno rovesciamento della mia coscienza abituale, dove io sono sempre soggetto che “ha” oggetti; là mi trovo talmente e direttamente collegato con il mondo intero che dimentico (anche troppo facilmente) chi io sia in realtà.>> (ivi, p.20)
Ampia oggettività, a priori di conoscenza ma anche matrice di ogni esperienza che arriva a possedere il soggetto in un’avventura individuale (anzi, individuativa) ma insieme collettiva.
Di fronte alla potenza di queste immagini, il soggetto è posseduto perché si è messo nella posizione del lasciarle accadere, di osservarle e di dare loro un senso, provando così a trasformare quella sofferenza di fronte alla quale le sue scelte, le sue azioni, la sua volontà niente più possono.
La decisione cosciente, la responsabilità etica del soggetto è, appunto, nel non frapporre ostacoli, nel lasciar accadere, nel consentire l’emergere dell’emergenza.
<<In sostanza , l’emergenza si basa sulla nozione che all’interno di un certo tipo di sistema possano prendere vita fenomeni senza alcuno stato precursore che ne predica la comparsa>> (Hogenson G.B. 2004, p.46). Certo, e qui Hogenson lo dimostra, si può oggettivare l’emergenza di un fenomeno: questo non toglie nulla al carattere numinoso della sua apparizione e nemmeno alla sua natura di fenomeno, vale a dire di manifestazione di qualcosa di inconoscibile collocato altrove.
Oggettivare per osservare e conferire senso. La situazione analitica è questo: è pensiero su questa emergenza. Un pensiero, dunque una funzione razionale su un accadimento del tutto estraneo a qualsiasi razionalità. Sono queste le premesse teoriche e cliniche per la formazione del simbolo. E’ la funzione trascendente ad attivare tale trasformazione: è questo un processo contemporaneamente naturale/ spontaneo e provocato/ attivato dall’intervento dell’analista.
Il possibile
L’oggetto reale (diciamo così) ha costellato complessi, per la composizione dei quali occorre avviare – insieme all’analista – il viaggio verso l’unità originaria dalla quale quello stesso oggetto ha preso forma in un’immagine.
E’ a questo impianto che bisogna continuamente far riferimento sul piano teorico e sul piano clinico.Ed è per questa ragione che persino una distinzione così orientata sull’oggetto, quale quella tra tipo estroverso e introverso, risulta parziale e incomprensibile se non si aggancia alla dimensione cosciente la funzione compensatrice di quella inconscia. La differenza sostanziale, dice Jung, nell’un caso e nell’altro, è nella natura dei termini di paragone:
<<L’oggetto è un’entità di indubbia potenza, mentre l’Io è qualche cosa di assai limitato e di assai labile. Le cose starebbero diversamente se di fronte all’oggetto si presentasse il Sé. Il Sé e il mondo sono entità tra loro commensurabili, perciò un’impostazione introversa normale ha altrettanto ragion d’essere e altrettanta validità di una normale impostazione estroversa.>> (Jung C.G. 1936, p.452) L’Io sta al Sé come l’oggetto sta al mondo: alla tensione dell’Io corrisponde la tensione dell’oggetto, se e quando si voglia conferire senso e trasformare la sofferenza psichica portata in analisi.
Non c’è, mi sembra,solo un Io cosciente che intenziona l’oggetto, che dunque non è intenzionato, ma semmai intenzionante.L’oggetto junghiano è reale perchè agisce, perché ci mettiamo nella condizione di favorire quell’azione, tornando all’unità originaria della psiche, sfondo di tutte le figure di esperienza e conoscenza.
L’oggetto junghiano è questo sfondo, l’infinita cornice, l’area senza perimetro di tutte le possibilità.
Dunque, il possibile.
Note
- 1.Nel 1920, in Al di là del principio del piacere, Freud concesse all’aggressività lo statuto di pulsione autonoma nella forma di impulso di morte, contrapposta alla pulsione libidica.
- 2.“La fantasia è (prima di tutto) il corollario mentale, il rappresentante psichico della pulsione. Non esiste pulsione, non esistono né bisogno né reazione pulsionale che non siano vissuti come fantasia inconscia” S.Isaacs (1943), The Nature and Function of Phantasy, cit. in J.Kristeva(2000), Melanie Klein, Donzelli Ed, Roma 2006, pp.153-154.
- 3.Il termine fase non va inteso in senso evolutivo, ma ontologico. La proiezione all’esterno dell’oggetto cattivo interno e la conseguente ansia persecutoria sono esperienze del bambino e possibili e patologici modi d’essere dell’adulto.
- 4.Il richiamo è all’impianto epistemologico costruito da Kuhn ne La struttura delle rivoluzioni scientifiche. Nel caso in questione sarebbe meglio, però, parlare, con Bachelard, di coupure épistemologique.
- 5.Non si tratta, purtroppo, di una mia intuizione.Il rapporto tra Kant e Jung è stato ampiamente e autorevolmente studiato e dimostrato. Oltre che riconosciuto dallo stesso Jung.
- 6.Sarà il pensiero filosofico successivo a Kant che, non reggendo l’angoscia dell’inconoscibile, lo chiamerà Spirito Assoluto. Ma questa è un’altra storia.
- 7.Al fine di individuare forme a priori ordinatrici (come la categorie kantiane) nel rapporto tra mondo psichico e realtà, Jung sviluppa la teoria degli archetipi.
- 8.Tra oggetto e soggetto, tra universo individuale e collettivo, alla fine tra conscio e inconscio.
- 9.J.Dehing parla in questo caso di coscienza non discriminante
- 10.Si potrebbe definire un’entelechia, ciò che ha in sé il suo fine. O, per dirla con Jung, una possibilità di fine.
- 11.Ecco un’altra e forse più esauriente spiegazione della questione proiezione e oggetto esterno/interno.
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