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Lo scandaloso spirito dalla filosofia alla psicoanalisi alle neuroscienze

Rivista annuale a cura del Centro Italiano di Psicologia Analitica Istituto di Roma e dell’Italia centrale

QCJ 2012

2012 Numero 1

Lo scandaloso spirito dalla filosofia alla psicoanalisi alle neuroscienze

C’è ancora posto per lo spirito?

Può sembrare alquanto anacronistico parlare di spirito oggi che la prepotente affermazione delle neuroscienze nega un posto anche all’anima-psiche. Lo spirito presuppone una concezione tripartita dell’essere umano, dove esso rappresenta la parte più nobile, evoluta e differenziata dell’anima. La differenziazione tra anima e corpo presuppone una visione dualistica dell’essere umano. Molti neuroscienziati propendono per una visione monistica, che si riassume nell’isomorfismo funzionale tra mente e cervello, e parlano di un’unica entità, il cervello mente, dove la mente è il prodotto funzionale dell’attività del cervello, un suo epifenomeno, allo stesso modo in cui un ormone è il prodotto funzionale di una ghiandola endocrina. Questa posizione, il cosiddetto “monismo neurale” sostiene l’identità tra il mentale e il fisico, ma così facendo riduce il mentale al fisico, e sostanzialmente identico è il dual aspect monism, monismo dal duplice aspetto percettivo, secondo cui mente e cervello sono fatti della stessa sostanza, che si esprime con due diverse fenomenologie. Secondo Solms e Turnbull (2002), la natura della realtà ultima di cui siamo costituti è indeterminata e nella sua essenza inconoscibile, ma volta per volta assistiamo a fenomeni o mentali o fisici, che sono tali in virtù del nostro apparato percettivo: se noi ci percepiamo dall’interno abbiamo a che fare con un evento mentale, se dall’esterno con un evento fisico. In fondo si tratta sempre di una questione di modelli, attraverso i quali ci approcciamo al fenomeno da osservare. Passando dal modello triadico, al dualismo, e infine al monismo si perde ogni volta qualcosa, e lo spazio dello spirito, dopo essersi notevolmente assottigliato dalla filosofia alla psicoanalisi, sembra essere del tutto scomparso nelle neuroscienze. Questo in apparenza, perché nelle neuroscienze si sono aperti dei filoni di ricerca, quali quelli sul processo decisionale e il patrimonio etico, la meditazione e la mindfulness, e infine le ipotesi quantistiche sulla coscienza, che dimostrano un rinnovato interesse verso questioni rimaste disattese anche dalla filosofia.

Alla fine del millennio Michael Persinger aveva costruito una macchina, la God Machine, consistente in una specie di casco che produceva una stimolazione cerebrale, mirante in particolare al lobo temporale destro, che mimava i treni di onde elettroencefalografiche registrati in pazienti epilettici in preda a crisi mistiche, in base all’idea che la macchina stimolasse aree cerebrali capaci di codificare l’esperienza mistica. In realtà l’effetto della macchina era nullo sugli scettici. Ramachandran (1998) cita i pazienti affetti da epilessia temporale i quali riferiscono frequenti tematiche religiose nei periodi interictali e reagiscono massivamente al test psicogalvanico quando vengono loro mostrate immagini di Dio, a differenza dei non epilettici. Un’ipotesi è che ci sarebbe un’emozione di Dio nel lobo temporale destro, conservatasi per qualche ignoto vantaggio evolutivo. D’altra parte, anche il lobo parietale destro è implicato nel fenomeno, potendovisi provocare esperienze soprannaturali attraverso la transcranic magnetic stimulation.

Le neuroscienze cognitive hanno istituito un ambito di ricerca dedicato, la neuroteologia, e la ricca e integralista John Templeton Foundation negli Stati Uniti ha stanziato ingenti finanziamenti per la ricerca scientifica volta a dimostrare l’esistenza di Dio. Questo filone d’indagine mira a un duplice obiettivo, da un lato reagire alla tendenza appiattente e mortificante del riduzionismo, che quando dice che il principio esplicativo è unico in realtà riconduce tutto alla materia; dall’altra ritrovare i correlati neurofisiologici anche della dimensione religiosa che è comunque parte dell’esperienza umana. L’ipotesi più corrente è che non ci siano strutture neurobiologiche specifiche legate alla religiosità, ma l’esperienza religiosa utilizza sistemi cognitivi di inferenza parimenti utilizzati in contesti non religiosi: l’esperienza del soprannaturale mantiene così una forte connotazione umana.

Anima e spirito sono entrambi contrapposti concettualmente al corpo: l’anima o mente oppure psiche sta più per l’attività mentale globale, che include nel suo insieme il territorio di confine dove il soma trapassa insensibilmente nella psiche (pulsioni, fantasie inconsce) e quindi comprende anche l’inconscio. Lo spirito invece indica un’attività psichica differenziata, organizzata e direzionata, con uno specifico senso dell’individualità e del confine, sia all’interno (coscienza versus inconscio) che all’esterno (io versus altri). Se passiamo dal sostantivo all’aggettivo, lo “spirituale”, secondo l’Enciclopedia Treccani, è “ciò che è immortale, esente da materialità; che appartiene alla sfera dello spirito: esseri, creature, per esempio gli angeli e i santi, nella comune concezione… proprio dello spirito, inteso come complesso e centro della vita psichica, intellettuale e affettiva dell’uomo”. La spiritualità implica che oltre alla materia visibile esista un livello spirituale di esistenza, dal quale la materia trarrebbe vita, intelligenza o finalità d’esistenza. Il mondo spirituale si colloca al di fuori della materia e dunque dell’indagine fatta con mezzi materiali, ed è quindi totalmente astratto, circoscritto alla mente, che è l’unica facoltà umana che lo può investigare. Religione e spiritualità spesso vengono trattate come sinonimi, impropriamente, perché esiste spiritualità senza religione (anche alcuni non credenti rivendicano una propria dimensione spirituale), ma anche religione senza spiritualità (la religione puramente di facciata). Entrambe si riferiscono alla ricerca dell’Assoluto, o di Dio, solo che la religione indica un tipo di ricerca esteriore, formale, appoggiata al collettivo, mentre la spiritualità riguarda un fatto interiore, individuale, sostanziale, dove per conseguenza la fede diviene qualcosa di personale, antidogmatico, autentico, esperienziale.

Lo spirito nella filosofia

Secondo gli Stoici il pneuma è l’energia vitale che sostiene tutta la realtà, il principio formativo, l’anima mundi. Nella medicina antica e medioevale esso passa a designare una sostanza materiale corporea e sottilissima, lo spiritus corporeus sive animalis. Il pensiero cristiano intende il pneuma in senso immateriale, come soffio divino animatore dell’universo – e in questa accezione esso viene ripreso da Giordano Bruno nel rinascimento – e poi lo riferisce a Dio e all’uomo: San Paolo, Filone l’Ebreo e Origene contrappongono lo spirito alla carne. La teologia e la filosofia cristiane parlano oltre che dello Spirito Santo di spiriti puri (Dio e gli angeli) e di spiriti infiniti, dai quali si distinguono gli spiriti finiti, ossia le anime umane.

Il domenicano Meister Eckart (2002) in un celebre sermone che spiega l’eterno dilemma del significato dell’espressione “poveri di spirito”, egli dice che l’uomo “povero di spirito”, che niente vuole, niente sa, niente ha, si distacca infine da se stesso, annullando la volontà, la conoscenza, l’amore, con un’operazione che richiede tutta l’anima e si compie attraverso la soppressione dei legami dell’Io, tagliando alla radice l’autoaffermatività e l’appropriazione (Eigenshaft) implicite dell’Io psicologico, perché, sciolto il legame al particolare, alla finitezza, a se stesso, esso possa volgersi a e dissolversi nell’universale; egli abbandona l’Io come centro di volizioni e produzione di rappresentazioni volte ad un fine, dal momento che dove c’è un fine c’è un perché, e l’opera buona, l’azione divina, è quella compiuta senza un perché, nell’assoluta naturalezza dell’essere. Attraverso il distacco Eckhart giunge alla dialettica, nella quale tutti i contenuti sono padroneggiati, visti nella loro verità relativa e nella loro assoluta falsità, in quanto incapaci di comprendere il contrario. Se infatti l’uomo povero di spirito abbandona se stesso, impresa ancora più difficile che abbandonare il mondo, e si distacca dall’Io come centro di volizioni, immagini, emozioni, sì che allo strepito del molteplice subentra la pace della simplicitas, dell’Uno, dell’unitas spiritus, ecco che allora Dio discende nell’anima. Nel distacco, in quanto somma di intelligenza e amore, si passa dall’accidentale psichico all’essenziale, alla vera sostanza dell’anima, che è lo spirito, pienezza di amore e di comprensione che trabocca dal fondo dell’anima, dove fondo non è il torbido e l’oscuro, ma l’assolutamente chiaro.

Cartesio nel suo Trattato sulle passioni dell’anima parla degli spiriti animali come fondamento fisiologico dell’attività psichica. Essi sono a suo avviso corpi piccolissimi e agitati da un rapidissimo movimento, i quali, emanati dal calore del cuore, si spandono verso i nervi e i muscoli, producendo i movimenti. La ghiandola pineale può essere mossa dagli spiriti animali in maniera corrispondente alla diversità degli oggetti che li stimolano. Cartesio da una spiegazione molto sui generis  del rapporto anima-corpo, ritenendo che l’anima eserciti la sua influenza sul corpo attraverso la più interna delle parti del cervello, la ghiandola pineale, la quale diventa la principale sede dell’anima. L’anima però non ha un potere assoluto sulle passioni, le quali sono non solo causate, ma anche mantenute e rafforzate dal movimento degli spiriti animali, cosicché, fintanto che dura l’emozione provocata dagli spiriti, le passioni restano presenti al pensiero, come gli oggetti sensibili restano presenti finché agiscono sugli organi di senso.

Spinoza è un antesignano del dual aspect monism: secondo lui vi è un’unica sostanza, che coincide con la natura, e questa è parte di Dio, il quale non si identifica con la natura in senso panteistico, ma la comprende nella sua totalità (Deus sive natura). La realtà di Dio è l’unica sostanza, mente e corpo insieme, e la mente umana è una parte dell’infinito intelletto divino. Mente e corpo non sono che due aspetti di un’unica realtà, la realtà divina, che può essere studiata sia sotto l’aspetto della prima, che di quello del secondo, con rigoroso parallelismo. La mente può avere idee adeguate, e in tal caso pensa correttamente e l’individuo si comporta conseguentemente; oppure può essere determinata passivamente dagli affetti, e in tal caso ragiona con idee confuse. La conseguenza di questa soggezione agli affetti è che la mente ha una conoscenza inadeguata delle cose, pensa male e quindi pensa il male; il pensiero del male deriva dall’ingiustizia ed è tristezza, e la tristezza è pensiero del male. Il pensiero del male è cogitatio vana, sine intellectu, un pensiero cattivo e sciocco, perché tenta di pensare il nulla. La libertà, che coincide con la beatitudine, si ha quando la ragione, che è la potenza della mente, governa gli affetti. Conoscenza di sé, di Dio e delle cose coincidono: il saggio non pensa il male, comprende la realtà nella sua intierezza, esce dall’alienazione del futuro e del passato e vive nell’eterno presente.

Nel pensiero illuminista lo spirito si distingue dall’anima, che deriva dalla natura e rappresenta la realtà psichica, mentre esso è il prodotto dell’educazione e dei costumi sociali ( cfr. Helvetius, Sullo spirito, e l’indagine di Montesquieu sullo spirito delle leggi). Ma nello stesso periodo lo spirito si guadagna i favori dell’irrazionalismo: Swedenborg lo introduce come protagonista dell’aldilà, suscitando la reazione di Kant (I sogni di un visionario [1766], ovvero di uno che vede spiriti), che usa il termine per indicare il potere produttivo e l’originalità creativa della ragione. In questa accezione è ripreso dalla filosofia romantica, che va ben oltre i limiti formali del criticismo kantiano e ne fa un uso metafisico, specie con Shelling.

Hegel

Hegel riprende e applica al cammino di autoriconoscimento dello spirito quella procedura dialettica che Meister Eckhart aveva applicato alla relazione tra Dio, l’assoluto, e l’Io, il soggetto, polo del relativo. Nel filosofo di Stoccarda la verità come tutto non va intesa solo come sostanza, alla maniera di Spinoza, perché in questa dimensione basta l’autocoscienza, ma va intesa come soggetto, e come risultante di un movimento. Per questo Hegel usa il termine spirito, che implica un dinamismo. Il soggetto di cui parla Hegel non è il piccolo Io psicologico, anzi, questo è la finitezza che deve sparire, proprio perché si comprenda il vero come l’intero. Il movimento richiede l’elemento riflessivo, che significa il momento della negazione, della consapevolezza, in cui l’oggettività è posta, e poi superata, in quanto riflessa in se stessa. Occorre riportare tutto quanto al soggetto, e inserire il negativo in ogni elemento della coscienza: se un pensiero non ha in sé il negativo, esso è il male dell’affermatività non dialettica, non in grado di comprendere l’opposto.  “La realtà è il movimento della vita della verità”, dice il filosofo di Stoccarda, e il concetto di verità vivente richiede un Dio in movimento, e quindi spirito, non immobile sostanza. Il suo muoversi significa il divenire, e implica il passaggio per il non-essere, per il nulla, ovvero per la negazione, la finitezza e la morte, dove la negazione viene negata. Dio è spirito, negazione della negazione, dice Hegel seguendo Eckhart, e così il vero è l’intero, e non c’è nessuna parte da buttare via come cosa inutile, inerte, falsa, opposta ad un’altra che, supposta come vera, senza la prima sarebbe anch’essa inerte, senza scopo e senza vita.

Il divenire dello spirito passa per l’esperienza della morte, riprendendo il linguaggio dei mistici, ad esempio S. Giovanni della Croce, dove per rendere l’anima sempre più aperta alla divina influenza della grazia e dei suoi doni bisogna sottrarla progressivamente all’influenza delle creature, attraverso la spoliazione, ovvero la purificazione delle sue facoltà non solo per quel che riguarda il loro oggetto ma anche nel loro principio soggettivo e nel loro modo di azione. In Hegel, riconoscere l’infinità in se stesso porta a riconoscere la finitezza, ma questo momento di negazione è l’inizio del processo di riappropriazione di sé. La sostanza diventa soggetto, spirito, nel momento in cui assume il dolore della lacerazione, passa per la morte e la sopporta. Si tratta in Hegel della morte dell’elemento naturale, della morte dell’anima, e dell’emergere dello spirito, sostanza vera dell’uomo. La Fenomenologia dello spirito  è la storia del progressivo manifestarsi dello spirito attraverso una serie di morti, fino alla gioiosa esplosione della consapevolezza della vita che dura dopo la morte.

Lo spirito in Jung

Jung è uno dei pochi autori psicoanalitici che usa il termine spirito. Forse non poteva non farlo per la sua dimestichezza col mondo del paranormale, cui aveva dedicato la tesi di laurea. Successivamente, in Spirito e vita (1928), parlando dello spirito egli lo mette in correlazione col principio dell’Io, ovvero di quel complesso di attività psichiche direzionali che fanno riferimento alla coscienza, mentre parla dell’anima come di una serie di immagini,  che affondano le loro radici nei processi vitali del soma, in parte inconsce e in parte consce, ovvero come “una intuibilità di attività vitali espressa in immagini”. L’anima, dunque, è più legata al corpo dello spirito, che invece è contrapposto ad esso in quanto rappresentante della materia. L’anima è una sorta di intermediaria tra corpo e spirito; essa traduce in immagini il complesso dei circuiti di regolazione omeostatici che assicurano continuità dell’organismo, e i continui aggiustamenti cui essi sottostanno per adattarsi ai mutamenti ambientali. Il fenomeno dello spirito, invece, è più legato all’attività cosciente, al processo discorsivo e razionale, ma esso attinge anche ad una attività psichica superiore. La sovra-coscienza, o coscienza superiore, consiste per Jung essenzialmente in una ricca attività simbolica, fatta di simboli transpersonali, gli archetipi. In Energetica psichica, Jung afferma che lo spirito è composto dalla somma degli spiriti dei predecessori, dalle autorità invisibili innate nella mente infantile, ed esso è contrapposto alle pulsioni in un rapporto di reciproco rinvio e riconoscimento, ma anche di contenimento, controllo, indirizzo, tanto che egli parla come suo precipuo carattere di processo normativo o nomotetico. In questo senso al concetto di spirito spetta una valenza etica, che risalta nella contrapposizione alla pulsione sessuale, la quale ha un ruolo di supremazia tra le pulsioni, e non a caso si contrappone allo spirito; d’altra parte anche l’elemento spirituale appare nella psiche come un istinto, anzi come una passione o, come direbbe Nietzsche, come un fuoco divoratore. Però lo spirito non è il derivato di un altro istinto, ma un principio sui generis, “la  forma ineliminabile della forza pulsionale”. Infatti mentre la natura della pulsione è essenzialmente collettiva, lo spirito oppone alla pura e semplice pulsionalità un atteggiamento culturale, all’interno del quale è data all’uomo la possibilità del processo individuativo. Proprio la possibilità di attingere attraverso lo spirito al patrimonio di rappresentazioni dell’umanità consente al singolo individuo di riappropriarsi del percorso simbolico dell’umanità durante la sua vicenda personale. Andando oltre, in quanto lo spirito sussume e raccoglie un’infinità di simboli esso è complexio oppositorum, unione degli opposti, ma il luogo paradossale in cui tutti gli opposti coincidono è la mente di Dio. E dunque  un altro aspetto del divenire dello spirito è il suo insensibile trapasso nella dimensione del divino. Un Dio, quello di cui parla Jung, inteso non come ente in sé, e quindi come realtà oggettiva – sulla quale egli sospende il giudizio –    ma come oggetto della coscienza e quindi possibile e legittimo oggetto di studio della scienza. Il Dio oggetto d’esperienza psicologica è alla maniera di Cusano una complexio oppositorum, in quanto esso è il fine e la meta della redenzione, ma anche la sorgente oscura e abissale della vita psichica, dove si toccano i due opposti della materia e dello spirito, dell’istinto e dell’archetipo.

La scintilla divina imprigionata nella materia e il Selbst

In Sulla fenomenologia dello spirito nella fiaba, lo psicologo svizzero va ancora oltre, e ribadisce che lo spirito è il principio che si oppone alla materia, che questa sostanza o esistenza immateriale nel suo più alto grado è chiamata Dio, e che noi ce la rappresentiamo come esponente del fenomeno psichico o addirittura della vita. In questa sua valenza energetico-vitalizzante, lo spirito è concepito alla maniera gnostica come una scintilla del divino racchiusa nella materia, che come tale in cerca di riscatto e redenzione, e il processo d’individuazione è appunto il percorso del ritorno ascensionale alla matrice originaria. In Psicologia e alchimia (1944), dello stesso periodo, lo spirito è equiparato al Selbst, “quel centro dove la psiche diventa inconoscibile perché si fonde col corpo” (p. 219): ciò è conseguenziale, perché il Selbst rappresenta il centro propulsore della vita psichica e la serie delle immagini finalizzate della meta del processo individuativo, e in ultimo esso non può non identificarsi con la scintilla divina che del processo stesso è fine e principio.

In Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche Jung dice che l’archetipo appare sotto forma di spirito, ma poi aggiunge che l’archetipo è spirito e non spirito, e quel che esso è dipende dall’atteggiamento della coscienza. Utilizzando la metafora dello spettro della luce, la coscienza si colloca nella banda intermedia del visibile; al di sotto di essa  sta il corpo, corrispondente all’infrarosso psichico, coi suoi processi di regolazione omeostatica, e quindi gli instinti, la materia, e i processi inconsci; al di sopra sta l’ultravioletto, ovvero l’archetipo, lo spirito e i fenomeni di coscienza superiore. La banda della luce visibile, tra gli oscuri e insondabili processi somatici e i luminosi accadimenti spirituali, è occupata dai processi psichici, dove lo psichico è ciò che può diventare oggetto di coscienza, ciò verso cui la coscienza può dirigere la sua appercezione. Al di sopra e al di sotto della banda del coscienziale, ovvero alle estremità della scala della luce visibile, si collocano quei fenomeni che a differenza dei processi psichici perché non possono diventare consci, ovvero oggetto di coscienza,  e sono chiamati da Jung  per la loro inaccessibilità psichica “processi psicoidi”.

L’eredità arcaica e l’etica in Freud

Nella psicoanalisi freudiana, espressione del materialismo scientista di fine ottocento, non c’è posto per lo spirito, e la distinzione tra psiche e soma si ripropone nella dialettica è coscienza e inconscio, dove il fine del lavoro psicologico è far diventar coscienti i processi inconsci. Oggetto del lavoro analitico è la presa di coscienza dei contenuti inconsci, in nome di quella che Freud chiama “la morale dello Zuiderzee”, espressa nel principio “là dove era l’Es dovrà esserci l’Io” (1933). Il corpo sta ovviamente dalla parte dell’inconscio: la pulsione è il rappresentante rappresentativo, nella psiche, dei processi somatici, l’inconscio è il serbatoio pulsionale, e nel modello strutturale tripartito esso contiene tutto l’Es, parte del Super-io e parte dell’Io (i meccanismi di difesa). Dunque mentre il corpo trova espressione mediata nella psiche attraverso la pulsione, che è la traslazione dei processi omeostatici regolatori nel mondo della rappresentazione, in Freud sembra essere alquanto ridotto il posto delle istanze superiori rappresentato dallo spirito. Il loro luogo è il Super-io, espressione dei divieti, dei principi, degli imperativi degli antenati, che attraverso i processi di identificazione introiettiva si perpetuano nei discendenti. Anche Freud parla in questo senso di eredità arcaica, anzi in questo Jung ne riprende il pensiero ampliandolo (1934-38). Però l’eredità arcaica sembra riguardare solo predisposizioni morali, non un’apertura verso l’assoluto: l’adesione di Freud al positivismo, e quindi ad un rigido determinismo materialista, lo esime in fondo dal porsi il problema dell’”oltre” costituito dallo spirito. Anche le più elevate istanze morali sono per Freud in ultimo riconducibili alla vita pulsionale, attraverso vicende trasformative più o meno complesse, la cui ricostruzione rimanda però sempre a quella che è l’essenza ultima del freudismo, e che Ricoeur traduce nel principio che il dominio del senso rimanda sempre e comunque al dominio della forze (1960).

Il processo decisionale

Le neuroscienze hanno ulteriormente indagato la genesi dei valori e dei comportamenti morali, corroborando l’ipotesi dell’eredità arcaica. Gli studi sul processo decisionale in condizioni di incertezza per esempio ripropongono il problema dell’eredità arcaica per quel che riguarda il codice etico e il giudizio morale. Si creano nelle situazioni sperimentali dei cosiddetti dilemmi morali, in cui il soggetto è messo davanti a un conflitto creato da due imperativi etici reciprocamente incompatibili. Si tratta di conflitti etici apparentemente normali, ossia che non coinvolgono le forti emozioni suscitate nella coscienza collettiva da temi come l’eutanasia o l’aborto. Green distingue tra due tipi di dilemmi morali, quelli personali, che implicano un intervento diretto su un altro essere umano, e quelli impersonali, in cui manca il contatto fisico con l’essere umano. Esempio del primo tipo è il footbridge dilemma, il cui il soggetto deve decidere se spingere o no un estraneo da una passerella sopraelevata, in modo che il suo corpo vada a fermare un carrello che altrimenti schiaccerebbe altre cinque persone; del secondo tipo il trolley dilemma, in cui invece il soggetto deve decidere se azionare o meno uno scambio che devia il carrello su un binario alternativo dove ucciderebbe uno sconosciuto, mentre se lasciato a se stesso ne investirebbe cinque. La maggior parte dei soggetti sperimentali aziona lo scambio, uccidendo l’uno per salvarne cinque, ma non riesce a spingere l’individuo dalla passerella per risparmiare la vita ai cinque che stanno a valle del carrello. Si è visto che negli individui impegnati nel dilemma personale si riscontra un aumento dell’attività cerebrale in tre aree legate alle emozioni, l’amigdala, la corteccia posteriore del cingolo e la corteccia prefrontale mediale, come pure nella circonvoluzione temporale superiore, associata alla cognizione sociale. Invece negli individui impegnati nel dilemma impersonale l’aumento di attività è nella corteccia prefrontale dorso-laterale e nella circonvoluzione parietale inferiore, che sono aree cognitive associate con la memoria di lavoro. Gli esperimenti di Greene dimostrano che l’emozione sopravanza la cognizione nel dilemma personale, nel quale c’è da sporcarsi le mani uccidendo un altro essere umano, mentre il ragionamento razionale prevale nel dilemma impersonale, più asettico. L’ipotesi è confermata che individui con lesione della corteccia prefrontale ventro-mediale “riescono” a fare la scelta morale più coraggiosa, di spingere l’estraneo giù dalla passerella, perché non ne sono impediti dalle remore morali che albergano in quest’area del cervello. Secondo Hauser esiste una grammatica morale universale che svolge nei confronti dell’etica la funzione che la grammatica generativa trasformazionale universale descritta da Chomsky esercita nei confronti del linguaggio. Ossia esisterebbe secondo questo autore una facoltà morale di base, in qualche modo preesistente alla cultura e inaccessibile alla consapevolezza conscia, che determinerebbe biologicamente e secondo regole evoluzionistiche il nostro comportamento etico e nella quale si installerebbe lo specifico apprendimento delle norme morali locali, ovvero tipiche di un determinato ambiente culturale, allo stesso modo in cui le norme linguistiche locali si sovrammettono sulla grammatica generativa universale. Rientrano nella grammatica morale universale precetti come “tratta gli altri come vuoi essere trattato”, “non uccidere”, “aiuta i bambini, i deboli e i bisognosi”, ecc. Tutto ciò suscita però due interrogativi. Il primo è che quello che intuitivamente e naturalmente si impone al nostro giudizio come giusto può non essere necessariamente giusto. Il fatto che una scelta appaia ai nostri occhi come naturalmente morale non implica davvero che lo sia. Razionalmente è sempre meglio far morire una persona che farne morire cinque, anche se la seconda scelta richiede un gesto ripugnante. Secondo Merciai dovremmo fidarci meno dei nostri imperativi morali interni ed essere critici di fronte alla fallacia naturalistica, tipica della nostra cultura, che ci porta a pensare che ciò che è naturale sia di per sé buono. Il secondo inquietante interrogativo è che una serie di fenomeni e facoltà che finora abbiamo ritenuto essere appannaggio di una dimensione superiore dell’uomo secondo la visione riduzionistica del monismo e dell’isomorfismo mente-corpo sono il prodotto esclusivamente dell’evoluzione e sono stati da essa selezionati in quanto garantivano un vantaggio adattativo. Mentre secondo la visione new age dell’intelligent design il progresso dell’essere umano avviene secondo una direzione top-down, a partire dalle strutture superiori che influenzano le inferiori, secondo la visione scientifica materialista ed evoluzionista esse avvengono nella linea opposto, bottom-up, a partire da strutture filogeneticamente antiche e presenti anche nei rami inferiori dell’albero evolutivo, che tuttavia vengono raffinate e piegate, negli organismi superiori, a finalità e prerogative che esulano da quelle iniziali per cui si erano sviluppate.

Grosso scalpore hanno suscitato i lavori di Libet, negli anni ’60, sulla registrazione di un’attività cerebrale in un’area cerebrale connessa alla produzione di un movimento 350 msec. prima che il movimento stesso venisse effettuato. Il cervello evidentemente da inizio all’azione prima che si sia consapevoli della volontà di compierlo. In altre parole la decisione è assunta inconsapevolmente e l’aspetto conscio di essa è solo un’illusione, una pietosa confabulazione che rivolgiamo a noi stessi in nome del nostro onnipresente narcisismo, per mascherare il fatto ineludibile che il free will, il libero arbitrio, non esiste. Però è vero che esiste la possibilità che la volontà conscia inibisca una determinata azione interferendo con il processo prima iniziato dalla corteccia, per cui non esisterebbe il free will,, ma solo il free won’t, la libertà di non volere. Brass e Haggard (2007) hanno dimostrato impiegando la fMR che la volizione, intesa come capacità di inibire un’azione iniziata o di non dar seguito a un’intenzione di azione, sarebbe mediata da un’intensa attività in un’area specifica della corteccia frontale dorso-mediale, mentre la corteccia dell’insula codificherebbe l’emozione legata all’annullamento dell’emozione codificata. Però in una operazione di regressus ad infinitum potremmo pensare che anche la decisione di annullamento di un’azione intrapresa, il free won’t, sia in realtà solo in apparenza il prodotto di una decisione cosciente, ma in realtà anch’essa l’esito di una decisione presa inconsciamente.

Presenza mentale, funzione riflessiva, corteccia prefrontale mediale

In realtà si riscontrano in certi neuroscienziati cognitivi, neuropsicologi, neuroterapeuti dei tentativi di combinare disinvoltamente il patrimonio della tradizione e le più aggiornate acquisizioni, ovvero l’approccio alla meditazione e alla consapevolezza e gli studi sulla cognizione sociale e la sintonizzazione empatica. Goleman ha effettuato un’esauriente rassegna (1988) mettendo a confronto le varie forme di meditazione, quali si trovano nelle religioni (la bhakti nell’induismo e le varie forme nel buddhismo tibetano e Zen), nelle tradizioni mistico-esoteriche (l’esicasmo dei monaci ortodossi, il dhikr o ripetizione ininterrotta dei nomi divini nel sufismo, le tecniche estatiche della cabala e del tantra yoga) giungendo fino ai giorni nostri, con la Meditazione Trascendentale e il ricordo di sé del metodo di Gurdjieff. Egli evidenzia che le varie tecniche meditative hanno un metodo comune, che si articola in tre momenti di concentrazione e indirizzo del pensiero, penetrazione, concentrazione e contemplazione. In questa procedura emergono le difficoltà e le problematiche personali del praticante, che devono essere padroneggiate e integrate perché il cammino meditativo possa avanzare. Per quanto indirettamente ciò possa essere affermato, le tecniche meditative sono dei cammini di autoconsapevolezza, che come tali hanno forti implicazioni terapeutiche. La meditazione ha un effetto sul cervello, in particolare di attivazione delle aree deputate all’attenzione selettiva, e più in generale un effetto su tutto il corpo paragonabile a quelle delle tecniche di rilassamento, per quanto sia distinta da esse, sulla pressione sanguigna, il sistema immunitario, il sistema del dolore.

Il passo successivo è stato l’applicazione delle tecniche meditative al trattamento dell’ansia, dei disturbi da stress, delle malattia psicosomatiche e nella terapia del dolore, e poi l’utilizzo di un sistema combinato di tecniche meditative e psicologia cognitivista per il trattamento della depressione (Kabat Zinn, 1994, 2003, 2004, et al. 2007, Siegel, 2007). Al centro di questa prospettiva c’è il conseguimento della mindfulness, parola difficilmente traducibile in italiano, che si può rendere con “pienezza mentale”, o “attenzione non giudicante”,  ma meglio ancora con “presenza mentale”, “presenza consapevole”. Essa da stato deve divenire tratto, ossia atteggiamento globale della personalità, modo di affrontare la vita, prospettiva di apertura e recettività al mondo e agli accadimenti esterni, orientata verso uno stile interno di riflessività e accettazione. Secondo Kabat-Zinn:

Una definizione operativa della mindfulness è la consapevolezza che emerge se prestiamo attenzione in modo intenzionale, nel momento presente e in modo non giudicante, al dispiegarsi dell’esperienza momento per momento” (2003, p.145-6).

Questo atteggiamento mentale viene fatto risalire dagli autori alla meditazione buddhista, in particolare vipassana, ma altri antecedenti si possono ritrovare nelle tecniche di risveglio presenti in diverse tradizioni religiose e finalizzate a mantenere una presenza mentale. In questo senso mindfulness è contrapposta a mindedness, distrazione, divagazione, pensiero meccanico, funzionamento col pilota automatico, che descrive la condizione abituale di non consapevolezza di sé dell’uomo comune (nella tradizione religiosa si direbbe “non risvegliato”). Come rilevano Fonagy e Bateman (107), che tra l’altro incorporano la mindfulness nel loro approccio terapeutico finalizzato alla mentalizzazione, la mindfulness è una condizione mentale distinta sia dalla funzione riflessiva che dall’introspezione, per quanto esse siano correlate allo sviluppo di capacità in parte sovrapponibili. La mindfulness è qualcosa di più di un’abilità cognitiva, in quanto rappresenta una modalità di essere e di essere in relazione con gl’altri. All’inizio una pratica che dà il via a uno stato temporaneo della mente, grazie all’assiduità con cui la si effettua essa può diventare un modo di essere, una capacità a lungo termine, con un passaggio dallo stato al tratto. Una transizione di questo tipo può essere il passaggio dall’essere consapevoli attivamente all’essere consapevoli senza sforzo, e addirittura in modo automatico. Lo stato aperto e recettivo dell’essere, l’accettazione di qualsiasi evenienza può essere avviato anche senza consapevolezza, ma la consapevolezza emerge in seguito, quando la riflessione si dispiega nell’esperienza momento per momento della persona. Secondo Siegel (2007) il processo implica un’attivazione delle aree prefrontali mediali, e conseguentemente il suo consolidamento produce un inspessimento delle stesse. La corteccia prefrontale mediale è la sede dei circuiti di regolazione dai quali dipende la cognizione sociale, promossa dal sistema dell’attaccamento che media la sintonizzazione emotiva tra genitore e figlio. La cognizione sociale, ovvero il riconoscere se stessi attraverso l’altro, è alla base del legame sociale (social bond), che è l’esito di relazioni sintonizzate coi fornitori di cure della prima infanzia. La sintonizzazione affettiva crea uno stato di integrazione neurale che è alla base della dimensione recettiva della consapevolezza riflessiva. La riflessività implica una capacità immediata che la mente ha di conoscere se stessa senza sforzo, senza osservazione consapevole, senza parole. La qualità riflessiva spiega la metaconsapevolezza, ovvero la consapevolezza della consapevolezza, che accompagna l’esperienza di riflettere su di sé, la capacità di percepire la mente propria e altrui. Per mezzo di essa mappiamo il nostro Sé che fa esperienza servendoci di pattern di scariche neurali della rappresentazione del Sé stesso. Questo può essere il modo in cui la sintonizzazione interiore allevia la sofferenza e crea un senso stabilizzante di essere connesso sia all’esperienza momento per momento sia al nostro senso autentico di noi stessi. La sintonizzazione interiore infatti può essere sia con l’altro, che con se stessi: la risonanza è il meccanismo di base della comunicazione tra genitore e figlio che apre per quest’ultimo l’esperienza del legame sociale, però una volta che si sia stabilito un adeguato livello di sicurezza interiore e di integrazione neurale, l’individuo prova uno stato di pacificazione e serenità anche nella relazione col proprio Sé. Vi è insomma un parallelismo tra sintonizzazione interpersonale e sintonizzazione interpersonale, e la pratica della mindfulness promuove la sintonizzazione intrapersonale, in altre parole l’autoregolazione e il fare da genitore a se stesso. Nella mindfulness avviene il passaggio tra Sé come osservatore e Sé come oggetto dell’esperienza, nel senso che i circuiti neurali della cognizione sociale si focalizzano sul Sé soggetto dell’esperienza come se fosse un altro oggetto d’osservazione: questo spiega il fenomeno dell’auto-empatia, o sintonizzazione interiore, in cui il Sé diviene un altro che può essere compreso, accolto senza giudicare, e con cui ci si può sintonizzare con un senso di risonanza.

Le ipotesi quantistiche sulla coscienza

Le ipotesi quantistiche sulla coscienza sono una grossa invasione del mondo dei quanti nel mondo macroscopico, che si rende euristicamente necessaria per superare il gap informazionale del fenomeno coscienza. Uno stato medio della coscienza è ancora troppo complesso per avere alla base una struttura in proporzione piccola come la sottostante elaborazione neuronale. Le teorie localizzazionistiche della coscienza si scontrano con il problema del gap tra stati informazionali possibili, ma limitati, ed estensione del fenomeno coscienza, in quanto rappresentazione della possibilità. La totalità dei comportamenti umani che costituisce lo spazio della coscienza non può darsi dunque come dispiegamento simultaneo di una quantità di modi particolari, né come sequenze in rapida successione, perché le massime frequenze in gioco nei processi nervosi non superano alcune centinaia di cicli al secondo.  L’idea di uno stato di coscienza come unità diffusa non trova sufficiente spiegazione nella fisica classica, ma al livello della fisica subatomica, dove la posizione delle particelle risponde a una distribuzione probabilistica e la funzione d’onda fornisce l’ampiezza della possibilità di osservare una particella. Essa determina probabilisticamente i risultati delle misure delle grandezze fisiche osservabili degli oggetti atomici. In base al principio di esclusione di Pauli due particelle subatomiche non possono stare nella stessa posizione: ad esempio, due elettroni non possono stare nello stesso orbitale. Però questa proprietà si applica solo alle particelle che hanno spin (quantità di momento angolare) di ½ o di sommatorie di ½ : 1 e ½, 2 e ½ , ecc. Non si applica alle particelle con spin diverso (o, 1, 2, ecc.). Le prime particelle sono chiamate fermioni, le altre bosoni. Per la legge della condensazione di Bose-Einstein. mentre i fermioni tendono ad evitarsi, i bosoni tendono ad aggregarsi. Essi formano sistemi composti da particelle identiche ed indistinguibili, senza limite al numero di particelle, che possono essere nello stesso stato quantico, poiché per loro non vige il principio di esclusione del Pauli. Il raggio laser utilizza l’effetto Bose-Einstein.

Vi è dunque l’ipotesi che la coscienza possa essere un effetto di macroquanto (effetto quantistico su scala macroscopica) dato dalle oscillazioni probabilistiche degli elettroni di una vasta area cerebrale, che formano un sistema coerente e unitario. I bosoni tendono ad entrare tutti nello stesso stato di energia, e l’azione laser è uno dei fenomeni legati a questa proprietà. Marshall ipotizza allora che il substrato della coscienza dipenda dalle proprietà oscillatorie delle proteine cerebro-cellulari aggregate nella condensa di Bose. Secondo lui, il sistema di traduzione che trasforma gli eventi fisici nella coscienza va visto come qualcosa di aggiuntivo al sistema generatore dei potenziali d’azione delle cellule cerebrali. Egli considera perciò l’esistenza di proteine o altre molecole cerebrocellulari tendenti ad entrare nello stesso stato di energia, fino a formare una condensa di Bose, come oscillatori idonei a creare l’effetto macroquantico della coscienza. Gruppi neuronali anche distanti impegnati nell’analisi dei diversi aspetti di un oggetto hanno oscillazioni fasiche a 40 Hz e toniche corrispondenti, e  vengono reclutati insieme. Secondo Marshall il supporto della coscienza è una specie di condensa di Bose, in cui le particelle subatomiche si aggregano perdendo la loro identità individuale fino a formare un’unica funzione d’onda.

Vari autori (ad es. Pribram, 1990) hanno interpretato gli atti decisionali e intenzionali come transizioni di fase termodinamica che interrompono le simmetrie degli stati coerenti. Questo è possibile se, oltre alla comunicazione intersinaptica veicolata da potenziali d’azione, esiste un’altra interazione elettrica diretta attraverso un mezzo continuo distribuito sull’intera massa cerebrale.

Secondo la teoria di Cairns-Smith il sistema complesso che funziona come distribuzione coerente di probabilità di eventi elettromagnetici è dato dalle cellule gliali, che comprendono sia le cellule che avvolgono i neuroni formandone il rivestimento mielinico (guaina di Schwann) della sostanza bianca (cellule di Schwann), sia le cellule di supporto dei neuroni (astrociti, oligodendrociti), le cui braccia a forma di stella formano un’inteialatura di sostegno ininterrotta, e che nel cervello adulto sono in rapporto di 10:1 coi neuroni. Il fluido intercellulare di queste cellule forma un continuo elettricamente comunicante attraverso numerosi e ampi canali transmembranici chiamati gap-junctions. Si dice pertanto che le cellule gliali formano un sincizio, come pure le cellule gliali della corteccia. Questi sincizi, che svolgono diverse funzioni, contribuiscono notevolmente al sostegno dell’attività oscillatoria corticale; ed è questa onda, che si trasmette sopra la massa cerebrale collegando aree anche distanti del cervello, che si comporta come un macroscopico stato di quanto del cervello. Secondo Cairns-Smith la coscienza, seppur possa considerarsi un prodotto del cervello e strettamente legata spazialmente ad esso, non è tuttavia localizzata all’interno del cervello. Ciò che genera la coscienza non è infatti un centro o un’area del cervello, ma un qualche “grande posto” nel cervello, quello che alcuni definiscono “un effetto vasto”, o macroscopico, derivato da piccoli (microscopici) processi cerebrali. In particolare, i processi generativi della coscienza non sono necessariamente i processi deputati alla “elaborazione neuronale” di altre funzioni del cervello. Secondo un’altra teoria, quella di Penrose-Hameroff, invece l’attività quantistica del cervello avviene a livello dei microtubuli dei neuroni, strutture che hanno la funzione di sostenere la cellula e trasportare al suo interno i neurotrasmettitori. Essi sono composti da una proteina, la tubulina, che contiene alcuni elettroni delocalizzati. Sono questi elettroni che determinano l’effetto Bose e i fenomeni quantistici all’interno della cellula, fenomeni che possono propagarsi a tutto il cervello attraverso le giunzioni tra neuroni, dando luogo a una manifestazione quantistica su vasta scala in una determinata area del cervello.

Comunque sia, accanto al sistema di trasmissione neuro-elettrica dato dal potenziale d’azione neuronale, e in cui i messaggeri sono i neurotrasmettitori, nel cervello esisterebbe un altro sistema di trasmissione, elettromagnetico, in cui il messaggero è una funzione d’onda quantica (condensa di Bose), che dà origine alla coscienza, ed è in grado di mettere a confronto i dati sensoriali delle diverse aree cerebrali, collegarli con la memoria e accedere ai processori del meccanismo decisionale. Ritorniamo dunque al dilemma del monismo, del dualismo e della concezione trinitaria: è l’attività del sistema nervoso che determina la coscienza, o è la coscienza che determina l’attività del sistema nervoso?

Riassunto Niente di più inattuale dello spirito in una scienza che ritiene che anima e corpo siano espressione di un’unica entità, e quindi rende improponibile la concezione tripartita spirito-anima-corpo. Il tentativo di Jung di trovargli un posto nella sua speculazione in contrapposizione alla materia è stato molto controverso stante l’indagine della scienza esclusivamente sull’universo materiale. Tuttavia anche con questi limiti ritorna in alcuni settori della ricerca e della pratica terapeutica (il processo decisionale, la meditazione nella sua versione più aggiornata rinominata mindfulness, le teoria quantistiche della coscienza) un’attenzione verso tematiche che non possono non definirsi “spirituali”.


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