Stai leggendo
L’individuazione nel pensiero di Hannah Arendt

Rivista annuale a cura del Centro Italiano di Psicologia Analitica Istituto di Roma e dell’Italia centrale

contemporanea

2020 Nuova Serie Numero 1 Contemporanea

A CURA DI ANNA MONCELLI Una delle eredità più significativa che il pensiero di Jung ha lasciato alla psicologia, é stata quella di sottolineare il rapporto dialettico tra lo spirito del tempo e i vissuti individuali. La concezione di malattia e cura, si riferiscono così, ad una psiche che vive nel mondo, nella società e partecipa alla storia. La rubrica Contemporanea in continuità con questa visione, offre uno spazio di riflessione su temi di attualità. E’ uno spazio dedicato alla riflessione e alla ricerca di chiavi di lettura, che mettano in relazione quegli accadimenti del nostro tempo che si impongono all’ attenzione secondo visioni parziali, con una visione simbolica che ne restituisca possibilità di senso psichico.

L’individuazione nel pensiero di Hannah Arendt

La filosofia di Hannah Arendt può sembrare molto lontana dal pensiero di C.G. Jung, anche perché parte da presupposti molto diversi, più orientati alla concretezza, fino a una visione esplicitamente materialista della vita e del suo significato.

Ad esempio, è nota la controversia tra il marito di Arendt, Günther Anders, e lo psicologo Viktor Frankl (Anders 1956): mentre quest’ultimo sosteneva che esiste un senso della vita che noi possiamo cogliere e che la sensazione di mancanza di senso può essere considerata una patologia –  posizione sicuramente vicina al pensiero junghiano, basti pensare allo Jung dello scritto sulla Sincronicità (Jung 1952) – Anders e quindi Arendt sostenevano che non esiste alcun senso ‘in séʼ per la nostra vita, ma che ognuno deve scegliere e costruire un senso da darle; una concezione molto comune tra gli intellettuali del Novecento, che avevano creduto che il disincantamento del mondo operato dal pensiero tecnico-scientifico, come lo aveva definito Max Weber, si doveva pagare al prezzo di accettare la perdita di senso di questo stesso mondo:

Chi crede oggi ancora – all’infuori di alcuni grandi fanciulli […] – che le conoscenze dell’astronomia o della biologia o della fisica o della chimica possano insegnarci qualcosa sul senso del mondo, o anche soltanto sulla via per la quale si possa rintracciare un tale ‘senso’, dato che ce ne sia uno? Esse sono semmai adatte a soffocare alla radice la fede che vi sia qualcosa come un ‘senso’ del mondo (Weber 1919, p. 26).

Nonostante questa differenza di premesse, però, come spesso accade con i grandi pensatori, il pensiero di Arendt presenta diverse e interessanti affinità con quello di Jung, al punto che può contribuire a chiarirlo e svilupparlo.

Mi riferisco, in particolare, all’analogia tra il concetto junghiano di individuazione e la definizione arendtiana dell’identità umana, che, per lei, scaturisce dalla domanda: chi sei?

Prima di riferire la sua risposta, è però opportuno evidenziare altri punti di contatto tra il suo pensiero e quello di Jung, derivandoli soprattutto da due suoi libri: The Human Condition (1958), tradotto in italiano come Vita Activa, e The Life of the Mind (1978), La vita della mente.

Per prima cosa, Arendt propone una dialettica tra Visibile e Invisibile, tra Apparenza e Nascondimento, che ha molte analogie con la dialettica tra Collettivo e Individuale, che pervade tutta l’opera di Jung.

Su questa dialettica, o meglio sulla dinamica tra l’esigenza di differenziarsi dalla collettività e quella di ottenere da questa stessa collettività il riconoscimento della propria individualità, Jung ha fondato il suo concetto di individuazione, ovvero «lo sviluppo dell’individuo psicologico come essere distinto dalla generalità, dalla psicologia collettiva» (Jung 1921, p. 501), sviluppo che può avvenire in maniera produttiva soltanto se la stessa collettività accetta e ratifica questo processo. Per Jung, infatti, individuazione è tutt’altra cosa da individualismo; nessuno può individuarsi in senso opposto alla società, ma solo in senso diverso dalle norme collettive, e il risultato non può mai essere l’isolamento, ma «una coesione collettiva più intensa e più generale» (ivi, p. 502).

L’individuazione, in altre parole, deve avvenire in sintonia con il sensus communis descritto da Giambattista Vico: quel sentire comune che, in quanto condiviso da una determinata comunità, la fonda come tale. Dal quale– come ha spiegato Kant nella Critica della facoltà di Giudizio (1790) – nessun membro della società può prescindere: la sua perdita a favore di un particolare sensus privatus, non più condivisibile, coincide, infatti, con la dimensione del folle che, chiuso nella sua patologia, non è più in condizione di comunicare e vivere tra gli altri.

Per realizzare questa sintonia con il collettivo, spiega Jung, è quindi necessario che l’uomo che si individua sia in grado di produrre un equivalente da offrire alla società:

Colui al quale, in virtù di particolari capacità, è consentito di individuarsi deve sopportare il disprezzo della società, finché non avrà prodotto l’equivalente che essa attende da lui (Jung 1916, p. 313).

Con quest’affermazione, sia detto per inciso, Jung si avvicina, anticipandole, alle riflessioni di un altro grande filosofo del Novecento, John Rawls, che nel suo Una teoria della giustizia (1971) proporrà, più di mezzo secolo dopo, di considerare giuste le disuguaglianze sociali ed economiche che siano a favore di quegli individui la cui opera può generare un vantaggio alle classi meno favorite della società, vedi in particolare il principio di differenza.

Principio che, tradotto in termini junghiani, potrebbe essere espresso più o meno così: può essere accettata l’individuazione di un determinato individuo quando egli è in grado di restituire alla società un equivalente che crea un vantaggio a tutta la collettività. Rawls, filosofo morale, rileva l’aspetto etico, rimarcando che è giusto che siano gli elementi più deboli della società ad avvantaggiarsi per primi di questi vantaggi collettivi, ma la sua concezione si basa sullo stesso presupposto di quella junghiana: la distinzione virtuosa di un determinato individuo dal collettivo, che la si consideri a partire dall’aspetto socio-economico (maggior benessere) o da quello psicologico (individuazione) può avvenire soltanto se è la stessa collettività a ratificarla, e quest’ultima lo permette soltanto se essa stessa ne trae un beneficio.

Anche Rawls parla, in generale, di ‘società’ come teatro di questi avvenimenti, e non specifica ulteriormente questo territorio, ovvero il collettivo nella sua funzione sociale, da distinguere dal collettivo nella funzione che riguarda l’inconscio (cfr. Jung 1916).

Questo luogo, lo spazio comune in cui gli uomini possono incontrarsi, vedere ed esser visti, è stato, invece, ben descritto e analizzato da Hannah Arendt. In La vita della mente, citando le riflessioni di Adolf Portmann (Portman 1965) – biologo svizzero molto vicino al pensiero di Jung e spesso presente alle conferenze di Eranos – Arendt definisce questo spazio come il luogo delle apparenze, inteso non nell’accezione negativa che comunemente viene data a questo termine dal pensiero filosofico, che spesso lo contrappone alla ‘vera’ realtà; ma, al contrario, come il territorio nel quale si manifestano all’esteriore, si rendono visibili agli altri uomini, le attività della mente, e in particolare il pensiero. L’autrice tratteggia, in sostanza, due territori, divisi tra di loro come il giorno e la notte, come il visibile e l’invisibile (si veda lo schema 1):

  • da un lato, il luogo dell’invisibile, ‘ciò-che-non-appare’: la morte, il deserto degli oggetti consumati dall’uomo, l’appiattimento delle masse anonime, gli individui isolati ed ‘atomizzati’.
  • dall’altro, il luogo del visibile, ‘ciò-che-appare’: la natalità, la bellezza o la bruttezza, gli oggetti che durano e le azioni che lasciano un segno permanente, come le opere d’arte o le gesta dei grandi uomini.

Quest’ultimo luogo, lo spazio dell’apparenza, di ‘ciò che interessa’ gli uomini – tra di essi, inter-est – è il teatro privilegiato in cui si esprime la condizione umana, ed è lo spazio della politica, intesa non come la sterile lotta per il potere (nella sua degenerazione contemporanea) ma come la condizione di possibilità dell’essere-insieme: uno spazio comune e condiviso nel quale è possibile confrontarsi, discutere, dibattere, veder ed esser visti, com’era nell’antica polis greca da cui prende il nome, in quello stato di piena libertà che per gli antichi greci (e per Arendt) è il presupposto fondamentale per il raggiungimento dell’eudaimonia, della felicità derivante dalla piena espressione di se stessi che è, ovviamente, anche il fine dell’individuazione junghiana:

L’individuazione è non solo desiderabile, ma indispensabile, perché l’individuo non differenziato dagli altri cade in uno stato e commette azioni che lo pongono in disaccordo con se stesso […] Ma il disaccordo con sé è appunto quell’insopportabile stato nevrotico dal quale ci si vorrebbe redimere. Una redenzione da questo stato si ha solo quando si può essere e agire così quali ci si sente di essere (Jung 1928, p. 222).

Questa condizione può realizzarsi, per Arendt, soltanto nelle società in cui esiste questo spazio inter-umano, questo mondo che ci è costantemente ‘alla mano’, inteso sia in relazione al die Welt di Husserl, come orizzonte di possibilità di ogni esperienza, fatto non soltanto di cose ma anche e soprattutto di valori, di beni, di bellezza e di bruttezza (Husserl 1913); sia in analogia con l’idea di Heidegger che gli esseri umani non solo vivono sulla terra, ma abitano un mondo, nel quale «accadono le decisioni essenziali della nostra storia» (Heidegger 1935-36, p. 30).

Questo mondo deve essere fatto di oggetti durevoli, in grado non soltanto di entrare nello spazio delle apparenze, ma anche di dimorarvi stabilmente: le opere d’arte, le istituzioni politiche, i costumi, in sostanza tutto ciò che noi chiamiamo cultura e civiltà.

E, soprattutto, non va confuso con la dimensione del sociale, nata dalla proiezione a livello statale delle necessità e delle regole che caratterizzavano l’amministrazione della famiglia nell’antichità:

Quando occorre riunirsi per discutere di ciò che è incerto, ci muoviamo nello spazio della politica, quando invece abbiamo a che fare con regole abbastanza sicure, basta l’amministrazione delle cose, e questa è la dimensione del sociale (Velotti 2006).

La principale ricchezza di questo spazio della politica, che Arendt immagina sul modello ideale delle antiche democrazie greche, è legata al fatto che permette di confrontare una pluralità di punti di vista diversi, i quali, integrandosi, possono rimediare all’unilateralità che limita ogni singola prospettiva, per quanto illuminata possa essere. Questa pluralità di prospettive è la risorsa fondamentale di ogni democrazia correttamente intesa; a partire da Aristotele, nessun cittadino, per quanto competente, può superare da solo la competenza dei ‘molti’, perché, anche se ognuno di questi ultimi ne possiede solo una piccola frazione, prendendoli tutti insieme essi hanno una competenza molto maggiore (Aristotele, Politica, 1281 a 40-43).

Per inciso, anche questa visione della democrazia può avere un’interessante corrispondenza con la psicologia junghiana, se la si trasporta a livello intrapsichico, dal momento che Jung è stato tra i primi a mostrare la pluralità di parti o ‘complessi’ che caratterizzerebbe la psiche umana, la cui organizzazione prospettica si evidenzia, ad esempio, quando si assiste a una serie di sogni che sembrano gravitare attorno ad un nucleo tematico centrale, e «si avvicinano a questo con amplificazioni sempre più chiare e più vaste», durante le quali, procedendo secondo uno schema ciclico oppure a spirale, «in analogia con il processo di crescita delle piante» (Jung 1944, pp. 31-32), via via emergono i vari complessi cruciali, fino a quando, in genere, «gradualmente affiora un modello di totalità» (Whitmont e Perera 1989, p. 141).

Sembra di assistere, in questi casi, alla maniera nella quale – in un’ipotetica  e intrapsichica ekklesia – di volta in volta prendono la parola i vari partecipanti, ognuno dei quali espone il suo particolare punto di vista, fino a quando, a maggioranza, si prende una decisione che non mira a decretare la vittoria di una particolare fazione, ma cerca di tenere conto di tutti i punti di vista per esprimere una sintesi superiore, come nessun individuo isolato sarebbe in grado di fare, data l’inevitabile limitatezza di ogni singola prospettiva.

Tornando al livello interpersonale, Arendt, come si diceva, considera lo spazio politico delle apparenze come il luogo che rende possibile rispondere alla domanda fondamentale anche per il processo individuativo: Chi sei? Non Cosa sei? – che, in termini junghiani, corrisponderebbe alla messa in evidenza della Persona – ma Chi sei.

La sua risposta è chiara: Sei ciò che fai. Non (solo) ciò che pensi, non (solo) ciò che dici, ma ciò che fai: «Quello che io propongo, perciò, è molto semplice: niente di più che pensare a ciò che facciamo» (Arendt 1958, p. 5). In opposizione al primato del pensiero che caratterizza gran parte della filosofia classica, e in particolare l’opera dei suoi maestri Husserl e Heidegger, Arendt rivaluta l’azione dell’uomo nel mondo, come maniera privilegiata per uscire dall’invisibile ed entrare nel mondo delle apparenze.

Non tutte le modalità del fare, spiega, sviluppano correttamente questa potenzialità. Ne distingue tre tipologie: il lavoro, l’opera e l’azione.

 

Cichetti Schemi

 

Il lavoro, che per lei è il duro lavoro manuale, dell’uomo come animal laborans, è legato al ciclo eterno della vita, e dunque non ha inizio e non ha fine, perché i suoi prodotti vengono subito consumati per le esigenze materiali del metabolismo: nutrirsi, vestirsi, riscaldarsi. Si manifesta, quindi, solo fugacemente nel mondo delle apparenze, anche se ne costituisce la fonte occulta di mantenimento.

Un gradino più sopra,troviamo l’opera, i prodotti materiali dell’ingegno umano, che questa volta è homo faber: costruisce utensili pratici per alleviare il lavoro, oppure per raggiungere altri scopi, il più nobile dei quali è la scienza, che comunque rientra in questa dimensione essenzialmente pratica. L’opera ha un inizio e una fine (anche le scoperte scientifiche sono destinate a essere costantemente superate da nuove scoperte), dunque entra nel mondo delle apparenze, ma solo temporaneamente: una sedia, un’automobile, un utensile o una teoria scientifica sono destinati prima o poi a perdere la loro utilità, a invecchiare, deteriorarsi e dunque a essere espulsi da questo mondo[1]. Fa eccezione soltanto l’opera d’arte, che, se è veramente tale, può aspirare ad abitare eternamente questo mondo, come la poesia di Dante, le sculture di Michelangelo o i quadri di Picasso.

Ma la forma più adeguata di presenza e partecipazione nel mondo delle apparenze è, per Arendt, l’azione, intesa come la capacità di dare origine a qualcosa di nuovo, i cui esiti sono imprevedibili, come imprevedibile è la vita nella sua manifestazione libera.

L’azione è la maniera privilegiata nella quale un uomo afferma la sua unicità nella pluralità, mostra ‘chi è’ in relazione con– eppur distinto da– gli altri: «La pluralità è il presupposto dell’azione umana perché noi siamo tutti uguali, cioè umani, ma in modo tale che nessuno è mai identico ad alcun altro che visse, vive e morirà» (Arendt 1958, p. 8).

Anche l’azione, però, non riuscirebbe, da sola, ad abitare in maniera duratura il mondo delle ‘Apparenze’; per far ciò, deve trovare un complemento essenziale nella narrazione: la narrazione conserva ciò che l’azione mostra.

Soltanto la narrazione permette di cogliere il vero senso dell’azione e tramandarlo, sia che si tratti della narrazione ‘domestica’ delle vicende dei protagonisti della famiglia, genitori, nonni, ecc. – narrazione spesso affidata alle donne del nucleo famigliare – sia che si tratti del resoconto di uno storico: «l’azione si rivela pienamente solo al narratore» (Arendt 1958, p. 140).

Arendt parla di una narrazione biografica, non auto-biografica, che considera spesso narcisistica. Questo aspetto può avere una risonanza particolare nella terapia analitica, nell’ambito della quale, pur essendo, in effetti, la narrazione auto-biografica, il confronto con l’inconscio e il rapporto con l’analista permettono di costruire una storia estetica e terapeutica insieme, potenzialmente anche migliore di come potrebbe fare uno storico, con parole di James Hillman:

Leggi anche
contemporanea

Quel che si esprime in parole nell’analisi del profondo […] è anche una gara fra cantori […] Una terapia riuscita è quindi una collaborazione fra narrazioni, una revisione della storia in una trama più intelligente, più immaginativa, che implichi altresì il senso del mythos in ogni parte della storia (Hillman 1983, p. 21).

È anche evidente che l’agire nel mondo delle Apparenze non ha sempre i caratteri nobili dell’individuazione, ma può imitare alcuni elementi di questo processo, camuffando altri sviluppi, per nulla virtuosi, come le disindividuazioni di cui parla Jung, a favore «di una parte da sostenere o di un significato immaginario», condizioni che conseguono alla prevalenza sbilanciata dell’elemento collettivo (Jung 1928, p. 173).

Evitare questo tipo di degenerazioni è compito e possibilità della terapia analitica, ma bisogna ricordare che anche Arendt le ha previste e distinte dalla vera azione. Per fare questa distinzione, ha ripreso la ripartizione kantiana tra l’‘intelletto’ (Verstand) – una macchina logica capace solo di calcolo e di una conoscenza ‘fredda’ – e la ‘ragione’ (Vernunft), l’unica facoltà umana capace di un vero pensiero, ovvero di esprimere un giudizio. A partire da questa differenza, ha scritto pagine memorabili sulla banalità del male, intesa come incapacità di pensare, come nel caso di Adolf Eichmann, abilissimo nell’organizzare l’azione e nel rispettare gli ordini, ma del tutto incapace di porsi la domanda: «è giusto, quello che faccio?» (Arendt 1963).

Queste riflessioni non ci permettono soltanto di comprendere che la vera azione individuativa deve essere guidata dal pensiero, mentre l’agire fondato sul semplice conoscere non può che produrne scialbe imitazioni disindividuative, ma convergono con il pensiero junghiano dove quest’ultimo si è occupato dello stesso argomento che ha impegnato la maggior parte del lavoro della Arendt: cercare di spiegare – questione ben diversa dal giustificare, come chiarisce la stessa autrice (Arendt 1948) – la dinamica che ha permesso all’Ombra collettiva di travolgere la Germania e l’Europa,intorno alla metà del ‘900.

Secondo Marie Luise von Franz quest’invasione del male collettivo è stata resa possibile dalla debolezza della funzione inferiore di ogni individuo: ad esempio, il tipo di sentimento era affascinato dalle stupide argomentazioni della propaganda nazista; il tipo intuitivo rimaneva al suo posto nell’apparato statale perché non sapeva come risolvere il problema del denaro, e così via. In questa maniera, tanti ‘diavoli nell’angolo’ alimentati dalle inferiorità personali di singoli individui, sommandosi, hanno scatenato un’ondata senza precedenti di male collettivo: «la funzione inferiore costituì, in ogni singolo individuo, la porta attraverso la quale questo male collettivo poté accumularsi» (von Franz 1981, pp. 112-113) .

È, evidentemente, una tesi molto simile a quella del male ‘banale’ di Hannah Arendt, declinata secondo la tipologia junghiana, ed è interessante notare che sia la Von Franz che la Arendt sono arrivate a questa conclusione grazie all’osservazione empirica di individui reali: la Von Franz nel suo lavoro di analista, e la Arendt come inviata del New Yorker al processo ad Eichmann.

Quest’esperienza la spinse a modificare la sua precedente tesi del male radicale, formulata nel libro che l’aveva resa celebre, Le origini del totalitarismo (1948), per elaborare l’idea di un male banale, fatto di uomini piccoli, semplicemente e drammaticamente ottusi:

Il guaio del caso di Eichmann era che di uomini come lui ce n’erano tanti e che questi non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali. […] questo tipo di criminale, realmente hostis generis humani, commette i suoi crimini in circostanze che quasi gli impediscono di accorgersi o di sentire che agisce male (Arendt 1963, p. 282).

Sarebbe estremamente utile approfondire la convergenza tra le due concezioni anche sotto questo aspetto, non soltanto in una prospettiva storica, ma anche per chiarire l’attuale, preoccupante fenomeno del ritorno di suggestioni di stampo razzista nelle moderne società occidentali, fenomeno che ha inquietanti elementi in comune con gli ‘ingredienti’ iniziali del totalitarismo, descritti da Arendt: creazione di masse di ‘apolidi’, senza patria e senza radici; decadenza dei partiti politici tradizionali e chiusura dei tradizionali spazi del dialogo e del confronto, ‘atomizzazione’ degli individui, isolati e privati di vere relazioni, oggi sostituite da surrogati tecnologici delle relazioni umane (Arendt 1948).

Appurato che non è possibile analizzare in maniera dettagliata quest’argomento, in questa sede,  è importante sottolinearne un aspetto fondamentale, che riguarda da vicino anche il lavoro analitico: la concordanza delle due concezioni nel collegare questo modo di diffondersi del ‘male’ come un fallimento del processo individuativo che, da un lato, junghianamente, si manifesta con la mancata integrazione della funzione inferiore, e dall’altro, secondo Arendt, trova la sua radice soprattutto nell’abolizione dello spazio della politica e della condivisione, che trasforma i cittadini in masse anonime di individui ‘atomizzati’, privi di vere relazioni: tutte condizioni che si stanno insidiosamente riproponendo in questo momento storico.

Per concludere, si può notare che la modalità «individuativa» proposta da Arendt sembra corrispondere a un processo soprattutto femminile, dato che si focalizza particolarmente sull’integrazione dell’Animus, considerato nella sua connotazione attiva, Yang, creativa; e probabilmente è questa la funzione che ha avuto nell’ambito della sua vita. Ma questa lettura non deve far pensare che la sua prospettiva non possa arricchire il concetto di individuazione nel suo complesso, riferendolo sia al maschile che al femminile.

Gli aspetti da approfondire sarebbero molti: riassumendoli brevemente, possiamo considerare, per prima cosa, la definizione e la descrizione accurata dello spazio che è tra gli uomini, il mondo che accoglie e permette questo processo; in secondo luogo, la distinzione tra azioni ed opere promosse dal pensiero, dunque «individuative», e semplici atti di conoscenza che, al massimo, caratterizzano gli individui isolati e disindividuati; quindi, il ruolo fondamentale riconosciuto alla narrazione; e infine, l’imprevedibilità che caratterizza ogni vera azione umana (Arendt parla di una «seconda nascita»); esattamente come l’evoluzione del processo individuativo che, come spiega Jung, non segue mai un percorso lineare e definito, ma si può raggiungere solo percorrendo quella longissima via, non retta ma «serpentina che congiunge gli opposti», che conduce alla realizzazione della totalità umana (Jung 1944, p. 10).

Le riflessioni della Arendt ci aiutano a capire che questo percorso non può svolgersi soltanto internamente alla psiche umana, ma deve potersi manifestare anche nello spazio delle apparenze, deve poter coinvolgere il rapporto dell’individuo con il mondo, la sua maniera di abitarlo.

Il suo «sei ciò che fai», stimolando a leggere l’individuazione come una modalità privilegiata dell’agire umano, può così rappresentare un contributo concreto del pensiero filosofico a quella riflessione psicologica, portata avanti soprattutto da Hillman, che ha denunciato i rischi delle psicoterapie troppo mirate ad introvertire le emozioni, che, stravolgendo il loro fisiologico compito di estroversione – ex-movere, muovere da – rischiano di spingere gli individui a non prendersi più cura della realtà che è ‘là fuori’, a trascurare le loro possibilità di azione nel mondo, con risultati negativi non soltanto per la terapia, ma anche per l’ambiente e la società:

La terapia introverte le emozioni: chiama «ansia» la paura. E tu la ritiri indietro e ci lavori dentro di te. Non lavori psicologicamente su ciò che quella indignazione ti sta dicendo riguardo alle buche nella strada, ai camion, alle fragole della Florida, nel Vermont a marzo; o sull’esaurirsi del petrolio, sulla politica energetica, le scorie nucleari, o quella povera vagabonda laggiù con i piedi tutti piagati (Hilmann – Ventura 1992, p. 21).

 


Note:

  • [1] Per la verità, gli oggetti costruiti da homo faber hanno una loro sfera pubblica, quella del mercato, che però non ha le caratteristiche necessarie a promuovere l’eudaimonia degli esseri umani.

Bibliografia

  • Anders G. 1956, L’uomo è antiquato, ed. it. 2 voll., Bollati Boringhieri, Torino 2007.
  • Arendt H.1948, Le origini del totalitarismo, ed. it. Einaudi, Torino 2004.
  • Arendt H. 1958, Vita Activa. La condizione umana, ed. it. Bompiani, Milano 2009.
  • Arendt H.1963, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, ed. it. Feltrinelli, Milano 2010.
  • Arendt H.1978, La vita della mente, ed. it. Il Mulino, Bologna 2009.
  • Aristotele, Politica, ed. it. in Opere, vol. IX, Laterza, Roma-Bari 1973.
  • Forti S. 2006, Hannah Arendt tra filosofia e politica, Bruno Mondadori, Torino.
  • Hillman J. 1983, Le storie che curano, ed. it. Raffaello Cortina Editore, Milano 1984.
  • Hillman, J. – Ventura M. 1992, 100 anni di psicoterapia e il mondo va sempre peggio, ed. it. Garzanti, Milano 1993.
  • Heidegger M. 1935-36, L’origine dell’opera d’arte, in Sentieri interrotti, ed. it. La Nuova Italia, Firenze 1968.
  • Husserl E. 1913, Idee per una fenomenologia pura ed una filosofia fenomenologica, Vol 1, ed. it. Einaudi, Torino1950.
  • Jung, C.G.1916, Individuazione e collettività, ed. it. in OCGJ, vol.7°, Bollati Boringhieri, Torino 1993.
  • Jung C.G.1921, Tipi psicologici, ed. it. in OCGJ, vol. 6°, Bollati Boringhieri, Torino 1988.
  • Jung C.G.1928, L’io e l’inconscio, ed. it. in OCGJ, vol. 7°, Bollati Boringhieri, Torino 1993.
  • Jung C.G.1944, Psicologia e alchimia, ed. it. in OCGJ, vol. 12°, Bollati Boringhieri, Torino 1992.
  • Jung C.G.1952, La sincronicità come principio di nessi acausali  ed. it. in OCGJ, vol. 8°, Bollati Boringhieri, Torino 1994.
  • Kant I. 1790, Critica della facoltà di Giudizio, § 40, ed. it. Einaudi, Torino 1999.
  • Portmann A.1965, Le forme viventi, ed. it. Adelphi, Milano 1969.
  • Rawls J. 1971, Una teoria della giustizia, ed. it. Feltrinelli, Milano 1982.
  • Velotti S. 2006, Presentazione ad Hannah Arendt su HannahArendt, in «Micromega», n. 8, 2006, pp. 147-152.
  • Von Franz M.L.1981, Tipologia psicologica, ed. it. Red, Cornaredo (MI)1988 e 2004.
  • Weber M.1919, La scienza come professione, ed. it. Mondadori, Milano 2006.
  • Weber M.1919, La politica come professione, ed. it. Mondadori, Milano 2006.
  • Whitmont E.C. – Perera S.B.1989, Il linguaggio dei sogni, ed. it. Astrolabio, Roma 1991.
  • Lo Spazio delle Apparenze in H. Arendt [da La vita della Mente e Vita Activa].

Quaderni di Cultura Junghiana © 2022 CIPA - Istituto di Roma e dell'Italia centrale Tutti i diritti riservati
È consentito l'uso di parti degli articoli, purché sia correttamente citata la fonte.
Registrazione del Tribunale di Roma n° 167/2018 con decreto dell’11/10/2018
P.iva 06514141008 | Privacy Policy