
2016 Numero Extra La Consultazione Analitica
A CURA DI CATERINA ROMAGNOLI L’obiettivo di questo spazio è quello di condividere le esperienze cliniche e le attività del Centro di Consultazione Analitica del CIPA. Guidato dallo specifico sguardo della psicologia analitica di Jung, il Centro di Consultazione nasce e opera come Servizio a contesti e luoghi "altri" dalla stanza di analisi. Nello specifico declina il suo operato attraverso l’orientamento alla domanda terapeutica dei pazienti e la consulenza e realizzazione di progetti e iniziative sul territorio.
Le nuove dipendenze patologiche negli adolescenti e giovani adulti: riflessioni a partire dalla clinica
La mia esperienza clinica, come psichiatra e analista, nel campo delle dipendenze fa da guida, stimolando diversi interrogativi, ad alcune essenziali riflessioni che proverò qui a svolgere. Laboratorio di questa esperienza è il mio quotidiano lavoro in un servizio per le tossicodipendenze, che si sviluppa in un luogo di confine dove diversi livelli, clinico, sociale e antropologico, si intrecciano e si sviluppano attraverso le forme, antiche e nuove, del disagio psichico.
Stare sul confine è però anche la cifra del terapeuta attraversato da una tensione, che può farsi a volte anche intollerabile; alludo qui allo Scilla e Cariddi che prende forma nella polarità del rassegnato quietismo, figlio del burn-out e di quel suo alter ego, forse il più ricorrente, che è il furor terapeutico. Questo scritto è quindi segnato da un certo gradiente di inquietudine personale; spero però vi si possa anche scorgere il senso di una continua ricerca di nuovi spazi condivisi, al riparo di quei caratteri, cogenti e spesso fuorvianti, dell’emergenza-marginalità e dell’acuzie-cronicità.
Il Centro di Consultazione Analitica dell’Istituto di Roma del CIPA mi si è presentato come uno di questi possibili spazi. Il concetto stesso di consultazione, d’altra parte, a ben vedere, ci riporta proprio a ridosso del tema del confine: qui l’incontro col paziente porta con sé nuove richieste e sollecita ulteriori assetti terapeutici. È così che la possibilità di promuovere un pensiero condiviso sulle nuove forme di disagio psichico (da cui deriva l’opportunità di affinare ed esportare – nel senso del portare fuori – nuove modalità di ascolto dell’altro) è diventata parte di questo movimento di ricerca. Nella consultazione che, in questo senso, è incontro con l’altro che soffre, potrebbe esserci già in potenza una valenza trasformativa in cui il momento diagnostico e terapeutico s’intrecciano e si alternano attraverso lo sguardo osservante del terapeuta che si fa sguardo accogliente e che dà forma ad una richiesta d’aiuto. Si potrebbe forse dire che qui il porsi una domanda porta in qualche modo già una forma iniziale di risposta: nel senso che cercare di capire è già trattare. Se ne potrebbe forse ricavare un semplice e denso sillogismo: se la conoscenza nasce da un affetto, e se la terapia non può da questo prescindere, il provare a capire è già inizio di terapia.
Ho scelto di prendere in esame le nuove forme di dipendenze patologiche negli adolescenti e nei giovani adulti per dar voce ad alcune riflessioni sul fenomeno tout court delle dipendenze. E ciò nell’esigenza di mantenere una focalità bipolare: ovverosia, l’individuo, per un verso, e la dimensione collettiva nella sua attuale declinazione post-moderna, per un altro.
Due domande qui si danno come possibile momento introduttivo di queste riflessioni: la prima mi porta a chiedermi quale sia lo scenario attuale delle sostanze psicotrope usate dai giovani. Il secondo interrogativo mi spinge verso un’altra questione: sul quando tale uso divenga generativo di un effettivo disagio psichico (di cui è controparte essenziale poi la questione di come la sofferenza psichica venga a declinarsi in una forma di dipendenza patologica).
Ritengo innanzitutto necessario precisare cosa qui si possa intendere con adolescenti e giovani adulti; al riguardo possono esserci di aiuto M. Lancini e F.Madeddu (2014), che indicano nuove traiettorie di crescita verso l’età adulta, nel senso di percorsi sempre più individualizzati e soggettivi, lontani da un modello predeterminato; in particolare, secondo questi Autori, oggi sembrerebbero sempre più delinearsi situazioni intermedie e socialmente poco definibili, in cui il ruolo adulto e quello adolescenziale spesso si confondono, finendo per convivere anche per molto tempo. Diverse sono le denominazioni che vengono usate per definire queste condizioni psichiche sospese; si parla di ‘adolescenza prolungata’ (Kagan, 1998), accezione che assume una connotazione negativa, come se fosse l’esito di una mancata risoluzione dei temi adolescenziali; e, ancora, di ‘tarda adolescenza’, di ‘postadolescenza’ (Blos, 1962), di ‘adolescenza interminabile’ (Bergeret, 1983).
Blos (1962, p. 278), in particolare, afferma che la versione patologica è quella prolungata che si caratterizza per «una perseverazione statica nella posizione adolescenziale, che in circostanze normali dovrebbe avere carattere transitorio: una fase maturativa che dovrebbe essere lasciata alle spalle una volta assunto il suo compito, diviene invece un modo di vita».
Mi sono chiesta se l’uso di sostanze psicotrope sia una forma di espressione della crisi adolescenziale e giovanile che porta con sé quegli elementi di smarrimento propri della dimensione collettiva. L’adolescenza è una fase di passaggio, di transizione, e pertanto, rappresenta un momento di rischio, di liminarità. Gli adolescenti oggi presentano nuove modalità di espressione e diversi modi di stare al mondo. Si può forse a ragione ritenere che sia la cifra di smarrimento, fluidità e incertezza del nostro tempo ad agire sulle nuove modalità di espressione degli adolescenti.
Provo adesso a fare un breve passo indietro.
La storia dell’umanità è di fatto connessa con l’uso di piante, di liquori, e di materiali organici in grado di determinare stati di alterazione di coscienza o ancora di aumentare e potenziare le prestazioni fisiche ed intellettuali, quasi che l’uomo, resosi conto dell’estrema limitatezza delle sue capacità, tentasse in tutti i modi di spingersi ‘oltre’ quei limiti (Lewis L. 2009, p. 8).
In effetti, abbiamo notizie sulla cannabis già a partire dal 2000 a.C., come sul potere medicamentoso del papavero da cui si estraeva l’oppio dagli Egizi nel 1700 a.C. e così per la coca estratta dalle foglie di peyote.
Le sostanze psicotrope permettono all’uomo di dare forme insolite alle proprie sensazioni e di conseguenza alla dimensione intellettivo-volitiva, nel senso dell’intensità e della persistenza; nel tentativo, a volte sentito come bisogno, di poter determinare, una variazione del proprio stato soggettivo.
I giovani oggi usano diverse sostanze psicotrope per modificare la percezione di sé e della realtà circostante e tutti gli indicatori confermano che la quantità di sostanze sintetiche è aumentata in modo esponenziale; gli adolescenti devono usare più sostanze per poter sentire le loro emozioni; la sostanza in questo modo diventa catalizzatore di quel sentire che altrimenti non avrebbe risonanza,.
Lo scenario attuale delle sostanze psicotrope usate dai giovani, pertanto, si presenta alquanto complesso, in quanto appare fortemente intrecciato con nuovi sistemi di riferimento collettivi.
Nel concetto di poliabuso è insito l’uso di più sostanze che alterano gli stati mentali nel senso dell’eccitazione o della depressione; il bisogno di sentire emozioni si traduce in una ricerca compulsiva di nuove emozioni, rischiando che ciò diventi il modo più immediato – a volte l’unico modo – per vivere l’esperienza: il tutto e subito che annulla il tempo dell’attesa e che impedisce l’interiorizzazione dell’esperienza stessa.
Qualche altro dato: si è fortemente abbassata l’età di inizio dell’assunzione di sostanze; a partire dai tredici anni per la cannabis (hashish e marijuana) e per l’alcool. Gli adolescenti, infatti, con frequenza giornaliera, cominciano a fare uso di cannabis associandolo all’alcool. Gli studi clinici sono concordi nell’affermare che, tanto più precoce è l’inizio dell’uso di cannabis, maggiore risulta il rischio di sviluppare disordini psichiatrici, in quanto il suo consumo in adolescenza è in grado di modificare, in modo permanente, circuiti neuronali di specifiche aree cerebrali, quali la corteccia frontale e l’ippocampo, così condizionando lo sviluppo delle aree che stanno alla base di funzioni cognitive quali l’attenzione, la concentrazione, la memoria e l’apprendimento[1].
La plasticità del cervello nei ragazzi è un dato irriducibile che avvalora oggi gli interventi di prevenzione nelle scuole e soprattutto quelli rivolti alle famiglie. La cocaina fa da capo fila alle altre sostanze sintetiche e sembra insinuarsi tra i giovani come la sostanza che tiene su, associata o alternata all’eroina; sostanza, questa, che oggi sembra aver assunto il significato di rifugio della mente; alternata alle sostanze eccitanti, viene usata per controllare, mitigandolo, uno stato di eccitamento prolungato; inoltre, diversa è la modalità di assunzione dell’eroina, non più e solo iniettata, ma anche fumata; modalità di assunzione, questa, che permette una maggiore diffusione tra i ragazzi nei quali sembra proprio assolvere la funzione di calmante psichico.
Nei giovani consumatori dediti a un uso frequente di anfetamine, LSD, ketamina, sempre più si evidenziano delle emergenze psichiatriche, con quadri clinici caratterizzati da esplosività comportamentale, con crisi di aggressività incontenibile. In particolare, si vengono a instaurare dei veri e propri automatismi mentali con graduale compromissione della sfera ideo-affettiva. È importante, a mio avviso, rispetto a questa nuova evidenza clinica, la qualità dell’esperienza senso-percettiva che queste sostanze inducono, finendo per condizionare l’intero funzionamento psichico. Alcuni studiosi oggi parlano di coscienza drogata, che si costituisce a partire dall’articolazione di stati di depersonalizzazione, di derealizzazione e dissociazione, dove l’esperienza dello sballo è l’equivalente di uno stato crepuscolare di coscienza:
Lo stato chiaroscurale di coscienza è una sorta di soglia tra la luce della realtà e l’ombra del sogno o della psicosi (Di Petta G., Tinnirello D. 2016, p. 10).
La clinica delle nuove Dipendenze nei giovani, dunque, ci permette di considerare la tossicodipendenza non più come una malattia cronica, ma come sintomo psichico che in seguito si trasforma in malattia, nel senso che lo sviluppo di una dipendenza da sostanze, come spiega A. Correale, «è l’incontro di diverse correnti psichiche che trovano in essa una sorta di possibile e transitoria conciliazione» (Correale A. 2013, p. 67). Lo stesso Autore aggiunge che nella tossicodipendenza «il sintomo diventa malattia, si autonomizza, si assolutizza e fa dimenticare le sue origini, per assumere una sorta di protagonismo assoluto». Ciò ci porta a restituire alla tossicodipendenza il suo statuto di disturbo con radici psichiche e non soltanto biochimiche e ci accompagna verso una riflessione aperta alla ricerca di nuovi significati.
Ora, mi soffermerò solo per alcuni cenni, sulle cosiddette ‘forme di Dipendenza senza sostanza’.
In quest’ambito rientrano la Dipendenza da internet, le Dipendenze sessuali, il gioco d’azzardo patologico, il Workholism, la Dipendenza da Videogiochi e da Computer. Dirò qualcosa in particolare sulle Dipendenze Tecnologiche perché più frequenti nei giovani adolescenti.
Il termine di «Nativi digitali», ormai entrato nel linguaggio comune, sta a indicare i ragazzi nati in un sistema informativo di apprendimento e comunicazione diverso rispetto a quello delle generazioni precedenti. Si tratta dei nati tra il 2000 e il 2002, con un percorso di crescita fortemente caratterizzato dalla presenza di strumenti di comunicazione tecnologica, costituitisi come mezzi di estensione e prolungamento del Sé. Sono gli adolescenti che sembrano aver interposto tra loro e il mondo un terzo oggetto che permette loro di sentirsi in connessione permanente e di sperimentare una comunicazione che annulla il tempo dell’attesa e la definizione di uno spazio d’incontro. Si tratta di bambini a cui è stato insegnato, in qualche modo ad abituarsi, a fare a meno della madre e a inserirsi in strutture parafamiliari e parascolastiche che hanno permesso di mantenere un collegamento mentale a distanza, con i propri genitori. Una virtualità relazionale senza corpo nasce, quindi, già all’interno dei legami familiari e durante l’adolescenza si trasferisce nel network della socializzazione digitale. L’oggetto tecnologico s’interpone tra l’adolescente e il mondo dei pari e degli adulti, divenendo l’oggetto facilitatore che, come la sostanza psicotropa, veicola nuovi modi di comunicazione. Esso così finisce per condizionare l’esperienza emotiva che viene depauperata della sua densità quando il suo linguaggio è solo quello della techne.
Queste ultime riflessioni mi spingono oltre. Che ne è di un legame affettivo che, nel suo sviluppo è sempre mediato dall’immagine della téchne? Le relazioni affettive si incarnano in una forma culturale e storica che cambia da un’epoca all’altra e da un luogo all’altro. Pertanto, potremmo pure ipotizzare che un affetto solo immaginato nella forma della téchne produca una sorta di esperienza frammentata, in quanto viene a mancare quel collante narrativo che inserisce l’esperienza all’interno di un senso e che dà una continuità biografica al soggetto. Ci sovviene al riguardo l’affermazione di Christopher Hauke:
Il soggetto postmoderno scopre l’affetto attraverso l’immagine, immaginandosi che vi sia un sentimento dietro l’immagine. Di fatto questa persona non esiste, esiste solo l’immagine; l’immagine funziona come una localizzazione per affetti non alla portata del soggetto o individuo. (Hauke C. 2012, p.123)
Se proviamo a considerare questo fotogramma dell’individuo postmoderno che l’autore ci rimanda abbiamo la sensazione che potrebbe essere in atto un radicale cambiamento di paradigmi antropologici di cui diviene espressione proprio il disagio adolescenziale. Si vuole qui ipotizzare di trovarsi di fronte ad una patologia dell’affetto che va verso la frammentazione della psiche, in quanto l’esperienza perde ogni continuum, riducendosi a cassa di risonanza di un’emotività interiorizzata solo rispetto al grado d’intensità: la funzione senso-percettiva come unico organizzatore dell’esperienza.
C.G. Jung ci dice che quando certi aspetti profondi della psiche collettiva vengono repressi dalle inclinazioni culturali e storiche dominanti essi sono proiettati come fantasie nel mondo esterno. Lo sviluppo del concetto d’inconscio collettivo da parte di Jung potrebbe aiutarci a comprendere il soggetto postmoderno. Infatti, la frammentazione del soggetto postmoderno può essere considerata un prodotto della frammentazione delle qualità umane; risultato è una psiche frammentata internamente, in competizione tra le proprie parti, alla ricerca di una soluzione e una cura che essa trova attraverso la proiezione su quegli oggetti che offre la cultura del tempo.
Secondo Jung la sofferenza si declina in senso patologico quando un nucleo di dolore s’impossessa della capacità intradialogante della psiche; di conseguenza, l’assetto difensivo s’irrigidisce derivandone un impoverimento della personalità.
L’adolescente ha una modalità specifica di esprimere il suo dolore psichico che si caratterizza per la messa in scena e la sua rappresentazione nel mondo esterno: il dolore è reso concreto e la relazione è temuta perché comporta vicinanza affettiva; egli sceglie piuttosto di vivere il sintomo. Quando il sintomo è rappresentato da una tossicomania o da un comportamento compulsivo, questo può allora richiedere la costruzione di uno spazio terapeutico che includa la possibilità di continuare ad agire il sintomo che ancora deve trovare una sua traduzione in senso psichico. Perciò, la costruzione di un’alleanza terapeutica con gli adolescenti si fonda sulla possibilità di diventare accompagnatori nell’attraversamento di una sorta di terra di nessuno, senza farsi travolgere da angoscie separative regressive. Angoscie queste che conducono, inevitabilmente in un luogo di solitudine desertica e disperata, se invece la solitudine riesce a trasformarsi in un luogo interiore aperto, vi può essere un passaggio creativo con la possibilità di esperire l’altro da sè.
È quindi possibile scorgere delle inconsce finalità costruttive nella costante e sempre più convulsa tendenza ad assumere sostanze? Questa è la domanda con cui mi confronto nel laboratorio quotidiano della mia attività clinica.
Zoja (1985, p. 41) ci parla della tossicodipendenza come di «una patologia generazionale» corrispondente a culture o subculture urbane, alimentata dalla presenza di miti inconsci e produttrice di leggi e rituali autonomi. La tossicodipendenza, dunque, avrebbe a che fare con aree inconsce di specifiche culture. Il passaggio a un’identità adulta è sempre meno precisa e meno affidabile. Pertanto, l’uso della droga nei più giovani può essere non solo l’espressione di una condizione giovanile frustrante, ma anche del bisogno di passare all’età adulta.
La tossicodipendenza, quindi come un sostituto inconscio del coraggio eroico.
Tra i giovani si costituisce dice ancora Zoja (1985, p. 22) uno «Pseudo-gruppo esoterico», in esso il mito dell’eroe si manifesta attraverso l’uso di droghe, andando a configurare un’area di ritorno del rimosso culturale. La tossicodipendenza diviene così un ineludibile segnalatore del rimosso culturale. Il mito eroico contiene l’esposizione alla morte. Secondo Jung, la sfida dell’eroe rappresenta la metafora psicologica della lotta dell’io contro le istanze dell’inconscio; dello sforzo che la parte cosciente della psiche compie per emergere dalla non coscienza iniziale. Nella modernità l’eroe ormai intellettualizzato non emoziona l’adolescente e quindi non funziona da attivatore libidico. Il tossicodipendente prova a ricostruire l’unità psicosomatica attraverso il connubio godimento-sofferenza, recuperando la sfida eroica, cioè il confronto con la morte.
Il bisogno inconscio d’iniziazione può configurarsi come un possibile processo di trasformazione, che si svolge in tre fasi. La prima fase comprende il desiderio di morire ad un’esistenza insignificante, la seconda si traduce nel ritiro libidico; la terza fase, che completa il processo attraverso la rinascita iniziatica, si concretizza con l’uso della sostanza. In termini analitici, possiamo dire che con l’assunzione della sostanza si verifica una forma breve di morte dell’io che però non riesce a produrre un’attivazione più profonda; la promessa è delusa e rimane soltanto il rilassamento di una tensione intollerabile altrimenti. La vera esperienza di morte si manifesta in modo violento quando finisce l’effetto della sostanza. In sintesi, seguendo questa trama riflessiva, possiamo dire con Zoja (ivi p. 8) che
Il tossicomane nella nostra società fallisce nel processo complessivo, non tanto per la modalità con cui consuma la droga, quanto perché salta interamente la seconda fase. In questo modo mostra di essere già in partenza intossicato: non da una sostanza, ma proprio da quel consumismo che voleva negare e che non ammette rinunce, depressioni, spazi psichici vuoti.
Anche gli operatori dei servizi per le Dipendenze Patologiche rischiano di essere intossicati: in loro si può attivare una dimensione emotiva a connotazione persecutoria che finisce per incarnare il pregiudizio sociale che associa la condizione di tossicodipendenza con la pericolosità sociale del tossicomane. Lo specifico di un lavoro psicoterapico in questo ambito può proporsi come possibile costruzione di luoghi di transizione dove le singole soggettività dei pazienti nell’incontro con il terapeuta possono dar voce a quel soggetto nascosto che porta in se l’essenza di quella specifica individualità. Pertanto, la relazione terapeutica, secondo questa accezione, si fonda sull’esserci del terapeuta con il suo valore personale e con il suo senso etico che lo rende capace di contemplare il bene del paziente.
Responsabilità è innanzitutto nel nostro mestiere assumere su di sé la condizione umana; vuol dire ri-conoscere sé e l’altro, il personale e il sociale, nella consapevolezza che aiutando l’uno si aiuta il collettivo, mentre disattendendo la risposta al bisogno singolo si arriva a compromettere la vicenda comune. È nell’intimità dell’incontro individuale che si porta avanti quell’arduo compito di provare ad alleviare la sofferenza che è consustanziale all’uomo e da cui non si può prescindere.
Ci piace perciò concludere con Yalom (Yalom I.D. 2002, p. 250)
La vita di un terapeuta è una vita di servizio in cui ogni giorno trascendiamo i nostri desideri personali e volgiamo lo sguardo alle necessità e alla crescita dell’altro. Traiamo piacere non solo dalla crescita del nostro paziente, ma anche dell’effetto domino e reazione a catena, l’influenza salutare che i nostri pazienti hanno su coloro con cui vengono a contatto nella vita.
Note
- [1] Daniel J. Siegel (2013) afferma che nel corso dell’adolescenza avviene a livello cerebrale una riduzione del numero delle cellule neuronali e delle connessioni sinaptiche in eccesso, fenomeno che lo stesso definisce «potatura»; in questo periodo dello sviluppo, avviene la formazione della guaina mielinica che riveste l’assone del neurone, quest’ultima struttura cerebrale crea le basi per la formazione del pensiero globale.
Bibliografia
- Blos P. (1962), L’adolescenza. Un’interpretazione psicoanalitica, tr. it. Franco Angeli, Milano1971.
- Correale A. 2013, Il soggetto nascosto, Franco Angeli, Milano.
- Di Petta G. e Tittarelli D. 2016, Le psicosi sintetiche, Giovanni Fioriti, Roma.
- Hauke C. (2011), Jung e il postmoderno, tr. it. Vivarium, Milano 2011.
- Jung C.G. (1929), I problemi della psicoterapia moderna, tr. it. Opere, vol. XVI, Boringhieri, Torino 1981.
- Jung C.G. (1934), Considerazioni generali sulla teoria dei complessi, tr. it. Opere, vol. VIII, Boringhieri, Torino 1976.
- Lancini M. e Madeddu F. (2014), Giovane adulto, Raffaello Cortina, Milano 2014.
- Recalcati M. e All., Civiltà e disagio, Bruno Mondadori, Milano 2006.
- Yalom Irvin D. (2002), Il dono della terapia, tr. it. Neri Pozza, 2015.
- Zoja L., Nascere non basta, Raffaello Cortina, Milano 1985.
- Lewin L., (1924), Il grande manuale delle droghe, Gruppo Editoriale Santarcangelo di Romagna (RN), 2009.
- Siegel D.J., (2013), La mente adolescente, tr. it. Raffaello Cortina, Milano 2014.