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L’arte della psicoterapia

Rivista annuale a cura del Centro Italiano di Psicologia Analitica Istituto di Roma e dell’Italia centrale

QCJ 2014

2014 Numero 3

L’arte della psicoterapia

Voglio introdurre il discorso del mio lavoro narrandovi la storia di un “povero ricco”:

«Un bel giorno quest’uomo si disse: “Tu possiedi denaro e beni di fortuna, una moglie e dei figli che farebbero invidia a ognuno […] ma sei felice? Ci sono persone a cui manca tutto ciò ma le loro preoccupazioni sono fugate da una grande incantatrice, l’arte. E che rapporto hai tu con l’arte? Non la conosci neppure di nome […]. So bene che non viene di sua iniziativa. Ma andrò io a cercarla. La riceverò come una regina e avrà nella mia casa la sua dimora […]. Egli andò quindi da un famoso architetto e gli disse: “Mi porti l’arte, porti l’arte fra le mie pareti domestiche. Non bado a spese”.

L’architetto non se lo fece dire due volte. Andò nella casa dell’uomo ricco, fece gettar via tutti i suoi mobili, chiamò un esercito di parchettisti, decoratori, laccatori, muratori, imbianchini, falegnami […] pittori, scultori e in men che non si dica l’arte era stata catturata, inscatolata, ben sistemata tra le pareti domestiche dell’uomo ricco. L’uomo ricco era tutto felice […] dovunque posasse gli occhi si imbatteva nell’arte, ogni cosa esprimeva l’arte […]. Nulla, assolutamente nulla era stato dimenticato. Il nostro uomo ricco da quel momento in poi dedicò gran parte del suo tempo a studiare il suo appartamento […]. L’architetto aveva pensato a tutto. Anche per la più minuta scatoletta vi era un luogo previsto appositamente. L’appartamento era veramente comodo, ma richiedeva una grande fatica mentale […]. Una volta preso in mano un oggetto non si finiva più di cercare di indovinare quale fosse il suo posto giusto, e talvolta l’architetto doveva srotolare i disegni di dettaglio per riscoprire il posto di una scatoletta di fiammiferi. Capitò che un giorno egli festeggiasse il suo compleanno. La moglie e i figli gli avevano offerto ricchi regali. Erano cose che gli piacevano moltissimo e gli davano gioia. A un certo punto arrivò l’architetto […] il povero ricco [gli disse] “ho festeggiato il mio compleanno. I miei cari mi hanno letteralmente coperto di regali. Le ho chiesto di venire, caro signor architetto, perché ci dia qualche consiglio su come possono essere sistemati nel modo migliore”. La faccia dell’architetto si allungava a vista d’occhio. Infine, esplose: “Com’è possibile che lei arrivi al punto di farsi regalare qualcosa? Non le ho forse disegnato tutto io? Non mi sono forse preoccupato di tutto? Lei non ha più bisogno di nulla. Lei è completo!” […]. “Ma se il mio nipotino mi regala un lavoretto fatto all’asilo?”. “Non può accettarlo!”. Il padrone di casa era annientato. A questo punto nell’uomo ricco avvenne una trasformazione. L’uomo felice si sentì all’improvviso profondamente infelice. Vide la vita che l’aspettava. Nessuno avrebbe più potuto dargli una gioia. Era condannato a passare davanti alle vetrine dei negozi della città senza provare desideri. […]. Era escluso per il futuro della vita, dai desideri e da ogni aspirazione. Egli intuì: ora avrebbe dovuto imparare ad andarsene in giro con il proprio cadavere. Si! Era finito! Era completo!» (Loos A. 1962, pp. 149-55).

Questo racconto, scritto dall’architetto viennese Adolf Loos nel 1900, traccia una linea di definizione su quella che l’autore di Ornamento e delitto considerava essere il progresso della civiltà ad opera dell’arte proprio laddove veniva eliminato l’ornamento dall’oggetto d’uso. Il racconto del “povero ricco” mi ha dato la possibilità di disegnare l’immagine-metafora del funzionamento mentale di chi ha scambiato la creatività dell’arte, per mero esercizio di riproducibilità tecnica: «Ognuno deve essere l’arredatore di se stesso» (ivi, p. 25) – affermava Loos. Questa storia, nella sua sospesa drammaticità, mi è tornata alla mente durante la lettura del volume di Atque: L’ordinarietà dell’inatteso (2012), perlopiù rispetto ad una considerazione che attraversa le righe dell’intero testo. La considerazione è che questa esperienza dell’inatteso sia perlopiù una costanza inconfessata del buon lavoro terapeutico, che trae le sue origini da una sorta di “inciampo creativo” che libera il processo terapeutico, di tanto in tanto, dai reticoli della tecnica e dalla distanza emotiva.

Da qui, se teniamo in piedi la lezione junghiana sull’arte della psicoterapia, lo facciamo coltivando la possibilità d’azione terapeutica di fattori creativi – inevitabilmente inattesi –, che nascono e agiscono ad un livello “irrazionale”, inconoscibile, radicati nell’indeterminatezza dell’inconscio.

Su di un piano del discorso, la storia del “povero ricco”, mi è sembrata rintracciare il livello dell’azione germinale di quella iper-riflessività e iper-coscienza del modernismo, nella direzione puntualmente esaminata da Luis Sass nel suo studio sulla follia e la modernità (Sass, L.A. 1992). La domanda che si pone l’autore, attraverso le parole della bella prefazione di Stanghellini, è questa: «E se la follia, almeno in alcune sue forme, dovesse derivare da un’intensificazione piuttosto che da un offuscamento della consapevolezza cosciente, e fosse un’alienazione non della ragione, ma dalle emozioni, dagli istinti e dal corpo?» (ivi, p. 2). Quale figlia e vittima della modernità sembrerebbe essere il profondo legame che allo sviluppo della coscienza si accompagni una conseguente possibilità di estraniazione dal mondo.

Per provare a osservare da un altro angolo di visione l’oggetto del mio discorso mi è sembrato puntuale riportare anche un’asserzione di Kafka, quando dice: «La vera via passa su una corda, che non è tesa in alto, ma rasoterra. Sembra fatta più per far inciampare che per essere percorsa» (Kafka, F. 1917-1918, p. 157). Quest’immagine della “fune tesa rasoterra”, in questo discorso, si allinea a quel legittimo “inciampare” ogni volta che si ha bisogno di elevare le cose di secondaria importanza, proprio perché sono quelle che contano di più. Ripresa dalla lettura di Peter Sloterdijk (2009) questo “inciampo” sembra una sorta di segnale, un “accidente” che attraversa l’esistenza quale monito ad “elevare le cose considerate di secondario valore”. Quelle cose dunque, sommerse dal predominio della “coerenza interna” della ragione quale espressione di quella iper-coscienza di cui parla Louis Sass.

Abbiamo quindi, la storia-immagine del “povero ricco” che sembrerebbe descrivere l’esito di una adesione imitativa alle teorie dell’arte applicata, per cui il protagonista rimane vittima e schiavo della sua stessa volontà. Dall’altra, abbiamo l’immagine della “fune tesa rasoterra” di Kafka che favorisce l’inciampo proprio laddove un conato “imprevisto” interrompe la linearità orizzontale della coscienza. Posto di fronte ad una continuità orizzontale attesa, determinata attraverso un modello teorico precostituito e preordinato, l’inatteso s’impone quale discontinuità verticale.

Il prof. Bruno Callieri, nel suo ultimo intervento al CIPA[1], ci ha parlato della capacità del simbolo, nel suo determinarsi, di “rompere la storia”. Provocatoriamente potremmo affermare che l’inatteso, “rompendo la storia”, ha direttamente a che fare con la capacità di costruire l’esperienza tensionale del simbolico all’interno della relazione terapeutica.

Gli interrogativi fondamentali, sono dunque questi: Come si dispone la mente dell’analista affinché possa permettere all’inatteso di prodursi? Qual è lo stato mentale dell’analista che permette di “soggiornare” in maniera equilibrata nella tensione, mentre emerge l’inatteso e prova ad intrattenersi con esso?

La storia del “povero ricco”, da questo punto di vista, mi è sembrata puntuale. La storia sembra disegnare la metafora di una mente che ha scambiato l’arte per mero esercizio di accostamenti pre-teorizzati. Da qui, la saturazione della “continuità orizzontale” che preclude possibilità tensive e creative è, in quanto tale, fuori dalle possibilità dell’inatteso. Ha l’effetto tragico di confondere la “completezza” con l’imitazione. Qui si cade, in definitiva, nelle zone di quel rischio di cui ci avvisava lo stesso Callieri, che propriamente hanno a che fare con il “vaneggiamento”. Se da un lato esiste un “rischio del simbolico” – diceva Callieri ricordando figure come Blake, Swedenborg, Ezechiele, Geremia – esiste pure un “rischio del vaneggiamento” che, all’interno del nostro discorso, si potrebbe tradurre con uno stato psichico del “senza inciampo”.

Da qui, cerco di seguire il prof. Pieri quando, nell’introduzione al volume di Atque (L’ordinarietà dell’inatteso), avanza l’ipotesi che forse «[…] la coscienza non sta propriamente nella nostra testa, ma è piuttosto espressione di quella soglia critica dove Sé e mondo si coappartengono» (Pieri, P.F. 2012, p. 10).

Se colgo bene l’interrogativo di Pieri, che mi sembra sottenda un invito all’esperienza di quella “soglia critica” quale sentiero individuativo, quello dell’inatteso allora, sembrerebbe rappresentare un atto così fortemente creativo da riuscire a produrmi come soggetto, proprio perché sembra agire negli spazi interstiziali estatici dove collassano, e forse si annientano reciprocamente, Sé e mondo.

La qualificazione “estatica” di queste esperienze nasce dalla necessità di descrivere un’istantanea fenomenica che ha a che fare con un inatteso di tipo radicale. Penso qui all’esperienza sensoriale del “senza immagine” (Bildlos), laddove l’Io non può imporre istantaneamente misure e conoscenza, ma diviene “soggetto” a una possessione verso un altrove inenarrabile. Sembra descriversi un delicato legame con il rapimento della possessione antecedente il darsi della conoscenza, proprio laddove si restituisce al “sentire” quel “senza immagine” quale annuncio per acquisizioni emergenti di conoscenza.

La disponibilità della mente dell’analista verso l’inatteso, agendo attraverso quell’«esercizio alla  permeabilizzazione della logica lineare» (Gigante, E. 2012, p. 145) definito da Elena Gigante, non può avvenire percorrendo processi e logiche causali, ma deve necessariamente attingere a modalità e processi di funzionamento che, per brevità, possiamo definire intuitivi e irrazionali. La disposizione mentale dell’analista che favorisce l’emersione di processi creativi tra sé e il paziente si riferisce ad una modalità del funzionamento mentale di tipo “non intenzionale”, “senza pensatore”, dove l’equilibrio si può trattenere nella maniera in cui si resiste alla tentazione di tradurre istantaneamente i contenuti del discorso analitico in coerenze razionali.

Il compito dell’analista allora, è quello di “confondere le acque”, nel senso di produrre nell’altro, attraverso il dialogo analitico, uno squarcio d’apertura alla creatività psichica. In questo senso, la stessa sofferenza mentale è “arredata sapientemente” nella mente del paziente, razionalmente circoscritta all’interno di un confine di sensatezza sovra-determinato, per cui, come dice Jung: «La psicologia analitica cerca di far breccia nelle mura» (1928, p. 408) per far emergere contenuti che l’intelletto razionale aveva rigettato.

Il tipo di funzionamento mentale dell’analista a lavoro che contempli la possibilità dell’imprevisto o che addirittura ne favorisca l’accadere, sembra avere a che fare con quel tipo di ascolto di cui parla Di Benedetto, a quel disporsi verso una «precognizione dell’inconscio. Circuitando temporaneamente il pensiero razionale […] comporta una sintonia sensoriale […] [che fa] recepire comunicazioni primarie, non ancora organizzate simbolicamente» (Di Benedetto, A. 2000, p. 57). Di Benedetto lo definisce «ascolto eccentrico, un’attenzione decentrata rispetto ai contenuti […] [un’attenzione che] sollecita la mente a retrocedere verso il corpo, nel quale si incarna sintomaticamente l’inconscio. […] un ascolto sospeso tra suono e significato predispone a un primo contatto sensoriale-uditivo con l’inconscio somatizzato» (ivi, p. 96). Questo tipo di “attenzione decentrata” che prevede una «sensibilità estesica» (ivi, p. 95) legata al corpo ha a che fare con una «presentificazione ai sensi dell’oggetto alla rappresentazione» (ivi, p. 81). Sembra fare eco alle parole di Baudelaire quando rintraccia nella sensibilità il genio dell’uomo (Calasso, R. 2008, p. 28). «Mi sono accontentato di sentire» – scrive Baudelaire (Ibidem). Dalla lettura di Calasso, Baudelaire “scelse la verticalità” della «sensazione, la pura apprensione dell’istante, la congenita inclinazione a sorprendersi in certe occasioni in cui la vita, come srotolando un lungo tappeto, rivela la profondità indefinita dei suoi piani» (ivi, p. 29).

Sembrerebbe un tipo di esercizio molto simile a quello cui siamo portati in chiave analitica. Una verticalità che si propone come veicolo di un’esperienza estetica, che in sé richiede «tolleranza del buio, […] incertezza e […] assenza di una visione chiara delle cose, e ci fa toccare una conoscenza inconsueta, primitiva, prevalentemente sensoriale, pre-logica, che disorienta nella misura in cui prescinde dalle usuali coordinate conoscitive» (Di Benedetto 2000, p. 78). Diventiamo allora, “persone alle prese con la verticalità”, avvicinate ad un sentire irrazionale “tipico dell’arte”, il cui fine ultimo è la creazione di senso nel darsi della rappresentazione.


Note

  • [1] Relazione dal titolo “Continuando il pensiero di Mario Trevi sulla psicopatologia del simbolo” presentato alla Tavola rotonda del 17 dicembre 2011 “In ricordo di Mario Trevi”, svoltasi nella sede di Roma del CIPA.

Bibliografia

  • Calasso, R. (2008), Folie Baudelaire. Adelphi, Milano 2010.
  • Cavalieri P., La Forgia M. e Marozza M. I. (a cura di). Atque. L’ordinarietà dell’inatteso, vol. 10 (nuova serie), (2012).
  • Di Benedetto, A. (2000), Prima della parola. L’ascolto psicoanalitico del non detto attraverso le forme dell’arte. Franco Angeli, Milano 2007.
  • Epstein, M. (1995), Thoughts Without a Thinker. Psychotherapy from a Buddhist Perspective, trad. Pensieri senza un pensatore. La psicoterapia e la meditazione buddhista. Astrolabio-Ubaldini editore, Roma 1996.
  • Gigante, E., “Nòstoi inauditi. Dalla percezione sonora fetale all’ascolto analitico”, in Atque, vol. 10 (nuova serie), (2012).
  • Jung, C.G. (1928), Analytical Psychology and “Weltanschauung”, trad. Psicologia analitica e concezione del mondo. In Opere, vol. 8, pp. 385-408. Bollati Boringhieri editore, Torino 2000.
  • Kafka, F. (1917-1918), Betrachtungen über Sünde, Leid, Hoffnung und den wahren Weg,  trad. Considerazioni sul peccato, il dolore, la speranza e la vera via. Mondadori, Milano 2003.
  • Loss, A. (1962), Ins Leere gesprochen Trotzdem, trad. Parole nel vuoto, Milano, Adelphi 2003.
  • Pieri, P.F., “Prefazione”, in Atque, vol. 10 (nuova serie), (2012).
  • Sass, L.A. (1992), Madness and Modernis: Insanity in the Light of Modern Art, Literature, and Thought, trad. Follia e modernità. La pazzia alla luce dell’arte, della letteratura e del pensiero moderni. Raffaello Cortina editore, Milano 2003.
  • Sloterdijk, P. (2009), Du mußt dein Leben ändern. Über Anthropotechnik, trad. Devi cambiare la tua vita. Raffaello Cortina editore, Milano 2010.

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