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La ricerca del senso in una nuova epoca di caos sistemico

Rivista annuale a cura del Centro Italiano di Psicologia Analitica Istituto di Roma e dell’Italia centrale

A tema

2023 Nuova Serie Numero 4 A Tema

A CURA DELLA REDAZIONE Se si dovesse sintetizzare in cosa si esprime l’essenza e lo specifico dell’attività di cura della psiche, si potrebbe riassumerla nel suo continuo ‘stare tra’: Logos ed Eros, esperienza della relazione e possibilità di riflessione, pratica clinica e teoria. La rubrica a tema si pone come uno spazio di confronto, di espressione ed elaborazione di tutte le tematiche che partendo dalla pratica clinica evolvono in visioni della psiche, favorendo la possibilità di mantenere continuamente viva una sospensione che si interroga.

La ricerca del senso in una nuova epoca di caos sistemico

Molte obiezioni si sono accumulate nel corso del Novecento alla possibilità di trovare un senso possibile nel crogiolo disparato e contradditorio, spesso tremendamente conflittuale, della storia del mondo: come moltissimi ormai ripetono, anche l’ultimo idolo, l’affidarsi al ‘progresso’ come speranza di graduale superamento del macello della storia, si è disfatto senza lasciare eredi possibili che ci facciano intravvedere una riconoscibile linea di avvicinamento a una figura del mondo in via di miglioramento, nonostante gli ostacoli, le marce indietro, le ignominie che ne costellano il faticoso avanzare.

Invece di cercare di rispondere a questa obiezione circa l’inesistenza di un progresso nel bene, deducendone l’inesistenza delle possibilità di senso (una deduzione, come cercherò di dire, approssimativa, per non dire illogica), vorrei proporre almeno qualche spunto che cerchi di dare un contorno – necessariamente sintetico – al mio discorso.

A grandi, e imprecise, linee, direi che una prima obiezione fondamentale riguarda l’inesistenza di un senso da ‘trovare’ già presente nella ‘realtà’, un senso che noi potremmo cercare in quanto presente indipendentemente dalle nostre costruzioni culturali (sociali e psichiche). Si sottintende, fra l’altro, che questo senso da trovare sia un ‘senso buono’ come opposto al ‘non-senso’. Mi sembra evidente, anche quando non si dice chiaramente, che, per queste interpretazioni, nella cultura euroamericana il non-senso si opponga alla concezione cristiana del divino e della rivelazione escatologica della redenzione del mondo nella sua trasformazione in un mondo nuovo. E questo, per molti pensatori, è però il corrispettivo religioso-simbolico di tutte le filosofie più o meno sbrigativamente accorpate nel pensiero ‘progressista’ o ‘rivoluzionario’. Per nominare solo due esponenti-radice della contestazione della validità delle credenze in un senso già dato, possiamo limitarci a ricordare Nietzsche e Weber. Ma entrambi, pur se secondo due ordini di pensiero diversi, pensano a una genealogia del senso già dato e ormai tramontante, propongono quindi risposte o legate ai diversi sensi dell’azione, come in Weber, dentro un mondo ormai disincantato (cioè, appunto, il cui senso non si trova più nella oggettività del reale ma nelle diverse forme dell’agire sociale), o nella proposta di un nuovo senso che la critica liberatoria dall’illusione religiosa cristiana potrebbe costruire-trovare nella simbolica vitalistica della ‘terra’ (il senso della terra, partorito dal caos creatore che Nietzsche annuncia nell’introduzione del suo Così parlò Zarathustra).

Queste teorie del senso non mi convincono, mi sembrano tutte riferibili a una polemica storico-culturale specifica, appunto alla ‘critica del cristianesimo’ (peraltro assai poco approfondita – perché limitata al ‘cristianesimo egemonico’ delle Chiese protestanti e cattolico-romana – ancora incapace di ricostruire una immagine del cristianesimo come movimento infinitamente più complesso, dalle origini fin dentro alla storia medioevale, almeno).

La mia obiezione è semplice quanto radicale, ed è di tipo antropologico: il senso ci costituisce in primo luogo in quanto umani (animali umani) e, in secondo luogo, in quanto creatori di cultura, a partire dalla invenzione di utensili e di utensili per fabbricare altri utensili, cioè in quanto specie specializzata nel lavoro e in ogni sua derivazione culturale, fino all’uso della prima natura come dipendente dalle abilità di trasformarla in base alle capacità sviluppate nella ‘seconda natura’, che è il deposito storico-culturale delle vicende della specie. Noi siamo esseri orientati già nelle disposizioni fisiologiche della nostra corporeità (diversamente ma in modo simile a tutti i viventi): dagli organi di senso alle nostre potenzialità di azione nell’ambiente (basta pensare all’andatura, alla visione, all’udito, al tatto, al movimento delle mani); ma qualsiasi gesto che derivi dalla storia culturale – questo dello scrivere e del leggere, per esempio – è orientato. Anche se scrivo parole che cerchino di evocare il non-senso, o disegno forme non-forme per dare un’immagine al caos, sto agendo in una direzione determinata (una successione di lettere, una immagine fatta da segni, comunque diversi e articolati in un certo modo, quale che esso sia). Dunque il non-senso, propriamente, non esiste e significa invece un senso sbagliato, disorientante, da evitare – proprio come nel linguaggio comune quando si dice: ‘ma questa cosa, questo progetto, non ha senso’. Ogni contestazione possibile del senso è a sua volta costruita attraverso ‘un senso’ che orienta il pensiero, la parola, l’azione (Màdera 2012; 2022. Sul tema del nesso tra storia economico-sociale e psiche cfr. Carrara, Màdera 2018).

Questa è la premessa necessaria per cercare di farmi capire quando parlo del ‘trauma del senso’ come proprio della nostra epoca e dal quale discendono le varie psicopatologie. Perché ‘trauma del senso’? Perché se il senso è un’invariante dell’umano dalla sua stessa genesi in poi, allora il sentimento di precipitare in un ‘non-senso’ che è rappresentato dal ‘caos’, dalla confusiva sovrapposizione e costante distruzione reciproca di disparate e momentanee ‘illusioni’ di senso, attacca le basi stesse dell’umano, la fiducia di potere-sapere stare al mondo ed avere a che fare con il mondo, quindi prima di tutto di saper creare e mantenere relazioni costruttive (ricche di senso-buono con altri). Il caos è la continua e pervasiva distruzione di ogni direzione di senso capace di una qualche durata e di un qualche percorso verso una qualche finalità. Si può obbiettare che proprio questa attitudine è quella da coltivare per liberarsi dalle mitologie della durata, dei progetti, delle costruzioni identitarie al fondo ‘false’ etc. etc. Ma si rischia di confondere così proprio la più profonda ricerca di senso, fatta di esercizio quotidiano (di ‘ascesi’ avrebbero detto l’antica filosofia greca e moltissime tradizioni religiose d’occidente e d’oriente), tesa alla illuminazione o alla apertura alla rivelazione, con la disperante agitazione (o con il suo contrario, simile quanto a disagio: il ritiro dalle relazioni) che caratterizza il nostro attuale viaggio storico-culturale dentro un’epoca di caos sistemico.

Cosa vuol dire, per l’essenziale, caos sistemico? (Cappelletty, Màdera 2020). Per prima cosa – poiché, quali che siano le determinanti etologiche, è la nostra posizione nello spazio-tempo storico-culturale che ci fa interagire con esse – è il caos che pervade la fase storica presente: nelle dominanti culturali dell’epoca, nelle strutture socio-politiche (Arrighi, Silver 2003) e, quindi, nelle dinamiche relazionali e intrapsichiche che intessono le biografie e la ricerca (o la disperazione) di un senso plausibile per condurre la propria vita. La dominante culturale è rappresentata per me dal fenomeno che ho chiamato licitazionismo: ‘tutto è lecito’, ‘l’unica regola è non avere regole’, ‘il futuro non ha limiti’ etc. etc. Non sono esagerazioni pubblicitarie, al contrario condensano la dinamica dell’epoca del capitalismo globale (globale in senso geografico, ma soprattutto pervasivo di ogni aspetto della nostra educazione, formazione e aspettativa, oltre che dei livelli di benessere o disagio economico e dei nostri stessi desideri, modi di agire e progettare). Ma, a questa caratteristica della configurazione storico-culturale dell’epoca, si devono aggiungere gli aspetti della fase specifica del mondo uscito dall’equilibrio (per quanto fosse un equilibrio del terrore della guerra atomica) dei blocchi contrapposti e dal fallimento dell’egemonia USA. Il risultato, come tragicamente si vede, è una epidemia di guerre, di guerriglie, di atti terroristici sempre in agguato in gran parte del mondo, di sprofondamenti socio-economici di intere popolazioni costrette all’emigrazione, di insicurezza generalizzata anche nel centro del sistema e nelle sue semiperiferie più sviluppate. L’incertezza dilagante mina le prospettive progettuali delle giovani generazioni e inquieta, di riflesso, le generazioni adulte. Il caos sistemico diventa caos nella psiche dei singoli, le biografie faticano a riconoscersi in una storia, il culto del momento zoppica fino a manifestarsi come oscillazione e precarietà angustiante e deprimente. Ne sembra intaccata la possibilità di fare ‘esperienza’, come già profetizzava Benjamin (Jedlowski 1998).

Così tutto oscilla confusamente, saltimbeccando (quando va bene), o spezzettandosi (quando va male) in attività disparate e in blocchi improvvisi. La contestazione dei processi identitari rischia di capovolgersi in disidentità con sé stessi, in arlecchini cubisti incerti del loro stesso costume di scena.

Non basta affatto limitarsi a una psicopatologia specifica, benché spesso anch’essa sia parte di questa configurazione storico-culturale, che registri questa perdita di direzione e di equilibrio rimandando a una espansione di disturbi psichici gravi come, per esempio, quelli borderline, associati, ma anche distinguibili, dall’ancora più diffusa organizzazione borderline di personalità (Kernberg 1967; sul tema delle sindromi di personalità cfr. Lingiardi, McWilliams 2018, cap. I), o a quelli depressivi, all’anoressia-bulimia etc. etc. Certo, sarebbe illuminante avere almeno un quadro ipotetico del nesso tra trasformazioni socio-culturali e forme delle psicopatologie e infatti, chi ha proposto studi di questo genere, come La fatica di essere se stessi di Ehrenberg (pubblicato nel 1998 e tradotto da Einaudi nel 2010), ha indicato una nuova via di comprensione tanto del nostro mondo socio-culturale quanto della concreta anima del mondo. Una via, questa del nesso strutturante tra dimensione storico-culturale e trasformazioni psichiche, che è rimasta ai margini delle grandi correnti delle psicologie del profondo, con l’eccezione di Alfred Adler, di Wilhelm Reich e di Erich Fromm e altri meno noti e seguiti. Certo anche Jung accenna a un nesso forte, addirittura fondante, tra un sistema di relazioni sociali ‘ammalato’ e i disturbi nevrotici del singolo ma, nella mia lettura, non va oltre l’affondo intuitivo:

Circa un terzo dei miei casi non soffre di una nevrosi clinicamente determinabile, bensì del fatto di non trovare senso e scopo alla vita. Non ho nulla in contrario a che questo stato sia definito nevrosi comune del nostro tempo (Jung 1929/1993, p. 50).

Jung arriva quindi a considerare la psicopatologia del singolo come essa stessa un sintomo di un sistema malato: «Il solo punto di vista clinico non penetra né può penetrare la natura delle nevrosi, perché questa è più un fenomeno psicosociale che una malattia in senso stretto. La nevrosi ci costringe a estendere il concetto di ‘malattia’ al di là di un corpo singolo disturbato nelle sue funzioni e a considerare il nevrotico come un sistema di relazioni sociali ammalato» (Jung, 1935/1993, p. 30). Ora il senso è appunto una direzione nella vita, che vuol dire: nei rapporti con gli altri, con se stessi, con la percezione del proprio organismo e della natura esterna. Non si può scindere l’atteggiamento spirituale – cioè il più distante possibile dalla ‘necessità’ delle funzioni filogeneticamente ereditate, che Jung, approssimativamente, chiama ‘istinti’ – dagli stimoli e dalle reazioni fisiologiche, direttamente corporee.

Il ‘senso’ è qualcosa di spirituale. La si chiami pure ‘finzione’. Ma con una finzione noi agiamo sulla malattia in modo infinitamente più efficace che con preparati chimici, anzi agiamo perfino sul processo biochimico del corpo […] le finzioni, le illusioni, le opinioni sono le cose più intangibili e irreali che si possano immaginare, eppure da un punto di vista psicologico e perfino psicofisico sono le più efficaci. Su questa via la medicina ha scoperto la psiche e non può più onestamente negare la sostanza di ciò che è psichico (Jung 1932/1979, pp. 313 e ss).

Rimane comunque decisiva, in Jung, la sottolineatura della funzione centrale del senso come direzione complessiva della vita, cioè come senso psicospirituale: si potrebbe dire che è proprio questa ricerca di un senso, capace di accettare e di ri-significare l’esperienza contradditoria e conflittuale dell’esistenza, la direzione al centro della cura perché al centro dell’esperienza di vita.

Soltanto ciò che ha significato redime. Il buon senso quotidiano, il senso comune, la scienza quale concentrato di senso comune ci accompagnano per un buon tratto, ma mai oltre la pietra miliare della più banale realtà e della media normalità. Essi non danno risposta alcuna al problema della sofferenza psichica e del suo più profondo significato. La psiconevrosi è in ultima analisi una sofferenza della psiche che non ha trovato il proprio significato. Ma dalla sofferenza della psiche deriva ogni creazione spirituale e ogni progresso dell’uomo spirituale; e la sofferenza è dovuta al ristagno spirituale, alla sterilità psichica (Ibidem).

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Nel ripresentarsi della situazione di caos che, in forma diversa, ha già portato alle distruzioni di massa delle due guerre mondiali del Novecento e che ora si manifesta in una lotta per l’egemonia tra due grandi potenze, una più forte ma in declino – gli USA – e un’altra in crescita ma ancora meno influente sullo scacchiere globale, la Cina, entrambe tuttavia evidentemente impotenti nel controllare e frenare il diffondersi a macchie di leopardo di instabilità regionali che sfociano di continuo in guerre locali (dallo spazio dell’ex URSS al Medio Oriente a molte regioni africane), ancora più nettamente e drammaticamente risalta la crisi dei ‘garanti metasociali’, come li chiama Kaës, o delle ‘agenzie di senso’ come preferisco chiamarle io – insomma delle religioni, delle ideologie, delle istituzioni politiche e culturali etc. etc. Proprio per questo la ricerca di senso rimane decisiva, come in ogni storia delle culture umane, ma diventa persino esigenza primaria urgente e drammatica.

La testimonianza che per Jung il tema del senso come dramma della biografia e della sua mitobiografia animica sia il suo mito centrale, è data dal lavoro di Aniela Jaffé nei due libri che raccolgono le testimonianze delle ultime meditazioni di Jung sulla sua vita e la sua opera: il celebre Ricordi, sogni, riflessioni, pubblicato nel 1961, e In dialogo con C.G. Jung del 2021. Entrambi questi testi muovono dalla radice dell’esperienza di vita, dicono cioè che è l’esperienza, il modo di vivere, la sorgente, e la finalità, della ricerca del sapere e del non-sapere psichico: su questa base soltanto si può cercare di comprendere l’attività professionale e scientifica di Jung come psichiatra e come ricercatore scientifico. Ma esperienza e lavoro sono sorgente e destinazione di ciò che è decisivo nel cercare e dare un senso, una direzione alla vita stessa: la consapevolezza della mortalità e la sua protensione verso l’eterno. Tutto tende al confronto con l’architrave del senso: l’immagine dell’uomo in relazione – di affermazione, di negazione o di problematizzazione – con l’immagine di ‘Dio’ (quale che sia il nome di ciò che ci riguarda in ultima istanza) e, quindi, con la visione del mondo. Questi libri della Jaffé, scritti dalla più attendibile testimone del tormentato sapere e non sapere del maestro zurighese, dimostrano ancora una volta che non ci può essere Jung se si scarta il cuore della sua vita e della sua ricerca. D’altra parte proprio la Jaffé ha dato al suo libro più importante un titolo che dice l’essenziale del suo pensiero e della visione del mondo di Jung: Der Mythus vom Sinn, Il Mito del Senso, pubblicato nel 1967 (non ancora, purtroppo, tradotto in italiano).

Certo, il mito di Jung è il mito del senso, come altrimenti si potrebbero intendere le parole già citate: «La psiconevrosi è in ultima analisi una sofferenza della psiche che non ha trovato il proprio significato. Ma dalla sofferenza della psiche deriva ogni creazione spirituale e ogni progresso dell’uomo spirituale; e la sofferenza è dovuta al ristagno spirituale, alla sterilità psichica».

Jung spesso ironizzava sui filosofi perché non sanno dire cose che servano alla vita. Ma intendeva parlare dei filosofi delle Università perché, quanto alla sua stessa attività, disse che la psicologia analitica poteva essere avvicinata a ‘qualcosa di simile alla filosofia antica’, cioè alla filosofia quando era ancora un modo di vivere. Scrive Jung: «il vero filosofo – con il che non mi riferisco a un professore di filosofia, il quale per definitionem non è filosofo, visto che si limita a costruire discorsi e non vive mai il proprio pensiero – è colui che trae conclusioni valide per la propria vita: non si tratta di semplici chiacchiere. Egli vive la propria verità, non si riferisce a una sequela di parole, ma a un particolare modello di vita, e anche se non riesce a viverlo fino in fondo, vi si riferisce e vi si approssima». Queste parole vengono da uno degli ultimi seminari di Jung sullo Zarathustra di Nietzsche e non è affatto una frase buttata lì, ha invece a che fare con il confronto più serrato, tormentato e profondo, che Jung abbia mai avuto con un altro grande pensatore, il filosofo che lo inquietava perché era in risonanza con la sua personalità altra, la numero 2, come usava chiamarla. E se Jung ha osato rispondere a Giobbe si può tranquillamente, e a ben maggior ragione, dire che ha risposto a Nietzsche. Ne segue che il suo intero lavoro può essere inteso come una risposta alla ‘morte di Dio’, cioè alla scomparsa del ‘mito del senso’. È questo quello di cui ha ricercato le tracce nell’inconscio personale e collettivo[1].

 


Note

  • [1] Certo, uscendo dagli asfittici autoriferimenti delle scuole delle psicologie del profondo, già chiamati ‘scandalo’ da Ernst Bernhard, si dovrebbe, come minimo, su questo tema del senso, mettere a confronto le ricerche di Jung e della sua scuola con quelle di Viktor Frankl e della sua scuola. Per una sintesi magistrale del pensiero di Frankl su questo argomento per lui centrale cfr. Costello 2016.

Bibliografia

  • Arrighi G., Silver B. 2003, Caos e governo del mondo, Bruno Mondadori, Milano.
  • Cappelletty G., Màdera R. 2020, Il caos del mondo e il caos degli affetti, Claudiana, Torino.
  • Carrara S., Màdera R. 2018 (a cura di), Psiche bene comune, in «Rivista di Psicologia Analitica», n. 46/98.
  • Costello S.J. 2016, The Spirit of Logotherapy, in «Religions» n. 7,3, (www. mdpi.com/journals/religions).
  • Ehrenberg A. 1998, trad. it. La fatica di essere se stessi, Einaudi, Torino 2010.
  • Jedlowski P. 1998, Il sapere dell’esperienza, Il Saggiatore, Milano (nuova edizione rivista, Carocci 2008).
  • Jung C.G. 1929/1993, Scopi della psicoterapia, in OCGJ, vol. 16, Bollati Boringhieri, Torino.
  • Jung C.G. 1932/1979, I rapporti della psicoterapia con la cura d’anime, in OCGJ, vol. 11, Bollati Boringhieri, Torino.
  • Jung C.G. 1935/1993, Che cos’è la psicoterapia?, in OCGJ, vol. 16, Bollati Boringhieri, Torino.
  • Kernberg O.F. 1967, Borderline personality organization, in «Journal of the American Psychoanalytic Association», vol. XV.
  • Lingiardi V., McWilliams N. 2018, Manuale Diagnostico Psicodinamico, Cortina, Milano.
  • Màdera R. 2012, La carta del senso. Psicologia del profondo e vita filosofica, Cortina, Milano.
  • Màdera R. 2022, Il metodo biografico come formazione, cura, filosofia, Cortina, Milano.
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